sabato 29 settembre 2018

venerdì 28 settembre 2018

giovedì 27 settembre 2018

ANAMNESI. Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta




ANAMNESI
Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta
a cura di Sandro Ricaldone

29 settembre/17 ottobre 2018
Da lunedì al sabato
ore 15.00/18.00

Si inaugura sabato 29 settembre (ore 18,30), nello Spazio 21 all'ex ospedale psichiatrico di Quarto (via Giovanni Maggio 4, Genova), nell’ambito della VII edizione della manifestazione  “Quarto Pianeta” dal titolo “Insieme”, organizzata dal Coordinamento per Quarto, la mostra di Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta “Anamnesi”, curata da Sandro Ricaldone.

La parola anamnesi, che contiene al suo interno le dimensioni della memoria, della malattia e del sacro, diventa il filo invisibile che unisce il lavoro di due artisti, Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta, protagonisti dell'arte genovese degli ultimi cinquant'anni. Non si poteva quindi immaginare uno spazio più appropriato di quello dell’ex ospedale psichiatrico il Quarto per questa mostra che raccoglie una selezione di opere che i due artisti doneranno al Museo dell’Istituto delle materie e delle forme inconsapevoli, creato dal loro amico Claudio Costa.

I vocabolari registrano infatti alla voce anamnesi tre significati diversi. Il primo, reminiscenza, ricordo; è adoperato soprattutto nell’enunciazione di un concetto fondamentale della filosofia di Platone, per cui la conoscenza vera si fonda sull’anamnesi delle idee conosciute dall’anima in una propria esistenza iperuranica anteriormente al suo ingresso nel corpo. Il secondo riguarda la storia clinica di un malato, raccolta dal medico direttamente o indirettamente come elemento fondamentale per la formulazione della diagnosi; il terzo significato concerne invece la liturgia cristiana, e definisce la parte del canone della messa che, immediatamente dopo la consacrazione, ricorda la passione, risurrezione e ascensione di Cristo ed è detta anche memoriale.

    Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta (26.09.2018)


Ecco il testo introduttivo di Sandro Ricaldone

La plus ou moins grande qualité plastique n’est jamais que le signe de la plus ou moins grande obsession de l’artiste par son sujet. (1)

Alberto Giacometti

Nel suo Discours aux peintres (2) René Crevel, a dispetto della sua militanza surrealista, esordiva affermando: “Davanti al dipinto più sconvolgente guardatevi dal gridare al miracolo della generazione spontanea. Hanno una radice, si aggrappano al quotidiano questi fugaci convolvoli dell’inconscio che coprono di venature il labirinto esoterico e segnano certe strade nel più inestricabile dei labirinti interiori. Possiamo riconoscere l’onnipotenza di questi fili tesi, senza essere tentati di farne delle linee di frontiera. L’analisi ha per troppo tempo, troppo impunemente, diviso e frammentato. Aveva costruito recinti attorno ai più infimi granuli di stato psichico. Ora, come ha constatato Hegel, lo spirito non è che una riserva di facoltà”.

Nell’osservare le opere degli artisti dovremmo (dobbiamo) dunque, secondo il poeta francese, ricercare questi “fili tesi”, tentare di comprendere come si leghino al quotidiano e al tempo stesso scavalcare le barriere che occultano gli “stati psichici” in rapporto ai quali si sono delineate, ritrovare il percorso che ha presieduto alla loro creazione.

A mostrarci come l’operare stesso dell’artista consista, in ultima analisi, in una ricognizione intesa a mettere in rapporto gli oggetti sensibili con l’esperienza interiore, in un’anamnesi nel senso più esteso del termine, che include i significati di reminiscenza, diagnosi, evocazione del mistero, viene ora una mostra che, per rimanere in argomento, si potrebbe definire sintomatica e che sin dal titolo si rifà a questo intreccio di motivi.

La propensione per l’immagine simbolica, o forse – si può azzardare, utilizzando con un’espressione bretoniana – per l’“objet à fonctionnement symbolique” è da lunghissimo tempo al centro del lavoro di Beppe Dellepiane. La sedia come raffigurazione del corpo umano, come ritratto e autoritratto, la valigia come cavità primordiale e uterina, la bicicletta dorata come animale in corsa, la croce come articolazione e redenzione del mondo, hanno innervato lungo i decenni la sua ricerca, trasferendosi in prosieguo nel disegno della figura distorta della casa-caverna, della scala-ascesi, del carro-corpo. Negli archetipi obliterati da un’ipermodernità standardizzata, negli accumuli di materiali metamorfici, Dellepiane rammemora una matrice ancestrale, un’attrezzeria liturgica di cui valersi in una cerimonia ad un tempo secolarizzata e mistica; impagina un’inquietudine protesa oltre il limite del sogno e dell’ombra.

Giuliano Galletta innalza, con l’installazione "Traumdeutung", realizzata per l’occasione, una barriera rutilante fra luce e ombra, palesando – con uno scriptum che diviene azione – di aver compreso “come le parole non siano «meri garbati simboli» ma debbano sapere della cosa che dicono” (4). Qui la situazione, che pure rimanda alla prima indagine freudiana, non è “messa in scena dalla parola, ma è la parola stessa” (5), il luogo in cui ciò che la parola indica e nasconde raggiunge la sua emblematica evidenza.

Anche per Galletta il percorso verso la trasparenza del simbolico ha attraversato una lunga gestazione, condotta lungo i meandri di un pensiero costantemente attratto dal perturbante, dall’associazione tra oggetto usuale e alterazione dello sfondo (si veda a esempio l’immagine del grande materasso innestato di steli di garofani, nell’installazione "Mentre dormivo", 1993), dall’indecidibilità ontologica e dall’orrore quotidiano, enunciato nell’opera-frase "In linea di massima l’essenziale è mostruoso" (2006). 

L’interazione fra i lavori dei due artisti, ospitati nello spazio 21 dell’ex Ospedale Psichiatrico di Quarto, gestito dall’Istituto per le Materie e le Forme inconsapevoli, si presenta come un teatro di immagini dominato dal simbolo e dalla parola, una situazione di totale immanenza che – per ciò stesso, in modo paradossale – apre una prospettiva di lancinante ulteriorità. 

Sandro Ricaldone

Note:
1) ALBERTO GIACOMETTI, "À propos de Jacques Callot", Labyrinthe n. 7, 15 avril 1945, p. 3.
2) RENÉ CREVEL, "Discours aux peintres", revue "Commune", deuxième année, n° 22 (juin 1935). Trad. it. in René Crevel, Scritti d’arte, Medusa, Medusa, Milano 2017, pp. 69 ss.
3) René Crevel, nato a Parigi il 10 agosto 1900, è stato uno scrittore e poeta francese, legato al movimento surrealista. Tra le sue opere principali "Détours" (1925), "La mort difficile" (1926), "Dalí ou l'anti-obscurantisme" (1931), "Le Clavecin de Diderot" (1932), "Les pieds dans le plat" (1933). Muore suicida a Parigi il 18 giugno 1935.
4) L’espressione è ripresa da MASSIMO CACCIARI, "Hamletica", Adelphi, Milano 2009, p. 77.
5) Ibidem, p. 78.



Quarto Pianeta 2018 – INSIEME
VII Edizione
25/30 settembre 2018


Siamo così arrivati alla settima edizione. Noi continuiamo a crederci. In una città divisa e messa alla prova dal crollo del Ponte Morandi proviamo ad andare avanti e fare la nostra piccola parte. Come ci siamo detti nelle scorse edizioni ri-generarsi è possibile. In questa edizione vogliamo mettere l’accento che questo è possibile se lo facciamo INSIEME. La complessità nella quale siamo immersi chiede tale modalità di pensiero e di azione. INSIEME per avere la visione più ampia e inclusiva possibile, INSIEME per mettere a frutto tutte le energie disponibili e necessarie, INSIEME per remare nella stessa direzione e con lo stesso ritmo, per il bene comune.

In programma eventi per tutti, giovani, anziani, operatori socio-sanitari, architetti, artisti, attivisti, politici, sognatori,….Eventi per ascoltare musica, dibattiti, conferenze e presentazione di libri, per ballare, vedere mostre, danza, film e interventi artistici sui muri, per gustare aperitivi e specialità!  Per tutta la durata di Quarto Pianeta sarà aperto LIBRIamoci a Quarto! Tanti libri per chi ama la lettura: dall’arte alla poesia, dalla storia alla gastronomia, dalle fiabe fino ai saggi universitari, donati dalla Casa Editrice De Ferrari di Genova per la raccolta fondi destinati al MUSEO DELLE FORME INCONSAPEVOLI fondato da Claudio Costa a sostegno delle spese di trasferimento nello Spazio 21, le ex cucine dell’ospedale psichiatrico.




Il traghettatore



Passare un fiume rappresenta sempre un'avventura alla ricerca di un altrove.

Giorgio Amico

Il traghettatore

Da bambino abitavo in un piccolo paese di campagna situato lungo la riva di un fiume. Non un grande fiume, quasi un torrente, ma che diventava grande e impetuoso negli ultimi chilometri del suo corso, quasi al momento di buttarsi in mare. Non c'erano ponti allora. Il primo fu costruito solo agli inizi degli anni Sessanta. Ho ancora da qualche parte una foto dell'inaugurazione che ritrae anche me allora poco più di un bambino. Per passare da una riva all'altra si prendeva un traghetto, una piccola chiatta capace di ospitare una decina di persone, qualche bicicletta e forse, nel caso, un paio di mucche. Macchine no, allora ne circolavano poche e comunque non passavano da lì.

Una lunga e robusta fune d'acciaio univa le due sponde e ad essa era legata la chiatta che veniva spostata, grazie ad un ingegnoso sistema di carrucole, a forza di braccia da una sorta di gigante, conosciuto come Panzanera per l'abbronzatura della pelle e le dimensioni pantagrueliche dell'addome.

Per me bambino passare il fiume sul traghetto di Panzanera era un'avventura senza eguali. Per quanto piccolo avevo già scoperto la magia dei romanzi di Salgari e i canneti lungo le rive mi facevano immediatamente pensare a uomini in agguato e tigri feroci pronte al balzo. Pensavo alle paludi del Bengala e ai crudeli thugs, gli strangolatori dal laccio di seta, adoratori della sanguinaria dea Kalì. Ma non avevo paura, perché accanto a me c'era mio padre, il maresciallo dei carabinieri del paese che ogni tanto mi portava con sé nei suoi giri di ispezione. Fin da piccolo avevo notato, senza ben capirne il perché, il riguardo timoroso con cui gli altri si rivolgevano a lui, il silenzio che si creava quando si entrava nelle osterie di campagna. Come i canti cessassero e i giocatori di carte abbassassero il tono della voce. E poi quasi immediato il saluto ossequioso del padrone. Ero un bambino e non potevo sapere nulla dell'effetto che ancora poteva fare una divisa in un'Italia appena uscita dalla parentesi buia della dittatura e da una guerra che anche lì aveva visto la ferocia dell'occupazione tedesca. Un paese povero dove la gente si arrangiava come poteva. 

Quel silenzio, che si creava improvviso attorno a noi, mi pareva solo rispetto, mi inorgogliva, mi faceva sentire importante. Ma sul traghetto era un'altra cosa. Panzanera non faceva silenzio, ne mostrava un particolare ossequio, continuare a regnare sulla sua piccola chiatta indifferente a tutto e a tutti e al suo confronto mio padre quasi spariva. La cosa un poco mi turbava e ogni volta il fascino di quel gigante scuro ne usciva ulteriormente accresciuto.

Il tempo è passato, dal 1962 il traghetto è sparito, soppiantato da un ponte moderno che il fiume si è già portato via più volte. Ma la figura magica del traghettatore non mi ha mai abbandonato e l'ho ritrovata ogni volta che la vita mi ha fatto incontrare uomini che, contro venti e maree, cercavano tenacemente di traghettare altri uomini dalla sponda grigia del conformismo a quella verdeggiante e misteriosa della libertà, a vivere, oltre i flutti tumultuosi della vita, avventure degne di essere ricordate.

Traghettatore è stato il prof. Locatelli, il mio vecchio insegnante di latino e greco, e Don Bof, prete, confidente e amico, e Lello De Cicco, che aveva solo tre anni più di me, ma mi fa fatto scoprire la grande utopia del comunismo. Traghettatori verso un altrove senza pirati e tigri, ma non meno meritevole di essere cercato.


mercoledì 26 settembre 2018

"Il Cinema Ritrovato - al Cinema" - stagione 2018/2019


Forse il cinema non riproduce fedelmente la vita, ma sicuramente aiuta a vivere. Al Nuovofilmstudio di Savona ancora una grande stagione di film “ritrovati” e da non perdere.

Nuovofilmstudio e Cineteca di Bologna presentano
"Il Cinema Ritrovato - al Cinema" - stagione 2018/2019

Classici che ritrovano il grande schermo, l'incontro vivo con il pubblico di una sala cinematografica: si tratta di film restaurati negli ultimi anni con tecnologia digitale, riportati a uno splendore e a una nitidezza visiva mai raggiunti prima. Una vera e propria stagione di novità che copre l’intero anno. Perché crediamo che, visti in sala, questi tornino a essere nuovi film, pronti a conquistare il pubblico di tutte le generazioni.


Calendario della stagione:

Martedì 25 (18.00) e mercoledì 26 (15.30 - 21.15) settembre
Toro scatenato (Raging bull)
di Martin Scorsese, con Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty - USA 1980, 129'

Novembre (date da definire)
Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet)
di Ingmar Bergman, con Max von Sydow, Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot - Svezia 1957, 96’

Dicembre (date da definire)
L’appartamento (The apartment)
di Billy Wilder, con Jack Lemmon, Shirley MacLaine, Fred MacMurray - USA 1960, 125'

Gennaio (date da definire)
Gli uccelli (The birds)
di Alfred Hitchcock, con Tippi Hedren, Rod Taylor, Jessica Tandy - USA 1960, 119’

Febbraio (date da definire)
Ladri di biciclette
di Vittorio De Sica, con Lamberto Maggiorani, Enzo Stajola, Lianella Carell - Italia 1948, 88’

Marzo (date da definire)
Jules et Jim
di François Truffaut, con Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre - Francia 1961, 110’

giovedì 20 settembre 2018

Un'imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione



Un'imprevedibile situazione – arte, vino, ribellione: nasce il situazionismo

Luglio 1957. Sulle Alpi Marittime liguri, nella casa di un pittore e della moglie, arrivano due intellettuali francesi e un artista inglese che fotografa tutti, un visionario danese, la figlia di una celebre collezionista d’arte, un musicista geniale e un farmacista che si è fatto teorico dell’arte. È l’inizio di quella provocazione artistica che sarà l’Internazionale Situazionista, una rivoluzione sotterranea che ha infiammato il Sessantotto e resiste ancora.


28 settembre 2018
dalle 18:00 alle 19:00
Genova Palazzo Ducale

L’autrice Donatella Alfonso dialoga con Giorgio Amico e Maria Teresa Carbone.

Organizzatore: Il Melangolo




giovedì 13 settembre 2018

Platone e la memoria artificiale




L'uso a scuola di computer, tablet o smartphone aiuta nello studio o no? Una vecchia questione.

Giorgio Amico

Platone e la memoria artificiale

Come ogni anno a settembre giornali e televisioni si ricordano della scuola. Al tema evergreen del costo dei libri di testo, si aggiungono quest'anno il problema delle vaccinazioni e (a causa dello shock emotivo conseguente al crollo del ponte Morandi) quello della sicurezza dei locali scolastici spesso fatiscenti e privi della certificazione sulla sicurezza. Qualcuno si ricorda anche che la scuola è (o dovrebbe essere) luogo di apprendimento e allora l'inizio delle lezioni diventa occasione di riflessione sulla didattica. Il tema dominante da qualche anno è quello dell'uso in classe di computer, smartphone, tablet. Utili per alcuni, dannosi per altri. Il principale argomento di chi ne nega l'utilità è che questi apparecchi invoglino gli studenti alla pigrizia e provochino un calo delle capacità mnemoniche. Insomma, perchè studiare cose che senza alcuno sforzo sono recuperabili tramite la tastiera di un qualunque telefonino?

Sembra un dibattito legato alla modernità, impensabile anche solo pochi decenni fa, ma non è così. La questione in realtà è vecchia come il mondo, quello occidentale per lo meno. Vediamo come si poneva il problema nell'antica Grecia. Nel Fedro, composto probabilmente fra il 368 e il 363 a.C., Platone racconta il mito egiziano di Teuth, il dio civilizzatore inventore delle arti e della scrittura. Il progresso per l'umanità sembra gigantesco, ma non per tutti si tratta necessariamente di un progresso. Il re di tebe Thamus si permette di criticare l'opera del dio: incentiverà la pigrizia, sostiene il re, ora che le cose sono scritte, a portata di mano nei libri, perchè studiare e conservarne memoria? Ma vediamo il racconto di Platone:

“Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza».

Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti».

La somiglianza con il dibattito attuale è impressionante. I nuovi mezzi (oggi il tablet, allora la scrittura) sono nocivi perchè stimolano la pigrizia e riducono la capacità di memorizzare i dati appresi. In realtà la questione è più complessa. Platone è preoccupato dal fatto che il sapere scritto (il libro) finisca nelle mani “di chi non ha niente da spartire con esso”, di chi non ha strumenti per comprenderne il linguaggio e il significato. E' la preoccupazione dell'insegnante di oggi: soli davanti ad una tastiera, i ragazzi faticano ad orientarsi, a comprendere il senso autentico di ciò che leggono, a discernere il vero dal falso. Il risultato è una grande confusione e il prevalere di quelle che oggi si chiamano fake news, anche le più inverosimili. Per tornare al filosofo, quello che trovano i ragazzi sarebbe “l'apparenza e non la sostanza della sapienza”.

Anche in questo Platone si rivela nostro contemporaneo. Lasciati a se stessi, ammonisce, i più non sarebbero in grado di navigare nel mare delle conoscenze. Due le conseguenze negative: “un ingiusto disprezzo”, cioè il rifiuto di una cultura che non si riesce a comprendere, o “una vuota presunzione”, il delirio di onnipotenza di chi, pur non sapendo nulla, crede di conoscere tutto. Esaltazione dell'ignoranza e delirio di onnipotenza che vediamo dilagare attorno a noi attraverso l'uso compulsivo di Facebook o Twitter.

La soluzione? Per Platone come per gli insegnanti di oggi è una sola: la scuola. Il vero strumento di comunicazione del sapere ammonisce il filosofo è l'insegnamento diretto. Come una volta il libro, oggi il PC richiede questa necessaria mediazione, una sorta di apprendistato, in cui l'allievo si fornisca con l'aiuto dell'insegnante degli strumenti necessari alla navigazione, primo fra tutti il senso critico. E questo può scaturire solo “nel contesto dell'insegnamento”, insiste Platone, nel contesto della relazione interpersonale docente-allievo, della classe come ambiente comunicativo-relazionale, traduciamo noi nel linguaggio sociologico oggi di moda.

Impostato così, il problema dell'uso dei nuovi mezzi trova allora soluzione. La memoria artificiale del computer, come fu una volta per il libro, diventa strumento utilissimo, un mezzo, scrive Platone, “per aiutare la memoria di coloro che già sanno”. Di più e di meglio crediamo non si possa dire.

mercoledì 12 settembre 2018

Se trobar d'Oc


Resistere sulle scogliere di marmo



Giorgio Amico

Resistere sulle scogliere di marmo


Nel 1939, dopo la “notte dei cristalli”, che segnò l'inizio in Germania della persecuzione violenta degli ebrei, Ernst Jünger pubblica “Sulle scogliere di marmo” in cui denuncia l'irrompere nella società delle potenze demoniache dell'irrazionale e della violenza. Poi ci sarà il diluvio di sangue della guerra e l'orrore senza fine della shoah. Un libro a suo modo profetico, a dimostrazione di quanto la letteratura può interpretare (e persino precorrere) la storia. Ne riprendiamo una paginetta che suona sinistramente attuale.


“Non per caso infatti e non per un'avventura il vecchio era uscito dalla oscurità del bosco con il suo popolo di lemuri e aveva principiato ad agire. Gentaglia di tal sorta era stata un tempo dispersa come i ladri fuggono, e il suo rafforzarsi sembrava ora essere segno di un profondo mutamento avvenuto nell'ordine morale, nella sanità e persino nella salute religiosa del popolo. In questo ambito occorreva intervenire, ed erano quindi necessari ordinatori e nuovi teologi, cui il male fosse noto nelle sue apparenze e nelle sue radici; e solamente allora avrebbe giovato il taglio delle spade consacrate, a guisa di un fulmine nelle tenebre. Per queste ragioni dovevano i singoli vivere con chiarità e forza d'animo anche maggiore, secondo una disciplina più severa, testimoni di una nuova legittimità”.

(Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, p.77)

lunedì 10 settembre 2018

Ferrania Film Museum


domenica 9 settembre 2018

Giuliano Galletta, II ponte e il porto




Abbiamo aspettato per parlare del crollo del ponte che si placasse l'ondata emotiva e massmediatica. Iniziamo a parlarne oggi con questo intervento di Giuliano Galletta, artista, critico d'arte, storico, ma soprattutto attento e libero osservatore delle trasformazioni in atto. Leggendolo abbiamo pensato che pari pari il discorso valga anche per la Piattaforma Maersk, la discussa struttura in via di costruzione che modificherà in modo irreversibile gli assetti della rada e del territorio di Vado. Ci auguriamo di sbagliare, ma non ci pare di notare negli amministratori vadesi più lungimiranza di quelli di Genova.


Giuliano Galletta

Il ponte e il porto

Molti commentatori hanno osservato che il crollo di Ponte Morandi potrebbe diventare l'occasione per ripensare il futuro di Genova. Ma era necessario sacrificare 43 vite per ripensare il futuro della nostra città? Non credo. In realtà la catastrofe del 14 agosto ha evidenziato in modo tragico proprio l'assenza di tale progettualità. Ipotizziamo, ad esempio, che la società autostrade fosse intervenuta in tempo chiudendo il ponte per restaurarlo o ricostruirlo; i problemi a cui ci saremmo trovati di fronte sarebbero stati esattamente gli stessi di oggi. Nessuno ha mai pensato a un piano B, che prevedesse un'eventualità del genere. Non dico il crollo, ma la semplice chiusura, un'eventualità che veniva considerata probabile se non inevitabile. Tutti sapevano benissimo che una “metropoli” come Genova, il porto più importante d'Italia, era in balia di quel chilometro di calcestruzzo.

Dov'era la classe dirigente, dov'erano i governi, i ministri e i parlamentari ligur, le amministrazioni locali, le organizzazioni imprenditoriali, i sindacati? Per guardare al futuro bisogna sempre analizzare con molta attenzione il passato, altrimenti con l'alibi dell'emergenza, si rischia di perseverare negli stessi errori.

Non sto parlando qui di responsabilità penali o morali, che tutti ci auguriamo vengano chiarite al più presto, ma di responsabilità politiche, dell'assenza di un'idea di città che vada oltre la routine, della sudditanza a interessi particolari, quasi sempre miopi se non irresponsabili. In questo senso la questione cruciale resta (dis)connessione fra porto e città.

Al netto delle inadempienze di manutenzione e di controllo, fra le ragioni dell'usura del ponte c’è, nessuno lo mette in dubbio, l'aumento incontrollato dei tir, carichi o scarichi, e dei container, pieni o vuoti, un peso quasi insostenibile sulle spalle, non solo del Ponte Morandi, ma dell’intera città, degli abitanti, dei lavoratori, trasportatori e portuali, che troppo spesso sull'altare di quegli affari hanno perso la vita.

In questi giorni si è molto parlato di concessioni, a proposito di società autostrade, ma nessuno, mi pare, ha segnalato che anche le banchine del porto sono un bene pubblico dato in gestione ai privati. Sono questi privati a controllare i movimenti delle merci e dovrebbe essere lo Stato, in questo caso l'Autorità portuale, a garantire che il business non sovrasti l'interesse pubblico, non divori la città.

Se non si scioglie questa contraddizione, ma prima è necessario prenderne atto e non occultarla, è difficile pensare a un qualsiasi futuro. il porto è una fonte di ricchezza fondamentale per Genova, come ci viene spesso ripetuto, ma bisognerà finalmente capire e far capire a questa città, aldilà degli slogan e delle dichiarazioni di intenti, di che tipo di ricchezza stiamo parlando e del vero rapporto costi/benefici.

Gli esperti di logistica ci hanno, infatti, da tempo e in modo chiaro, spiegato come negli ultimi vent’anni a Genova, con il passaggio dal porto-emporio al porto industriale, siano aumentati produttività e profitti, ma non si sia incrementata allo stesso modo la ricchezza per la città e l’occupazione. Sono invece cresciuti in modo esponenziale le “servitù”: traffico pesante, incidenti sul lavoro e stradali, inquinamento.

Nella tragedia del ponte si contano 43 vittime, la cui unica colpa e stata quella di fidarsi di Genova; ritengo che la citta abbia il dovere di domandarsi perché e in che modo ha tradito questa fiducia. Fare finta di nulla o scaricare su altri le proprie responsabilità sarebbe una storico errore. Senza verità e consapevolezza collettiva i giusti appelli all’unità di azione non hanno significato.

Il Secolo XIX – 9 settembre 2018

sabato 8 settembre 2018

giovedì 6 settembre 2018

Da Bordiga a Chavez, passando per Debord. Eduardo Rothe, il situazionista venuto dal Venezuela



In quindici anni di vita dell'Internazionale situazionista (1957-1972), a fronte di migliaia di situazionisti “autocertificati”, i membri “ufficiali” sono stati poco più di una settantina. Tranne Debord e un'altra decina, di loro non si sa quasi nulla. Ne stiamo ricostruendo le storie. Oggi parliamo di Eduardo Rothe.

Giorgio Amico

Eduardo Rothe, il guerrigliero bordighista diventato ministro (o quasi)


Gli anni '60 sono gli anni d'oro della rivoluzione cubana e del Che, nella storia dell'Internazionale situazionista, diventata dopo il 1962 un movimento integralmente politico, non poteva mancare anche un ex-guerrigliero latino-americano che, dopo mille peripezie e la scoperta del comunismo eretico di Amadeo Bordiga, sbarca in Europa nel '68 per partecipare alla “rivoluzione” del Maggio.

Eduardo Rothe nasce nel 1945 a La Plata in Argentina dove il padre, organizzatore sindacale, si era rifugiato all'indomani della grande lotta dei minatori di El Callao per sfuggire alla repressione che imperversava in Venezuela. Dopo aver girovagato con la famiglia attraverso tutto il continente, Edoardo inizia a militare quindicenne nell'organizzazione giovanile del PC venezuelano e poi nel MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) che agisce in clandestinità. Un'esperienza altamente formativa, Rothe verrà anche arrestato, ma che lo lascia insoddisfatto per i limiti teorici evidenti della sinistra rivoluzionaria filocastrista.

In cerca di più solide basi teoriche, e probabilmente anche di nuove emozioni politiche, egli entra in contatto con Marc Chiric, militante di origine russa della sinistra comunista che nel 1952 aveva abbandonato la Francia per il Venezuela ritenendo imminente lo scoppio della terza guerra mondiale. A Caracas Chiric aveva riunito attorno a sé un piccolo gruppo di studenti ed editava una rivista, Internacionalismo, che tentava una sintesi fra le tesi della sinistra comunista italiana e l'esperienza germano-olandese dei consigli operai. Il gruppo si era costituito nel 1964 in condizioni particolarmente difficili d’illegalità e di repressione feroce e aveva presto avviato un dialogo con realtà rivoluzionarie francesi e italiane.



Nel '68, sull'onda della rivolta studentesca che dopo decenni di controrivoluzione pare riaprire in Europa spazi all'azione delle minoranze rivoluzionarie, Marc Chiric torna a Parigi con una parte dei suoi giovani seguaci. Rothe è uno di questi, ma, affascinato da Debord e dai situazionisti, non segue Chiric nella costruzione di una nuova organizzazione marxista rivoluzionaria, la Corrente Comunista Internazionale, ma, dopo una attiva partecipazione all'azione del CMDO (Consiglio per il mantenimento delle Occupazioni), aderisce all'I.S. e raggiunge la sezione italiana creata a Milano nel gennaio 1969 da Gianfranco Sanguinetti, Claudio Pavan e Paolo Salvadori.

La sua partecipazione ai lavori dell'I.S. è molto intensa. Collabora al dodicesimo e ultimo numero della rivista con l'articolo La conquête de l'espace dans le temps du pouvoir (septembre 1969), poi con Puni Cesoni scrive Il Reichstag brucia? Un pamphlet siglato Gli amici dell'Internazionale che, primo in Italia, denuncia la strage di Piazza Fontana come una provocazione di Stato.

Nell'aprile 70 è escluso dall'I.S., ma continua la sua attività politica in Italia per poi trasferirsi in Portogallo al tempo della rivoluzione dei garofani.

Tornato in Venezuela, dopo aver svolto diverse attività, fra cui l'agronomo e il pescatore, si è dedicato con grande successo al giornalismo televisivo, per finire poi membro dello staff di Andrés Izarra ministro delle Informazioni e della Comunicazione del governo Chavez.

domenica 2 settembre 2018

Armando. Il situazionista venuto dal lager



Si dice Internazionale situazionista e immediatamente si pensa a Debord. In realtà l'avventura situazionista è un crogiolo di storie personali. 

Giorgio Amico

Armando. Il situazionista venuto dal lager

La sezione olandese è una delle più piccole dell'Internazionale. In tutto cinque membri: Anton Alberts, Constant, Jacqueline de Jong, Har Oudejans e Armando. Per l'artista, anticonformista anche nella vita, Armando non è uno pseudonimo, ma il nome vero, assunto in ricordo della nonna italiana, quello che egli sente come suo, tanto da sostenere una lunga battaglia legale per farlo accettare anche dai registri dello stato civile. A più riprese dichiarerà che semmai lo pseudonimo è il nome “ufficiale” con cui è stato registrato alla nascita. Io sono Armando – dichiara- Armando e basta, il cognome non mi serve e non lo voglio. Riuscirà a spuntarla e da allora anche per lo Stato sarà Armando e basta. E questo già la dice lunga sulla determinazione e la tenacia del personaggio, ma anche sul suo anarchismo di fondo. Non sono molte le tracce che ha lasciato della sua permanenza nell'Internazionale situazionista. Giusto un paio: la firma - insieme ad Anton Alberts, a Constant e a Har Oudejans - sotto il Primo Proclama della Sezione olandese apparso sul numero 3 della rivista e la partecipazione alla Terza Conferenza dell'IS, tenutasi a Monaco dal 17 al 20 aprile 1959.

Armando in realtà si chiamava Herman Dirk van Dodeweerd ed era nato ad Amsterdam il 18 settembre 1929, un mese prima del crollo di Wall Street, e dunque, come scriverà di sé Debord, nel segno della rovina. Bambino, va a vivere a Amersfoort, una cittadina vicino a Utrecht che durante la guerra ospita un grande campo di “transito” per gli ebrei olandesi che lì vengono concentrati per essere poi smistati nei campi di sterminio di Auschwitz, Sobibór e Theresienstad. La sua famiglia abita in una casa posta sul tragitto fra la stazione ferroviaria e il lager e il bambino assiste sgomento al continuo passaggio di lunghe file di prigionieri. Uno spettacolo di crudeltà e di desolazione che lo segnerà profondamente per il resto della vita e che influenzerà potentemente la sua produzione artistica.

    Amersfoort 1944

Dal 1949 al 1954 studia storia dell'arte all'Università di Amsterdam. Come molti situazionisti Armando è una figura eclettica: pittore e scultore, ma anche scrittore, violinista e poeta. Un tipo di poesia molto particolare la sua: un collage di spezzoni di conversazioni raccolti per strada e nei caffè, mescolati con annunci pubblicitari e locandine, a formare veri e propri puzzle linguistici.

Nel 1954 tiene la sua prima personale alla Galerie Le Canard di Amsterdam, una vecchia libreria antiquaria trasformata nel 1950 in galleria d'arte da Hans Roduin, poeta e autore teatrale di una certa fama. Nel clima torpido dei primi anni '50, Le Canard si impone immediatamente all'attenzione per il suo dichiarato anticonformismo. Nei suoi sette anni di esistenza, chiuderà nel 1957, l'ex libreria sarà il luogo di incontro degli artisti sperimentali e la sede ufficiosa del gruppo olandese del movimento CoBrA. Vi si terranno una settantina di mostre oltre che serate musicali e di danza, incontri letterari, spettacoli di mimi e teatro di marionette. Il tutto all'insegna del più sfrenato avanguardismo. E' lì che, dopo gli studi accademici, Armando si forma come artista, a stretto contatto con il movimento CoBrA per partecipare poi nel 1958, assieme a Henk Peeters, Jan Schoonhoven, Jan Hendrikse e Kees van Bohemen alla fondazione del Gruppo Informale Olandese.



Armando non è un artista puro, per vivere fa un po' di tutto: il pugile, il musicista in una banda gitana, il giornalista - redattore della rubrica artistica della rivista De Haagsche Post e poi freelance da Berlino- infine dalla fine degli anni Sessanta l'attore e il regista teatrale e televisivo.

All'inizio del 1959 aderisce all'Internazionale situazionista. Una permanenza tutto sommato breve visto che nella primavera del 1960 è già fuori.

Dopo l'esclusione, Armando partecipa all'esperienza di “Zero = O, Rivista per la nuova concezione nelle arti visive” e ad altre esperienze d'avanguardia. Le sue opere si caratterizzano per i colori forti (il nero e talvolta il rosso) e per la cupezza dei toni. La guerra e soprattutto l'esperienza tragica della vicinanza al lager di Amersfoort è sempre presente nel suo lavoro. Lo dimostra l'uso insistito di materiali (bulloni, lastre di metallo) che ricordano caserme, reticolati, carri armati. Ma anche nel 1967 la pubblicazione di un libro di interviste ai volontari olandesi nelle SS. Un tentativo di preservare la memoria, di dare un senso all'orrore. 


Muore a Potsdam il 1 luglio 2018.