giovedì 29 novembre 2018
domenica 25 novembre 2018
Colonnati divini miti e misteri
Elementi
simili in ogni parte del mondo a significare il modello cosmico
dell'universo.
Raffaele K. Salinari
Colonnati divini miti
e misteri
Dagli albori dell’Arte architettonica, i cui fondamenti esoterici nascono col tempo stesso dell’umanità,la colonna è stata la struttura portante per antonomasia. Molto più che altre componenti architravi, ogive, trabeazioni essa rappresenta infatti l’elevazione e, al tempo stesso, la forza, la stabilità e la bellezza, caratteristiche che la rendono centrale nella simbologia delle costruzioni sacre, basti pensare solo alle due grandi colonne, Jakin e Boaz, descritte nella Bibbia all’ingresso del Tempio di Salomone. Oggi ritroviamo queste stesse colonne, il cui nome significa rispettivamente «stabilità» e «forza», all’ingresso di ogni Tempio della Libera Muratoria, ispirata da quella stessa Arte che permette all’umanità di costruire il proprio Tempio interiore a modello di quello cosmico il cui ordinatore è, per questa tradizione, Il Grande Architetto dell’Universo.
La colonna assomma il sé dunque tutta una serie di significati metaforici che la pongono al centro dei miti fondativi in culture di ogni tempo e civilizzazione: quelle di Ercole, erette dall’eroe come finis terrae col monito non plus ultra ad intimare di non oltrepassare il termine del mondo conosciuto, o le fragili e colorate colonne dei templi scintoisti che si rivolgono come preghiere alla Grande Dea Amaterasu, divinità solare da cui discendono tutte le cose. Nelle Americhe precolombiane troviamo invece il Totem, colonna identitaria che ipostatizza tutto il complesso sistema delle relazioni che intercorrono tra le componenti di uno stesso bioma.
Nei capitelli delle
colonne si nascondono spesso i più reconditi segreti; Marius
Schneider scoprì le sottili corrispondenze tra i canti sacri e le
figure effigiate su quelli romanici di San Cugat, di Gerona, di
Ripoll. A saperle ascoltare forse tutte le colonne dei luoghi
consacrati cantano ancora la musica delle Sfere Celesti. Ma, nella
verticalità della colonna, il principio ascensionale verso il divino
è forse sancito plasticamente dalle storie dei monaci stiliti, come
San Simeone, che visse all’altezza di ben sedici metri per tutta la
vita. Tanti altri esempi sarebbero possibili, ma quello che a noi
particolarmente qui interessa non è tanto cosa una colonna può
sostenere o raffigurare, quanto ciò che essa può celare.
La colonna alefica di Borges
Molte sono le storie che narrano di qualcosa contenuto all’interno di una colonna e che dunque propongono un altro aspetto dei suoi significati simbolici: la colonna come scrigno, forziere affatto speciale per materiali o immateriali che solo al suo interno possono, e devono, restare celati e protetti, protetti perché celati, celati perché protetti, fino a quando il momento arriva e la pietra può aprirsi per liberare il suo contenuto. La colonna è allora una sorta di clessidra di pietra all’interno della quale il tempo scorre misticamente, invisibile, silenzioso e segreto, sino al suo destino.
Un esempio di permanenza misteriosa ed occulta lo troviamo nel racconto l’Aleph di J.L. Borges, in cui il Maestro argentino sostiene che «i fedeli che si recano alla moschea Amr, al Cairo, sanno bene che l’universo è racchiuso nell’interno di una delle colonne di pietra che circondano il cortile centrale. Nessuno, certo, può vederlo, ma chi accosta l’orecchio alla superficie afferma di percepire, dopo un po’, il suo incessante rumore. Esiste questo Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa per l’oblio».
Qui l’aura alefica è
generata dalla presenza di una colonna affatto uguale alle altre in
cui, però, è racchiuso il misterioso punto attraverso il quale è
possibile vedere tutti i luoghi del cosmo da tutte le prospettive,
senza sovrapposizioni, ed in tutti i tempi, passati presenti e
futuri, contemporaneamente:questo è l’Aleph. È allora la natura
stessa del colonnato, i suoi rimandi specchiali, ipnotici, le
alternanze di luce ed ombra che si moltiplicano all’indefinito come
i tasti bianche e neri di un immenso pianoforte, a chiamarci verso la
scomparsa della nostra stessa ombra, risucchiata dal vortice di
quella emanata da una delle colonne. Provare per credere, il gioco è
tanto straniante, ovunque venga fatto, da evocare l’Aleph: il
centro percettivo in cui tra noi ed il mondo non vi è più nessuna
differenza, là dove il singolo torna al Tutto.
Anche nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna, dentro una delle colonne che sorreggono il mosaico dell’adorazione dei Magi, vi è celato un Aleph. Osservandola da una certa prospettiva si vede, infatti, come la figura di una entità alata, pronta a dischiudere, a chi sospende l’incredulità, come suggeriva Samuel Taylor Coleridge, il mistero dell’Uno: «trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica». La fede poetica dunque, nucleo di ogni conoscenza senza dogmi, racchiusa in una colonna.
La colonna alchemica
Siamo verso il 1600, nella chiesa di Erfurt, in Germania, avviene qualcosa che nei secoli ci è stato tramandato da diverse fonti: attraverso la breccia aperta da un fulmine improvviso, sarebbero usciti da una colonna i manoscritti dell’alchimista Basilio Valentino. Nell’opera di J.J. Mangeti Bibliotheca Chemica Curiosa, edita a Ginevra nel 1702, ne troviamo a pagina 47 del primo volume la descrizione in latino: «per ictum fulminis columna Templi Erfurtensis ‚ in cuius medio diffracto scriptum, delituerat» cioè un fulmine, rompendo una colonna del tempio di Erfurt, rivelò degli scritti nascosti.
Il brano è tratto dalla
biografia di Basilio Valentino, per gli studiosi dell‘Arte Regia in
realtà uno pseudonimo legato a due opere fondamentali: Azoth e le
Dodici chiavi. Fulcanelli, probabilmente
l’ultimo alchimista contemporaneo che abbia avuto la possibilità di operare in diretta continuità con i Maestri del passato, chiarisce nel suo Le dimore filosofali, come «il nome Basilio Valentino unisce il greco Basileus, cioè re, al latino Valens, cioè valente, al fine di suggerire il sorprendente potere della Pietra Filosofale». La stessa interpretazione la troviamo nell’Edipo chimico di Leibniz, dal quale probabilmente Fulcanelli ha tratto la sua.
l’ultimo alchimista contemporaneo che abbia avuto la possibilità di operare in diretta continuità con i Maestri del passato, chiarisce nel suo Le dimore filosofali, come «il nome Basilio Valentino unisce il greco Basileus, cioè re, al latino Valens, cioè valente, al fine di suggerire il sorprendente potere della Pietra Filosofale». La stessa interpretazione la troviamo nell’Edipo chimico di Leibniz, dal quale probabilmente Fulcanelli ha tratto la sua.
Il XVII secolo è particolarmente importante per l’espansione dell’Alchimia: Spinoza stesso ci dice dell’oro scaturito da una trasmutazione ad opera della «polvere di proiezione» lasciata al suo amico Johann Friedrich Schweitzer, detto Helvetius, noto medico olandese, da un misterioso personaggio. Il Seicento è anche segnato dai manifesti rosacruciani: nel 1614, infatti, era comparso a Kassel l’opuscolo anonimo Fama fraternitatis Rosae Crucis, che raccontando la vita di Christian Rosenkreuz (Cristiano Rosacroce), poneva le basi per una ulteriore tappa di quella Tradizione che, attraverso il simbolo dell’Ordine, una croce con al centro una sola rosa rossa, rimanda a quella conoscenza d’ordine cosmologico che può essere raggiunta attraverso l’ermetismo cristiano.
Ma ciò che simboleggia
meglio l’opera di Basilio Valentino è forse proprio l’episodio
della colonna: perché la storia dell’Alchimia ci tramanda
questo avvenimento come fondamentale nella comprensione dei suoi
segreti? Ebbene in Azoth, che come sottotitolo porta «L’occulta
opera aurea dei filosofi», troviamo l’acronimo V.I.T.R.I.O.L.:
Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem,
cioè visita l’interno della terra e rettificando troverai la
pietra nascosta. La scritta compare su tre immagini che, secondo
l’interpretazione degli adepti, riassumono sotto
forma simbolico-allegorica tutte le fasi dell’Opera.
L’acronimo si trova ancora nel Gabinetto di Riflessione delle Logge Muratorie nel quale il profano neofita, letteralmente pianta nuova, viene invitato a meditare le sue scelte prima di essere eventualmente iniziato. Anche Dante, che aveva perso la «retta via», nell’affrontare la salita del Purgatorio per ritrovarla, si descrive come «rifatto sì come piante novelle, rinnovellate di novella fronda, puro e disposto a salir alle stelle».
Ecco allora che il lavoro interiore, il visitare la propria terra dove questa simboleggia anche le scorie del corpo e della mente che bisogna conoscere per potersi così rettificare, tornare cioè sulla «retta via», corrisponde all’opera di dissoluzione e coagulazione degli elementi che cuociono nel crogiolo alchemico. Se il lavoro dentro e fuori di noi sarà costante, meditato, umile, ispirato dagli alti valori dell’Uguaglianza, della Fratellanze e della Libertà, ecco infine che si mostrerà, come i manoscritti usciti dalla colonna di pietra, l’Occultum Lapidem, la pietra della Salvezza, metafora di una individualità libera dal giogo delle passioni ed aperta verso la conoscenza delle cose ultime.
Le reliquie di San
Marco e la spada di San Venceslao
Una colonna scissa miracolosamente la troviamo anche nella storia delle reliquie di San Marco. Sappiamo che furono due mercanti veneziani, Rustico da Torcello e Bono da Malamocco, che ne trafugarono le spoglie ad Alessandria e, celatele in una cesta contenente carne di maiale, impura per i musulmani, le riportarono in laguna, sua destinazione finale. L’Evangelista, infatti, era già stato a Venezia: giunto a Roma assieme a Pietro, viene da lui inviato ad Aquileia dove converte Ermagora che sarà così il primo vescovo della città. Dopo quest’opera apostolica Marco parte per Alessandria d’Egitto, ma viene costretto da una tempesta ad approdare alle «isole realtine», il nucleo della nascente Venezia, oggi in corrispondenza del ponte di Rialto. Addormentatosi viene visitato in sogno da un angelo che lo saluta con la nota frase «Pax tibi Marce, evangelista meus», e gli promette che in quell’isola avrebbe riposato fino al Giorno del Giudizio; giunto ad Alessandria ne diviene vescovo e subisce il martirio il 25 aprile del 78. È dunque da questa città che i due mercanti trafugano le sue reliquie nel 829.
L’onore, e l’onere, di poter ospitare le spoglie del Santo legato alla sua fondazione, spinse la Serenissima a costruire la chiesa omonima per consentirne la venerazione. Nel 1063 ebbero così inizio i lavori della Basilica di San Marco che subì, però, un incendio devastante, dovuto a moti politici, tanto che l’edificio dovette essere ricostruito. Nel 1094 la chiesa era finalmente pronta per essere consacrata a Dio e a San Marco. Purtroppo, in questa circostanza, si scoprì che la teca contenente le spoglie era scomparsa. Grande cordoglio e sgomento, ma il Doge Pietro Orseolo decise che la cerimonia restasse fissata, cosi che il 25 giugno del 1098, giorno della consacrazione, accadde il miracolo tramandato in diverse versioni negli annali e nei racconti di Venezia.
La prima ci narra di un
braccio che, rompendo una colonna, indicò quella dentro la quale
erano racchiuse le reliquie, un’altra che da una colonna apparve
l’immagine stessa del Santo. Ma noi preferiamo quella del
Fratello Giacomo Casanova che, nelle sue Memorie, ci dice: «Nel
momento
culminante della celebrazione eucaristica, sulla colonna contenente i sacri reperti, apparve l’immagine del Leone alato, simbolo marciano. Subito venne scissa la colonna indicata e miracolosamente le reliquie riapparvero. E così la Serenissima salutò San Todaro, primo protettore della città, per affidare le sue fortune e il suo orgoglio all’Evangelista dal Leone alato il cui libro aperto significa pace, chiuso, guerra».
culminante della celebrazione eucaristica, sulla colonna contenente i sacri reperti, apparve l’immagine del Leone alato, simbolo marciano. Subito venne scissa la colonna indicata e miracolosamente le reliquie riapparvero. E così la Serenissima salutò San Todaro, primo protettore della città, per affidare le sue fortune e il suo orgoglio all’Evangelista dal Leone alato il cui libro aperto significa pace, chiuso, guerra».
Anche nella magica Praga,
la città del Golem, che ancora oggi vaga di notte per le stradine
strette di Stare Mesto, la città vecchia splendidamente descritta
nell’omonimo libro di Angelo Maria Ripellino, è una delle colonne
del ponte Carlo a custodire la spada invincibile di San Venceslao.
Piantata originariamente in uno dei pilastri del ponte, ad un certo
momento scomparve, forse trafugata da dei bambini, spiriti innocenti
e vicini alla Fonte della Vita, custodi, da allora, delle fortune
della città; oppure, dice un’altra versione della leggenda,
inglobata all’interno della stessa colonna, custodita nello scrigno
di pietra in attesa del momento in cui, se mai ce ne fosse bisogno,
un eroe possa estrarla dalla sua vagina di pietra e brandirla: una
Excalibur totalmente immersa nella roccia.
Quattro colonne, quattro storie, come i numeri che compongono la mistica tetraktis pitagorica.
Il manifesto/Alias – 24
novembre 2018
giovedì 22 novembre 2018
domenica 18 novembre 2018
I Tricaroli. Una storia dalla Liguria di montagna
Una storia
dall'estremo Ponente ligure, da quella Liguria di montagna che
conserva ancora qualcosa della sua cultura millenaria. Per Francesco
Biamonti una sorta di vecchia Castiglia di contro a una costa ormai
totalmente devastata. Il racconto è di un vecchio amico di Vento
largo, Roberto Trutalli, da sempre impegnato nella tutela del
territorio dagli assalti speculativi che anche lì purtroppo non
mancano.
Roberto Trutalli
I Tricaroli
Stè e Ninò (i
Tricaroli), vivevano in Piazza Colla la porta a fianco alla nostra,
due fratelli nati cresciuti in La Cola in quel ritaglio di spazio che
andava dalla loro casa alla stalla ubicata qualche decina di metri
più avanti e le campagne che coltivavano, una fra tutte, forse con
più assiduità, a Madonna di Campagna.dove avevano gli orti ed i
conigli.
Erano tutti e due alti di
statura, quasi due metri e per quel tempo una anomalia nei nostri
paesi, io avendo conosciuto anche la loro madre Marietta, una signora
anziana come le tante che in quegli anni vivevano in paese, donne
cresciute già anziane, nei vestiti nelle acconciature ed in quelle
gesta quasi discrete e timorose, mi chiedevo da dove provenisse
quell’altezza , da chi l’avevano ereditata , una volta alla
povera Marietta applicarono delle ventose sulla schiena (vasetti in
cui veniva posto un pezzo di cotone intriso di alcool e fatto
bruciare ed applicato subitaneamente sulla parte dolorante) allora
usava molto come rimedio contro il mal di schiena, ma le lasciarono
in opera tutta la notte ed al mattino la povera donna aveva la
schiena nera come un tizzone..
I due erano quasi coetanei li separavano pochi anni, Stè più vecchio, credo che si allontanò da Pigna per la prima ed unica volta quando parti soldato e fu spedito in Albania come Artigliere nel secondo conflitto mondiale, li prese anche la patente, era alto due metri, doveva essere un pezzo d’uomo, Ninò credo che abbia passato tutta la sua esistenza a Pigna, anche perché affetto da una scoliosi invalidante che lo aveva ridotto a camminare quasi del tutto piegato in avanti.
Fino ai primi anni
settanta li ho sempre visti con il bue, poi lo vendettero ed
acquistarono un’ape Piaggio, con la quale si recavano a Campagna,
dal 1966 si era costruita la nuova strada interpoderale e lentamente
ed inesorabilmente gli animali da soma e da lavoro per altri motivi,
vennero venduti, finiva in quegli anni un mondo che non serviva più
a nessuno. Loro arrivavano a casa in serata sempre dopo le nove nelle
giornate estive, scaricavano davanti a casa nostra e poi
rigovernavano il bue nella stalla la quale era preceduta da un lungo
corridoio stretto in discesa, mi divertiva vederli fare scendere la
povera bestia in quel budello, vi passava a stento.
Un anno erano rimasti senza bue, e credo che come molti aspettassero la fiera di San Michele alla fine di settembre, per riacquistarne uno, bene, quell’anno verso la fine di giugno, nel periodo che va da San Giovanni a San Pietro e Paolo, quassù a Campagna era tempo di levare le patate e di seminare sul terreno che le aveva ospitate i fagioli bianchi, essendo senza bue la cosa non era semplice, Ninò ebbe un lampo di genio e propose al fratello; visto che tu Stè sei più robusto ti leghi l’aratro (a versoio) ed io da dietro lo governo, tu tiri ed io mantengo il solco, e così fecero. Ma dopo pochi metri Ninò, che intanto aveva in una mano la corda e nell’altra una venka (un sottile bastone) colpi ripetutamente il povero Stè, il quale d’impulso ed incredulo si girò e gli disse ; ma dai i numeri mi colpisci anche, e Ninò candidamente gli rispose; e se non tiri per forza con il bue si fa così.
giovedì 15 novembre 2018
La Grande Guerra. Una patria per le donne
Questa sera presso la Biblioteca comunale di Quiliano la Prof.ssa
Augusta Molinari parlerà del ruolo svolto dalle donne nella Prima
Guerra Mondiale. Come introduzione alla serata proponiamo alcuni
passaggi dell'introduzione del suo libro “Una patria per le donne.
La mobilitazione femminile nella Grande Guerra”.
Augusta
Molinari
Una patria
per le donne
Introduzione
Fu a metà degli anni
Novanta del secolo scorso che cominciai a interessarmi della
mobilitazione femminile nella Grande Guerra. Nell’ambito delle
attività dell’Archivio ligure della scrittura popolare
dell’Università di Genova, un centro di studio e di raccolta di
archivi familiari, mi capitò di reperire la corrispondenza di una
madrina di guerra. Dalle ricerche svolte per ricostruire la figura e
l’attività di questa«madrina», emerse un quadro della
partecipazione delle donne alla mobilitazione civile che, all’epoca,
mi stupì.
Gli studi italiani sulla
Grande Guerra, non lasciavano supporre vi fosse stato un vasto e
diffuso coinvolgimento femminile nella mobilitazione. Decisi, così,
di proseguire un percorso di studio che mi parve, già da subito, di
grande interesse.Un lungo lavoro di ricerca su fonti archivistiche e
a stampa, in particolare sondaggi sulla pubblicista del «fronte
interno», ha permesso, nel corso del tempo, di delineare un quadro
della mobilitazione femminile che ne documentasse dimensioni,
caratteristiche, finalità. Pur nelle varietà di esperienze, il
contributo femminile alla guerra si configura, essenzialmente, come
un’opera di assistenza civile. Anche in piccoli comuni, subito
dopo l’inizio del conflitto, le donne partecipano
all’organizzazione della mobilitazione civile e si occupano
dell’assistenza ai combattenti e alle loro famiglie
Di queste attività che
coinvolsero migliaia di donne «comuni», appartenenti, per lo più,
ai ceti medi urbani, in par-ticolare quelli intellettuali e delle
professioni, la storiografia italiana, con qualche eccezione (...)
raramente si è occupata. Ha prevalso, a lungo, la convinzione che il
contributo femminile alla mobilitazione fosse limitato a qualche
gesto di beneficenza di donne aristocratiche e alto borghesi.
Dalla documentazione
archivistica e a stampa, emerge, invece, come, in tutto il paese,
fossero le donne a occuparsi di gran parte dell’assistenza civile:
la tutela dell’infanzia, l’assistenza alle vedove e agli orfani,
la confezione di indumenti per l’esercito, la corrispondenza tra i
soldati e le famiglie. (...)
Furono le caratteristiche
di tragica «modernità» della guerra a coinvolgere le donne nella
mobilitazione civile. Da un lato, l’esperienza della morte di massa
sollecitò un bisogno di assistenza che rese necessaria la
valorizzazione sociale delle doti femminile «di cura». Dall’altro,
la rappresentazione in termini morali del conflitto, fece del
patriottismo un elemento di identificazione nazionale anche per le
donne. Nel corso della guerra l’impegno nella mobilitazione diede
alle donne una condizione di «temporanea cittadinanza» che
rappresentò, per molte, un riconoscimento indiretto di diritti.
(...)
mercoledì 14 novembre 2018
Amadeo Bordiga e il Partito Comunista Internazionalista (1948)
Riprendiamo dal sito
Avanti barbari! una lettera che Amadeo Bordiga scrisse nel 1948 ad
alcuni compagni e collaboratori. Essa è successiva al Congresso di
Firenze (6-9 maggio) del Partito Comunista Internazionalista; la
posizione di Bordiga, che non era iscritto al partito, è chiara e
non lascia adito a dubbi. Le persone citate (Covone, Tarsia e Otto
sono amici e compagni di militanza di Bordiga, Otto è Ottorino
Perrone che mantenne con Bordiga una intensa corrispondenza fino alla
morte nel 1957). Un documento importante che evidenzia le
contraddizioni interne del PC Int. e la crisi che porterà poi alla
scissione del 1952.
Napoli, domenica 13
giugno 1948
Carissimi,
mantengo l'impegno di scrivere la domenica sebbene non abbiate risposto alla mia di una settimana fa. È qui Covone con una vaga speranzella di de(non di)ttatura ma io sono in una situazione negativissima. Comunque manterrò per Prometeo se seguirete il collegamento come proposto.
Il n. 35 di Internationalisme contiene un dispettoso ed acido articolo sul vostro congresso e partito, che fa porre alcune domande: perchè avete invitato certi fessi dal fegato supercritico? Perchè non avete saputo evitare che nel congresso affiorasse un dissidio che non è nemmeno una contrapposizione di orientamenti? Perchè avete fatto il congresso, contro il parere di non farlo e perchè quanto meno non lo avete materiato della discussione sui due punti della fase del mondo capitalistico e della lezione della degenerazione rivoluzionaria che consentivano una tappa del lavoro preliminare di riordinamento teorico? Una delle due: o vi mettevate prima di accordo tra voi in modo che il centro proponesse ai delegati un chiaro insieme di direttive o almeno di valutazioni, o se davvero avevate tra voi dei dubbi amletici vi ponevate in grado di farveli risolvere dall'apporto della base, ma evidentemente sia l'una cosa che l'altra vi è mancata, e la giusta soluzione per l'attività del partito non è nemmeno in una di queste due strade, abusate e vecchie entrambe, da cui si ritorna ad un'altra domanda: perchè avete costituito anticipatamente il partito?
Comunque il partito c'è, il congresso vi è stato, e per arrivare alla chiarificazione bisogna che, sia pure in cerchio stretto, vi lavoriate sopra superando punto per punto i vecchi intoppi. Pensando a ciò ho gradito pochissimo il testo del CE sulle Direttrici di marcia, in cui credo sia stato ben concentrato tutto ciò su cui sbaglia ciascuno dei gruppi o dei compagni che si contrappongono, mentre tantissime cose avremmo da dire e ridire e ribattere che sono di patrimonio comune.
Come si sia potuto passare da un ottimismo errato a un non meno esagerato pessimismo non lo posso capire. Più o meno consapevolmente la maggior parte di noi, se pensava che il metodo del fronte antifascista e del partigianismo era bestiale, a questa giusta posizione tattica associava però l'errore valutativo della situazione (e quindi errore di principio perchè la valutazione della situazione non è un amminicolo che può andare colla moda come le gonne corte o lunghe, ma è la sostanza stessa della dottrina), che con la sconfitta del fascismo e la vittoria dei suoi avversari militari si sarebbe creata una fase di buone possibilità e di ripresa rivoluzionaria, come lotta contro il capitalismo e come lotta contro l'opportunismo. Invece la vittoria militare di una delle parti era un conto, l'evoluzione del sistema borghese in senso totalitario era un altro, qualche migliore buona possibilità poteva venire caso mai -avendo noi le mani pulite da ambo i partigianismi, naturalmente- proprio dalla vittoria militare dei fascismi, meglio detto, dalla sconfitta dei paesi capitalistici democratici e della Russia.
Comunque non essendo stato questo chiaro vi è stata sorpresa che caduto il fascismo a guadagnarne sia stato proprio il falso comunismo da una parte e le influenze borghesi dall'altra, e non sia sorto per generazione spontanea il gran partitone classista magari con un tonante Bordiga sul palcoscenico. Altra più o meno confessata attesa era quella che dalla successiva rottura tra le due ali del blocco antifascista sarebbe uscita comunque una lotta civile e una ripresa di classe, ad elezioni vinte o perdute o che so io, mentre si tratta di processi e forze concomitanti e collaboranti etc.
Ma da questo a proclamare in una dichiarazione solenne che il proletariato non esiste più come classe, anzi che la classe operaia è l'elemento cardine della ricostruzione capitalistica etc., etc. ci corre, o meglio si resta alla stessa altezza quanto a scorrettezza di formulazione e fallacia di pensiero.
Tutte queste cose si dicono ben diversamente e le abbiamo sempre sapute impostare ed esporre. Un conto è il civettare letterariamente con espressioni audaci e brillanti, un conto è la estrema prudenza scientifica da porre nello aggiornare, aggiornare soprattutto alla variante situazione di chi ci ascolta, le nostre tesi e le nostre formule. Non sono un modello ad uso universale ma vi prego considerare quanto delicatamente in lunghi decenni io abbia cambiate pochissime parole nelle dimostrazione dei nostri punti essenziali, malgrado lo stridente carattere di controcorrente di quanto enuncio ed enunciamo insieme, e la distanza enorme dalle mode conformiste e dalla demagogia corteggiatrice anche delle masse.
Qui si tratta di rimettere a posto tutti i termini della dottrina della lotta di classe quanto a cause determinanti, a fattori agenti e a rapporti di forze, cosa che a fatica cerco di fare ogni volta che vi mando qualcosa, ma in cui poi certi scritti entrano come la classica vacca infuriata nel negozio di cristallerie.
Lascio questa parte politica generale e vengo alla quistione sindacale. È chiaro che turba i vostri sonni ma il meglio che potete fare è una iniezione serale di luminal. Anche qui avete patapunfato tre o quattro asserzioni una più sconvolgente dell'altra. Volete scendere in pieno problema della prassi, ma ciò si fa sempre male quando non si è ben esaurito il campo della interpretazione e valutazione. Comunque il quesito "che fare" non è del nostro tempo e della nostra organizzazione. La storia lo pone quando crede e il buon marxista si vede dal saper accorgersene, allora, in quei rari momenti, ha il diritto di farsi venire la tarantola, senza tuttavia perdere il senno.
A questo quesito date una serie di risposte negative: non lavorare nel sindacato attuale, organo ormai, e sta bene, della borghesia e dello stato -non fondare un altro sindacato scissionista colla parola dell'autonomia- non intraprendere la demolizione del sindacato. Tutto ciò formulato con poco ordine, e culminando nel proclamare la indifferenza. Ma la indifferenza non si proclama, chi è indifferente tace, ecco tutto, e allora il famoso argomento che se non si dice qualcosa alla base tutto si sfascia si dimostra una preoccupazione insussistente. Non proiettate nessuna luce facendo ombra da tutti i lati.
Perchè non dare invece una buona storia del movimento sindacale, un buon confronto del sindacato classico con quello attuale, spiegare il rapporto economico mutato e la nuova meccanica, non più fondi per la resistenza, non più quote che l'operaio paga sottraendole al salario, in quanto la quota è tolta sulla paga, sicchè non ha più senso stare o non stare nel sindacato e nei suoi ruoli, anzi il metodo fascista si sviluppa logicamente dai successori, il contributo sindacale lo paga oggi addirittura il datore di lavoro etc., etc. Così si mettono a fuoco le questioni prima di dividersi in gruppi per fare la contraddanza sulle diverse soluzioni della prassi uscire entrare demolire e simili soggettivismi, che peccano di volontarismo e finiscono nel peggiore abulismo impotente. Così hanno ragione di dirci astensionisti nel senso che ad ogni offerta rispondiamo grazie non bevo, come quell'ospite che finì col dire lo stesso alla offerta della padrona di casa, hanno ragione di ridurre l'argomento a quello dell'impotenza come da 40 anni fanno gli opportunisti. Il nostro astensionismo 1919 non si costruiva con: parlamento? no; elezioni? no; sabotaggio comizi? no, come storcimenti di naso alla lista di un pranzo, era un vero tentativo di spostare la rotta della battaglia proletaria di novanta gradi in una fase in cui vi era qualcosa da decidere.
Questa brontolata non vi porta nulla di costruttivo e del resto non ho io il carico di fare di tutti pezzi le vostre messe a punto, ma arrivate almeno a questa conquista che si attua coll'evitare di darsi una importanza non esistente; una formula teoricamente ottima è quella di stare zitti sui punti scabrosi. Quando saremo stati zitti non succederà nulla, poichè non abbiamo alle labbra le trombe di Gerico o il corno di Roncisvalle. Ma non avremo tratto dagli immaginari strumenti il suono di Barbariccia...
Mando questa lettera a Otto e la faccio vedere a Tarsia e Covone.
Cari saluti e scrivete.
Amadeo
(Dal sito Avanti
barbari!)
domenica 11 novembre 2018
venerdì 9 novembre 2018
"Maledetta sia la guerra". Gli Occitani e la prima guerra mondiale
Riprendiamo il documento del PNO (Partito della Nazione Occitana) sul centesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale (che in Francia si festeggia l'11 novembre).
11 novembre 1918: si
deve celebrare la «vittoria»?
E' il centesimo
anniversario dell'armistizio dell' 11 novembre 1918, che fu seguito
dal Trattato di Versailles. Questo trattato, punitivo verso i vinti,
non fu un trattato di pace. Esso è all'origine dell'ascesa del
nazismo in Germania e in Austria, del fascismo in Italia e della
seconda guerra mondiale.
Il bilancio di questo
conflitto mondiale durato poco più di quattro anni è spaventoso: 18
milioni di morti di cui poco più della metà militari. Quanto allo
Stato francese: 1,4 milioni di soldati e 300 mila civili uccisi, più
di 4 milioni di feriti in una guerra che, secondo il Partito
della Nazione Occitana, nulla poteva giustificare, ma che si spiega
con lo scontro degli imperialismi francese e tedesco.
L'esercito francese ha
mandato alla morte migliaia di soldati occitani e degli altri popoli
di Francia per riprendere alla Germania un territorio che era e che è
sempre etnicamente tedesco: l'Alsazia.
L’Occitania ha pagato
un pesante tributo a questo conflitto che non la riguardava per
nulla. Una generazione di Occitani nel fiore dell'età è stata
decimata. La loro morte ha accelerato l'indebolimento della nostra
lingua nazionale, l'occitano.
Il Partito della
Nazione Occitana ritiene che l'occasione non sia quella di una
celebrazione indecente di un macello e ancor meno di una vittoria di
Pirro, ma piuttosto quella del raccoglimento e del ricordo dei nostri
cari scomparsi.
Chi infatti non ha avuto
nella sua famiglia almeno un morto o un ferito a causa di questa
guerra atroce che avrebbe potuto essere evitata, cosa che avrebbe a
sua volta probabilmente evitato la seconda guerra mondiale?
Decine di comuni occitani
hanno eretto monumenti ai morti «pacifisti», che, come quelli di
Gentioux o d’Aniane, proclamano «Maledetta sia la guerra» o «La
guerra qu’an volguda es la guerra a la guerra / Son morts per
nostra terra et per tota la terra». (« La guerra che hanno voluto è
la guerra alla guerra/sono morti per la nostra terra e per tutta la
terra»)
L’Europa unita,
malgrado tutti i suoi difetti, è il frutto di questi due conflitti
sanguinosi. Essa è stata concepita dai suoi fondatori per impedire
la guerra e per stabilire definitivamente la pace tra i popoli
d'Europa così pronti a massacrarsi.
Il Partito della
Nazione Occitana invita le elettrici e gli elettori a
ricordarsene al momento delle elezioni europee dell'anno prossimo.
Il Partito della
Nazione Occitana non si riconosce dunque nella battaglia
manichea che Emmanuel Macron ci invita a condurre per il progressismo
e contro ciò che egli chiama nazionalismo e populismo.
L’Unione europea
attuale riunisce degli Stati in maggior parte divisi da questi
conflitti o da altri più antichi; certi negano l'esistenza di più
nazioni nel loro seno o non concedono a queste che una relativa
autonomia.
Il Partito della
Nazione Occitana invece auspica un'Unione europea dei popoli,
che riconosca il diritto dei Catalani, dei Baschi, degli Occitani,
ecc. a uno Stato indipendente allo stesso titolo dei Francesi, degli
Spagnoli e degli Italiani.
PNO – Partito della Nazione Occitana
Bordiga, il nemico del PCI. Ritratto CIA di un comunista contro
Nel 1944 l'OSS
(l'antenato militare della CIA) si interessò a Bordiga. Scopo
dell'indagine valutare adeguatamente forza e posizioni dei comunisti
in Italia, dentro e fuori il PCI. Il rapporto, molto interessante in
quanto uno dei pochissimi documenti su cosa Bordiga pensasse durante
la guerra, fu scoperto e in parte pubblicato da l'Espresso nel 1995 e
ripreso poi nel 2011 dal sito “Avanti barbari”. Lo riproponiamo
premettendo l'introduzione apparsa in quell'occasione.
“Verso
la fine della seconda guerra mondiale i servizi segreti "alleati"
si interessarono alla figura di Amadeo Bordiga. Riproduciamo qui
stralci (purtroppo solo stralci) di un rapporto CIA su Bordiga
pubblicati da L'Espresso nel 1995.
Anche
i russi, dopo la formazione del governo Badoglio a Salerno, giunsero
in Italia e si interessarono alla figura di Bordiga. Lo testimonia un
libro recentemente apparso (Marco Clementi, L'alleato Stalin.
L'ombra sovietica sull'Italia di Togliatti e De Gasperi, Rizzoli,
2011, pag. 87) da cui estraiamo queste frasi:
Il 30
novembre Fitin toccava un altro degli argomenti per i quali i
sovietici dimostravano un particolare interesse, ossia la presenza e
l'azione di formazioni trotzkiste in territorio italiano. A tale
proposito aveva raccolto informazioni su Amadeo Bordiga, che girò a
Dimitrov. Bordiga all'epoca aveva cinquantasei anni ed era il leader
di un'organizzazione comunista napoletana che faceva ancora
proseliti. A dire di Fitin, manteneva per indole un giudizio
indipendente, cosa che a suo tempo aveva contribuito a farlo
espellere dal Pcd'I quando nel 1929 non aveva voluto seguire gli
ordini provenienti da Mosca”. [Avanti barbari]
Bordiga, il nemico del
PCI
Ritratto CIA di un
comunista contro
L'office of Strategic
Services era molto interessato al partito comunista. Tra le figure di
comunisti ritenute meritevoli di attenzione vi era Amadeo Bordiga.
Ecco alcuni stralci di un rapporto su di lui, del 19 ottobre 1944.
Amadeo Bordiga, illustre
pensatore marxista italiano uscito dalla vita pubblica dal 1926, vive
attualmente a Roma. E' tuttora una dinamo umana e un gigante
intellettuale. Incontra leaders politici di tutti i partiti in
colloqui informali, ma smentisce ogni intenzione immediata di azione
politica contro i comunisti con cui ruppe sulla scelta tra
rivoluzione mondiale immediata o temporeggiamento..
Dal settembre 1943 ha
vissuto in stato di estrema ristrettezza a Formia, a sud di Roma, a
poca distanza dal fronte, con sua moglie e sua figlia medico. Intende
tornare alla sua professione di ingegnere industriale. Non ha un
soldo e rifiuta ogni genere di aiuto. Sua moglie vive nel terrore che
anche lui, come Trotsky, possa essere assassinato qualora decida di
rispondere agli appelli di migliaia di suoi fanatici seguaci e
diventi così il capo di un partito comunista indipendente che può
portare alla rovina l'attuale partito comunista ufficiale. Togliatti
troverebbe in Bordiga un potente concorrente. E tuttavia molti
pensano che se Bordiga venisse assassinato come Trotsky, Togliatti e
l'intera direzione del partito comunista rischierebbero lo sterminio
fisico da parte dei bordighiani fanatici. Le stesse persone, perciò,
pensano che un tipo calcolatore come Togliatti preferisca un metodo
più conveniente e meno rischioso: una campagna di calunnie e
di persecuzioni da parte degli Alleati contro Bordiga (...).
Queste le idee di Bordiga
così come le ha espresse in un'intervista.
a) Bordiga ha detto che
sta nascendo un nuovo partito comunista, diverso dal partito di
Togliatti. Questo sarà il vero partito comunista. Condurrà una
lotta senza tregua contro ogni deviazione dalla linea storica della
sinistra marxista, contro il partito di Togliatti, contro la
democrazia borghese, per il rovesciamento della borghesia e per
l'avvento della dittatura del proletariato (...).
d) Si stanno formando
gruppi comunisti di sinistra che sono già al lavoro in tutta Italia.
Bordiga vuole un partito fortemente centralizzato, così come lo
richiede la lotta rivoluzionaria per la dittatura del proletariato.
Secondo Bordiga il movimento della sinistra comunista è molto forte
nei centri industriali d'Italia ed è guidato da suoi vecchi amici e
collaboratori come Fortichiari, Repossi e Damen (...).
g) Secondo Bordiga,
Togliatti e il suo partito non sono comunisti. Sono solo uno
strumento dello Stato russo. Bordiga disprezza Nenni, ma ha più
rispetto per un socialista riformista come Modigliani (...).
i) il fascismo, ha
continuato Bordiga, è la forma politica ed economica più moderna
del capitalismo. Dopo la guerra il fascismo si spargerà in molti
paesi capitalisti sotto diversi nomi. Il movimento della sinistra
comunista farà altrettanto. La democrazia è una bugia, in nessun
posto la gente vive democraticamente. Sono tutti guidati da piccoli
gruppi. Quel che esiste è una dittatura della borghesia sotto nomi
diversi. Il compito di un partito rivoluzionario della classe operaia
è distruggerla e instaurare la propria dittatura. (...).
n) Secondo Bordiga, sia i
fascisti sia i cosiddetti antifascisti in questa guerra hanno dato
prova di grande vigliaccheria. I fascisti sono stati tanto vigliacchi
da non riuscire a difendersi, gli antifascisti troppo vigliacchi per
rivoltarsi. Ha ripetuto che il fascismo è stato rovesciato dagli
Alleati e dal re.
o) Bordiga ha detto che
l'attuale atteggiamento di implorare pietà dagli Alleati è
ridicolo. Se il partito rivoluzionario della classe operaia fosse già
stato formato ed egli ne fosse il capo, la loro linea sarebbe
totalmente diversa. Ha detto: «Noi diremmo agli Alleati: forza,
castigate la nostra borghesia, punitela senza pietà! E in questo
modo gli Alleati ci aiuterebbero a distruggere il nostro principale
nemico».
L'Espresso, n. 1, 5
gennaio 1995
mercoledì 7 novembre 2018
L'antifascismo non è questione di partito
L'antifascismo non è
questione di partito
“E' doveroso contestare
l'antifascismo quando esso diviene retorica o ideologia che
irrigidisce la storia, ma tale critica non può avere nulla in comune
con quella versione aberrante del revisionismo che vorrebbe porre
sullo stesso piano chi combatteva per impedire Auschwitz e chi
oggettivamente combatteva – qualsiasi fossero le sue motivazioni o
illusioni personali – per mantenere ed estendere Auschwitz”.
Lo scriveva nel 1997 sul
Corriere della sera Claudio Magris, intellettuale notoriamente non di
partito.
Chi fa dell'antifascismo questione di
partito, chi fra fascismo e antifascismo si dichiara apartitico, fa
proprio questo: dimentica Auschwitz.
Ma Auschwitz c'è stata e non si può
cancellare.
I morti di Auschwitz, i milioni passati per il camino, non smettono di chiedere a ognuno di noi: di fronte a tutto questo, tu da che parte stai?
Per questo la memoria fa paura.
Per questo tirarsi fuori, non prendere posizione significa comunque
schierarsi.
martedì 6 novembre 2018
Michele Fatica, Bordiga il comunista cancellato
Continuiamo a riproporre i
materiali del sito “Avanti Barbari” recentemente oscurato. Oggi riprendiamo un articolo di Michele Fatica preceduto dalla
presentazione che ne fece Sandro Saggioro.
Questo articolo di
Michele Fatica, apparso nella edizione napoletana di «La
Repubblica» del 25 ottobre 2002, annuncia e presenta il Convegno
«Scienza e politica in Amadeo Bordiga» che si tenne a Milano il 24
e 25 ottobre 2002 al quale lo stesso Fatica partecipò con una
relazione il cui titolo era «Amadeo Bordiga di fronte alla prima e
alla seconda guerra mondiale del secolo XX».
Michele Fatica, studioso
e storico napoletano, aveva conosciuto alla metà degli anni sessanta
Amadeo Bordiga che ne aveva apprezzato gli studi sul movimento
operaio napoletano e precisamente «Il movimento socialista
napoletano tra la fine dell'età giolittiana e il congresso di
Ancona» (Critica storica, n. 3, 31 maggio 1967) e «La
settimana rossa a Napoli» (Critica storica n. 4 e 5, 1968), lavori
che sfoceranno poi nel 1971 nel bel libro «Origini del
fascismo e del comunismo a Napoli [1911-1915]», (La Nuova Italia,
Firenze, 1971). Michele Fatica inoltre partecipa, dalla sua
costituzione, all'attività della «Fondazione Amadeo Bordiga». Ci
sia permesso infine correggere due piccoli errori presenti nel
testo: Bordiga fu espulso nel 1930 e non nel 1929 e «Il Soviet» non
fu mai un quotidiano.
Michele Fatica
Bordiga il comunista
cancellato. Geometria e rivoluzione i due volti di Bordiga
Milano ricorda Amadeo
Bordiga con un convegno internazionale (si chiude oggi) organizzato
dalla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di
Milano, patrocinato dal Dipartimento di Filosofia e Politica
dell'Università degli Studi di Napoli L'Orientale e dalla
Fondazione, che porta il suo nome, sorta a Formia per volontà della
consorte Antonietta De Meo. La scelta di Milano non è casuale,
perchè in quella città negli anni cinquanta fu pubblicata per la
prima volta da Giorgio Galli presso l'editore Schwarz una storia del
partito comunista italiano che metteva in luce la spinta prioritaria
che venne da Bordiga alla fondazione di quello che prese il nome di
Partito comunista d'Italia, sezione della Terza Internazionale. Lo
stesso Galli è l'animatore del convegno, per il quale ha messo a
disposizione un finanziamento ottenuto dal Cnr.
Galli ebbe molto
coraggio, in tempo di imperante stalinismo, a ristabilire il ruolo
che Bordiga ebbe nella fondazione di quel partito che la vulgata
voleva creato da Antonio Gramsci e dal gruppo torinese che faceva
capo all' Ordine Nuovo. Si stravolgevano i fatti perchè Bordiga
entrò in contrasto con Mosca, che lo estromise dalla direzione del
partito, già quando fu arrestato nel 1923, e accentuò il contrasto
con il centro moscovita man mano che si affermava l'astro di Stalin.
Negli anni di controllo
delle direttive e degli uomini di tutti i partiti comunisti del mondo
da parte di Mosca, Bordiga, che aveva osato attaccare Stalin per il
suo nazionalismo, l'oscena campagna contro Trockij e l'ossessione di
creare il socialismo in un solo paese, fu espulso per frazionismo nel
1929 dal Partito comunista d'Italia e il suo nome fu evocato solo
quando si trattava di coprirlo di ingiurie e di calunnie. Una delle
accuse ricorrenti era che aveva pensato, alla stregua di uomo della
camorra, a fare soldi costruendo case.
Chi ebbe la possibilità
di visitarlo, nella periferia di Formia, nella minuscola casetta
costruita in riva al mare di proprietà di Antonietta De Meo, può
solo testimoniare di uno stile di vita spartano, quasi povero, che
nulla aveva a che vedere con arricchimenti di qualsiasi genere.
La sua biografia è
certamente singolare. Veniva da una famiglia di studiosi di media
borghesia novarese, ma era nato nel 1889 a Resina, perchè il padre,
Oreste, insegnava economia rurale presso quello che allora si
chiamava Istituto Superiore di Agricoltura (poi facoltà di Agraria)
di Portici. Un fratello del padre, Giovanni, insegnò geometria
proiettiva presso la facoltà di Scienze dell'Università degli Studi
di Padova. Era una famiglia dove i libri circolavano e, insieme ai
libri anche idee liberali. La famiglia paterna riteneva di aver
portato un contributo all'unificazione italiana con la serietà degli
studi, mentre il nonno materno, Michele Amadei, era stato cospiratore
antipontificio e, negli anni Ottanta del XIX secolo, ministro di
Agricoltura, Industria e Commercio.
Alcuni valori gli vennero
dalla famiglia: rigore nello studio, sobrietà di vita, accoglimento
della versione democratica della unificazione italiana soprattutto
come un fatto di volontariato, presto sfruttato dalla dinastia
sabauda. Ma rifiutò l'adesione alla massoneria, cui appartenevano
sia Oreste che Giovanni. Il rifiuto della massoneria nei primi due
decenni del Novecento significava anche rifiuto della democrazia.
Questo rifiuto in Bordiga era motivato soprattutto dalla
consapevolezza che nella fase democratico-giacobina della
Rivoluzione francese, nel 1793, era stata introdotto la coscrizione
obbligatoria, quindi la guerra totale, in cui poveri contadini e
operai erano privati di qualsiasi autonomia di giudizio, ridotti ad
automi costretti solo a ubbidire.
Queste posizioni lo
resero subito odioso alla Unione socialista napoletana, largamente
controllata dalla massoneria, che si era staccata dal Partito
socialista, rivendicando la sua autonomia sulla base delle condizioni
particolari di Napoli. Certo, data la presenza di una plebe non certo
minoritaria, non era facile fare proselitismo socialista a Napoli. Ma
sia l'Unione socialista, sia la Borsa del lavoro (l'organizzazione
sindacale), con quadri dirigenti provenienti dalle associazioni
artigiane e dalla chiesa battista, fondata da diffusori delle Bibbie
protestanti arrivati a Napoli al seguito di Garibaldi, mostravano
scarso interesse alla cintura proletaria ad est (Poggioreale) e a
ovest (Bagnoli), preoccupati solo di difendere le loro piccole
posizioni di comando e di continuare le trame con i partiti
"democratici" dirette alla conquista del comune di Napoli.
Questa esperienza
autonomistica non ebbe un felice risultato, perchè Unione e Borsa si
dissolsero dopo che la gran parte dei suoi dirigenti fu favorevole
all'intervento dell'Italia nel primo conflitto mondiale e alcuni tra
i dirigenti più noti iniziarono la loro collaborazione al "Popolo
d'Italia" di Mussolini. La dissoluzione delle organizzazioni
autonomistiche coincise con il crescente successo della linea
politica di Amadeo Bordiga. Ostile non solo all'intervento
dell'Italia nella prima guerra mondiale, ma già da prima alle guerre
balcaniche e alla guerra italo-turca si guadagnò una larga influenza
prima tra i giovani socialisti e poi nel partito, imponendosi come un
dirigente autorevole a livello nazionale nel 1915.
Ebbe la fortuna di
iniziare la sua militanza nella cintura industriale di Napoli, in
primo luogo in quella parte della conurbazione che vantava una
presenza operaia fortissima, Torre Annunziata, Castellamare di
Stabia, S. Giovanni a Teduccio. Fondò periodici che ebbero subito un
certo numero di lettori. "Il Lavoro" di Portici, "La
Voce" a Castellamare di Stabia. Dopo la rivoluzione bolscevica
fondò il settimanale, poi quotidiano "Il Soviet",
ricostruì la Camera del Lavoro napoletana aderente al Cgl e la
sezione socialista.
Durante la guerra fu
fautore di una soluzione non molto diversa da quella russa e, a
guerra conclusa, si recò in Russia per partecipare al secondo
congresso dell'Internazionale comunista, partecipando alla stesura
delle 19 condizioni per aderirvi. Il suo prestigio crebbe sul piano
internazionale e la sua corrente "comunista astensionista"
ebbe il ruolo più importante nella formazione a Livorno nel 1921 del
Partito comunista d'Italia. Le sue disavventure iniziarono con
l'affermazione della teoria del socialismo in un solo paese e con la
sua critica di quanto veniva fatto in Russia (critica da sinistra,
tenne sempre ad insistere, mai di destra): tuttavia nel neonato
Partito comunista, fu, sotto la sua direzione, vivo il dibattito e
proficuo lo scambio di idee, perchè alla sua educazione liberale,
ripugnò sempre l'autoritarismo caporalesco.
Bordiga fu anche
ingegnere ed architetto, tenendo moltissimo al suo titolo (forse più
che a quello di dirigente politico). Dopo aver conseguito la licenza
liceale presso il liceo-ginnasio "Garibaldi", si laureò in
ingegneria brillantemente. Avrebbe potuto intraprendere la carriera
universitaria, ma preferì impiegarsi nelle Ferrovie dello Stato,
dalle quali fu licenziato per aver partecipato nel giugno 1914 allo
sciopero della Settimana Rossa. Negli anni del fascismo lavorò
presso studi privati, potendo esercitare liberamente la professione
solo dopo il crollo del regime. Partecipò attivamente al dibattito
per la revisione del piano regolatore di Napoli del 1939, chiamato a
far parte della commissione Piccinato. Denunziò già nei primi anni
del secondo dopoguerra il rischio della cementificazione della città
e della distruzione della parte produttiva del quartiere gravitante
attorno al porto. E' un capitolo della biografia di Bordiga poco
noto, su cui getterà luce Luigi Gerosa, uno studioso che ha avviato
presso l'editrice Graphos di Genova l'edizione di tutti gli scritti
di Bordiga.
Il convegno con la
partecipazione di Luigi Cortesi, di Liliana Grilli, di Franco Livorsi
ed altri, promuoverà le riflessioni su aspetti noti e poco noti,
oscuri e a volte inquietanti della singolare figura del Bordiga,
morto a Formia nel luglio del 1970.
«La Repubblica»
(edizione di Napoli), 25 ottobre 2002
lunedì 5 novembre 2018
La Grande Guerra. "Uomini contro" di Francesco Rosi
6 novembre 2018
Alle ore 21.00
Biblioteca Civica A. Aonzo
Piazza Costituzione - Quiliano
Proiezione film "Uomini contro" di Francesco Rosi
A cura del Cineforum QUEI BRAVI RAGAZZI - Quiliano
Introduzione storica: Giorgio Amico
Agenore Fabbri. La passione della materia
AGENORE FABBRI
la passione della
materia
a cura di Riccardo
Zelatore e Sandro Ricaldone
Entr’acte
via sant’Agnese 19R – Genova
7 – 30 novembre 2018
orario:
mercoledì-venerdì 16-19
inaugurazione: mercoledì 7 novembre 2018, ore 18
Nella ricorrenza del ventennale della scomparsa di Agenore Fabbri ((Quarrata, 1911 – Savona, 1998) Entr’acte partecipa al ciclo di mostre “Agenore Fabbri. La passione della materia” curato da Riccardo Zelatore, che vede protagoniste l’ArtGallery La Luna di Franco Carena e Alessandro Capato (Borgo San Dalmazzo, 20/10/2018-13/1/2019), Balestrini Arte Contemporanea di Alessandra e Cristina Balestrini (Albissola Marina, 10/11/2018-13/1/2019).
Attorno al “Personaggio lunare”, una scultura in bronzo del 1962, esempio fra i maggiori della ricerca compiuta dall’artista in ambito – a dispetto del titolo - non schiettamente figurativo, la mostra riunisce disegni e schizzi appartenenti a due distinti periodi.
Il primo, riferito ad un arco temporale che dal 1949 si protende nel decennio successivo, è rappresentato anzitutto da due chine di matrice astratto-biomorfa, caratterizzate da svolgimenti sinuosi e da un sapiente gioco fra pieni e vuoti, cui fanno seguito tre abbozzi a carboncino ritraenti animali tratteggiati con un segno pesante, secondo un impianto nel quale l’espressività marcata si coniuga con un dinamismo di stampo futurista, ben noto all’autore che dopo il trasferimento dalla Toscana ad Albisola, nel 1932, aveva potuto incontrare in quella sede taluni fra i principali esponenti di quel movimento.
La seconda congiuntura si colloca invece attorno al 1960, illustrata da una sequenza di tecniche miste su carta d’impronta segnatamente informale, ove la memoria della figura, ancora avvertibile nei primi fogli evolve gradualmente verso una pura sensibilità atmosferica.
La mostra è affiancata da un catalogo con testi critici e le riproduzioni di tutte le opere esposte nelle mostre del ciclo.
domenica 4 novembre 2018
Amadeo Bordiga. Il fondatore dimenticato
Continuiamo
con la ripubblicazione dei materiali raccolti da Sandro Saggioro e
ormai non più disponibili in rete. Sandro definiva questo articolo di Giorgio Bocca, apparso nel 1973 su «Storia
Illustrata»
“interessante, simpatico e corretto”. Ed in effetti si tratta di
uno dei primi articoli seri dedicati
al fondatore del PCI dopo la stagione delle calunnie.
Giorgio
Bocca
Amadeo
Bordiga. Il fondatore dimenticato
Per lunghi
anni Amadeo Bordiga è stato il «diavolo» del nostro comunismo
ortodosso, l'equivalente italiano di Trotzki, il nemico, l'eretico; e
siccome il comunismo italiano ortodosso ha avuto ed ha il monopolio
dei documenti e degli archivi, siccome anche la revisione critica su
Bordiga è passata e passa, in gran parte, attraverso i canali
storici del PCI, si corre anche oggi il rischio di dare di Amadeo
Bordiga una immagine deformata, come del resto lo si corre con
Gramsci e con Togliatti, Abbiamo cercato perciò, nei limiti
dell'abbozzo biografico di tenere presente anche una conversazione
con Bruno Maffi, uno dei «figli di Bordiga» e storico della
sinistra comunista.
Come
Togliatti, come Gramsci, come quasi tutti i dirigenti comunisti,
Amadeo Bordiga è di estrazione borghese: nasce il 13 giugno 1889 a
Resina dal professor Oreste, un piemontese sceso a Portici alla
scuola agraria; la madre invece è fiorentina e nobildonna; ricorderà
Ruggero Grieco nel 1923, nel saluto a Bordiga, arrestato dai
fascisti, che «agli agi della sua famiglia di antica nobiltà... ha
preferito farsi condottiero di masse». Non è qui il caso di
ricostruire nei dettagli la fanciullezza e la gioventù di Amadeo;
basterà ai fini di questo ritratto dire che egli è, naturaliter,
una persona colta, abituata alla frequentazione degli intellettuali,
il che gli consentirà fin dai primi anni della attività politica e
giornalistica di guardare alla cultura del suo tempo con sufficiente
distacco, senza infatuazioni e venerazioni, scegliendovi liberamente
i suoi interessi: «Non aveva letto» ricorderà Giuseppe Berti «una
pagina di Croce e di Gentile -se ne vantava , ed era vero - trovava
il positivismo infastidente ed approssimativo, gli sembrava che come
filosofia il marxismo largamente bastasse».
Gli studi
universitari in ingegneria lo portano a Pavia e poi a Napoli e a 21
anni ha già fatto la sua scelta politica, si è iscritto alla
sezione socialista di Portici, ha già iniziato la collaborazione ad
Avanguardia,
il giornale della gioventù socialista, e al foglio intransigente La
soffitta,
assieme a Lazzari e a Serrati nonché al foglio locale La
Voce di Castellamare.
Si può
dire che sia proprio questa sua sicurezza nei confronti della
cultura, questa sua conoscenza della cultura borghese, a fornirgli la
prima occasione di affermarsi a livello nazionale. Nel 1912, al
congresso giovanile socialista di Bologna, e per lettera su L'Unità
di Salvemini, inizia infatti una polemica con Angelo Tasca che non
passa inosservata nel partito. E' la polemica che va sotto il nome di
«culturista». Raccogliendo una idea salveminiana, Tasca ha accusato
il partito socialista. i giovani in particolare, di essere incolti ed
ha attribuito a questa incoltura i ritardi del movimento. Bordiga
rifiuta questa posizione: il problema del socialismo. dice, non è
quello di una cultura che è e resta borghese e che nessun riformismo
riuscirà a cambiare, il vero problema del socialismo italiano è di
trovare una sua unità ideologica e di azione, è di sconfiggere «il
localismo e il particolarismo».
Il Bordiga
del 1912 ha dunque già sufficientemente chiara la visione critica
del vecchio partito che poi Gramsci chiamerà il Barnum, il grande
vaso in cui si raccolgono le forze più disparate, dai sindacalisti
rivoluzionari ai riformisti di destra. Non è questo il partito che
può piacere all'intransigente napoletano il quale, sempre nel 1912,
ha fondato il Circolo
Carlo Marx
assieme a Ruggero Grieco e a Oreste Lizzadri, primo strumento di una
opposizione che durerà fino alla scissione socialista: «In tutto il
periodo compreso tra il 1912 e il 1919» osserverà Andreina De
Clementi «la sua vicenda si identificò con la storia della sua
progressiva presa di coscienza... della estraneità del PSI ai
principi marxisti».
Nella
storia del comunisti ortodossi Bordiga appare solo nel 1921 e come
antitesi del gruppo torinese ordinovista di Gramsci e Togliatti.
Diciamo piuttosto, secondo la verità storica, che Bordiga, come
Tasca, sono già noti nel partito socialista nel 1914 mentre Gramsci
e soprattutto Togliatti sono degli illustri sconosciuti. Ma a parte
la notorietà, a parte il peso dentro il partito, vi è fra il
Bordiga e il Gramsci del 1914 un certo parallellismo. Entrambi sono
mussoliniani come lo sono molti fra i giovani, entrambi vedono in
Mussolini l'uomo che ha sbancato i riformisti del partito e che
sembra capace di guidarlo in senso rivoluzionario. «Anche Bordiga»
ammette la sua biografa De Clementi «aveva dato credito alla
irruenza mussoliniana e tra i due si era stabilita una corrente di
viva, reciproca simpatia, sfociata nella collaborazione del giovane
napoletano alla rivista teorica Utopia».
Dal congresso socialista di Ancona alla settimana rossa il giovane
Bordiga segue Mussolini nella sua lotta contro i massoni e contro i
riformisti. E' solo nell'ottobre del 1914 che questa alleanza si
rompe sul tema dell'interventismo. E' già in corso la guerra
mondiale fra gli imperi centrali, descritti come reazionari e
feudali, e le democrazie occidentali, che passano per le
continuatrici della rivoluzione francese, per le sostenitrici dei
principi di indipendenza nazionale e di autodeterminazione dei
popoli. Si tratta di definizioni molto opinabili così come sono
opinabili i giudizi che si possono dare del conflitto; ma è su esso
che il movimento socialista italiano si spacca una prima volta. Il
partito socialista ha fatto della neutralità, del rifiuto della
guerra il suo ubi
consistam
ideologico, il suo comune denominatore; e fa scandalo che
improvvisamente il 24 ottobre del 1914 proprio il direttore dell'
Avanti!,
Mussolini,
la metta in dubbio, la discuta con un articolo che ha per titolo «Per
una neutralità attiva ed operante» e qui finisce anche il
parallellismo con Gramsci il quale invece commenta in modo quasi
favorevole l'articolo mussoliniano e poi, con Togliatti, imbocca la
strada dell'interventismo.
Bordiga,
dicevamo, non ha esitazioni e non si limita ad articoli teorici.
Scrive, con altri, Il
soldo del soldato,
un opuscolo destinato ai coscritti in cui si rifiuta ogni distinzione
fra guerra offensiva e difensiva perchè la guerra, comunque, è
imperialista e volta allo sfruttamento del proletariato. Una tale
guerra va sabotata, osteggiata. Sono le idee che un Bordiga isolato a
Napoli, tagliato fuori dal movimento socialista internazionale,
svilupperà nel corso del conflitto riscoprendo in certo senso il
disfattismo rivoluzionario di Lenin.
Alla fine
della guerra, cadute le prudenze imposte dal conflitto la sinistra
socialista riprende con rinnovato ardore l'opposizione dentro il
partito, e la sorregge, la sprona l'entusiasmo per la rivoluzione
russa, per la nascita del primo stato socialista del mondo. Si vive
in un periodo, è bene ricordarlo, in cui l'attesa rivoluzionaria si
è diffusa in tutta Europa, in cui la fine del vecchio ordine pare
imminente; e i giovani premono perchè il partito si adegui, perchè
sia pronto. Bordiga e la sua corrente hanno preso il sopravvento a
Napoli, il sindacato che controllano ha 7000 iscritti, il 22 dicembre
è uscito il giornale di corrente Il
Soviet
in cui il giovane leader espone le sue idee, sempre quelle: «il
partito politico ... non è nel concetto nostro organo di conquiste
elettorali per gli intellettuali che dirigono il movimento, ma è
l'organo politico di una classe sociale che, solo affratellata in una
collettività che superi gli individui, i gruppi, le categorie, le
razze, le patrie, potrà dare e superare le sue definitive
battaglie». L'eterno immutabile Bordiga del partito dei puri,
rivoluzionario che farà dire a Zinoviev: «Voi siete come un palo
telegrafico, siete sempre lì».
Cerchiamo
di capire, per brevi tratti, la situazione del partito socialista nei
primi anni del dopoguerra: la mobilitazione delle masse contadine ed
operaie, le inquietudini della media e piccola borghesia, lo hanno
ingigantito e al tempo stesso svuotato; ha conquistato moltissimi
seggi nelle elezioni, è il partito con il maggior numero di iscritti
ma è anche un partito che mira ai voti, ai municipi assai più che
alla rivoluzione. Non è questo partito che può piacere ai
socialisti intransigenti riuniti attorno al Soviet
di Bordiga, e neppure a quelli che leggono l' Ordine
Nuovo a
Torino e che hanno Gramsci come leader.
Ma i due
gruppi hanno idee diverse su modo di uscire dalla crisi: Gramsci
punta tutto sui consigli operai che prima si impadroniscono delle
industrie e poi dell'intero Paese; Bordiga capisce invece che
l'Italia non è Torino, che le avanguardie operaie non bastano a
guidare le masse contadine, che bisogna creare un partito politico
capace di arrivare alla conquista del potere politico. Posizioni
polemiche, ma di reciproca stima intellettuale: Bordiga sale spesso a
Torino per convincere Gramsci e gli ordinovisti e nasce fra i due un
rapporto critico ma affettuoso. Bordiga non permetterà mai che si
parli in sua presenza in termini spregiativi di Gramsci, e quando
sarà al confino offrirà il suo aiuto disinteressato per la
liberazione di Antonio.
Allorché
finalmente, sotto la spinta di Lenin e della nuova internazionale
comunista si arriva alla scissione di Livorno del 1921, Bordiga è
l'incontrastato leader del partito e il dominatore del congresso. La
storia sacra dei comunisti ortodossi arriverà a dire, come è noto,
che Gramsci e Togliatti sono stati i fondatori del partito comunista,
ma è vero il contrario; Togliatti è a Torino a fare il giornalista
e Gramsci riesce a stento ad entrare nella direzione. E presto tutti
gli ordinovisti, con la sola eccezione di Antonio, forse, sono degli
accesi bordighisti, lo seguono nella sua linea intransigente.
Impressiona, in questo Bordiga, la sicurezza in se stesso, il
sentimento di indipendenza, la certezza di aver cercato e trovato una
vita autonoma al socialismo. Gli dicono che Lenin è in disaccordo
con lui sull'astensione dalle elezioni? Risponde: Lenin ed io siamo
figli di Marx a parità di diritti. E la situazione russa non è
quella italiana. Ai bolscevichi, ai rivoluzionari sovietici Bordiga
appare come la personalità dominante del partito italiano. Dirà di
lui Kamenev: «Amadeo è un leone».
Bordiga ha
doti tribunizie, è un oratore trascinante. Gramsci è seguito
soprattutto per la sua intelligenza, ma in Amadeo l'intelligenza si
accompagna alla passione. E' uomo vivo, pieno, gran bevitore, gran
mangiatore, quando capita in casa Maffi a Milano non dimentica di
portare i dolci napoletani; ha sposato Ortensia, una compagna bella
con occhi luminosi, grande combattente anche lei, pronta a
«giustiziare» Mussolini quando tradisce il partito, capace di
rifiutare la mano al comunista francese Cachin che giudica troppo
spostato a destra. Bordiga non ha complessi di inferiorità neppure
di fronte alla mitica Terza Internazionale meglio nota come
Comintern. La divergenza compare quasi subito: l'Internazionale crede
di poter pensare alla strategia generale del movimento a cui i
singoli partiti devono adattarsi in modo tattico: il partito italiano
per esempio tenga presente la situazione italiana di fascismo
nascente e si adegui, cerchi una alleanza tattica con i socialisti.
Bordiga
non ci crede: per lui il fascismo non è che un aspetto del governo
borghese; se viene il fascismo un buon comunista non deve rinunciare
ai propri ideali gridando viva la democrazia che è l'altro aspetto
del governo borghese; deve invece serrare le file, tenere in piedi
l'organizzazione rivoluzionaria, e tenerla in piedi evitando le
contaminazioni socialdemocratiche. E' certamente un errore: il
fascismo passerà più facilmente con un antifascismo diviso e sarà
in grado di distruggere tutte le organizzazioni rivoluzionarie.
Bordiga,
va però sottolineato, espone questa tesi prima della esperienza
fascista e non è giusto giudicarlo con il senno di poi, sul metro di
un fascismo rivelatosi alla nazione e al mondo come un fenomeno
nuovo. Si tratta comunque di due posizioni, quella della
Internazionale e quella di Bordiga, difficilmente conciliabili. Ma
non è giusto, come si è fatto da parte dei comunisti staliniani,
presentare Bordiga solo come un cocciuto schematico e astratto:
Amadeo ha una sua idea del partito rivoluzionario che non ha più
avuto alcuna possibilità di essere verificata da quando il movimento
comunista ha rinunciato a quel tipo di rivoluzione.
Nel 1923,
a marcia su Roma compiuta, Bordiga venne arrestato dai fascisti. Il
partito dei «puri», come lo ha voluto, non ha opposto resistenza al
colpo di stato fascista; si impone in extremis, la necessità di
rovesciare la sua politica, di cercare una alleanza con i socialisti.
Nel giugno del 1923 l'esecutivo allargato dell'Internazionale
sconfessa Bordiga, e impone un rinnovamento della direzione in cui
entrano i «destri» come Tasca e Vota. Amadeo, dal carcere, risponde
con la abituale fierezza: «Non pretendo di rappresentare altro che
il signor me stesso, ma dichiaro ... che non collaborerò in
alcun modo al lavoro di direzione del partito. Dall'esecutivo sono
lieto di essere già escluso ... Non mi dimetto da non so che cariche
che mi hanno dato a Mosca, ma se dovessi uscire, non andrò laggiù
neanche per poco tempo».
Il partito
è lacerato, non vuole rompere con Mosca ma non vuole neppure
ripudiare l'amato leader. L'operazione per estromettere Bordiga e i
suoi fedelissimi dalla direzione sarà diretta da Gramsci, e durerà
fino al 1925, con una lenta conquista dei quadri. Bordiga però non
si dà per vinto e, se volesse, il suo ruolo all'Internazionale
resterebbe di primo piano: il gruppo Bucharin-Stalin che dirige il
partito russo non è sicuro di Gramsci, Bordiga potrebbe servire come
carta di riserva. Ma Bordiga non è uomo da stretti calcoli di
potere, Bordiga guarda alle questioni di fondo. Egli è il primo che
abbia il coraggio di porre ai sovietici e a Stalin la domanda
decisiva: «Dove sta andando l'Unione Sovietica?». Sta costruendo
davvero il socialismo o sta fabbricando un colossale capitalismo di
stato?
Il 1°
marzo 1926 c'è fra Bordiga e Stalin un incontro storico. Bordiga
chiede informazioni sui programmi industriali, sul modo socialista di
industrializzare il paese e poi pone una domanda decisiva: «Il
compagno Stalin pensa che lo sviluppo della situazione russa e dei
problemi interni del partito russo è legato allo sviluppo del
movimento proletario internazionale?». Come a dire: voi sovietici vi
preoccupate ancora della rivoluzione mondiale o badate soltanto al
socialismo nel vostro paese? E Stalin con sdegno, non sappiamo se
sincero o simulato, risponde: «Questa domanda non mi è mai stata
rivolta. Non avrei mai creduto che un comunista potesse rivolgermela.
Dio vi perdoni di averlo fatto».
Uno
scontro duro, dignitoso, non lo Stalin che umilia e ridicolizza
Bordiga come si leggerà nella storia sacra togliattiana.
Bordiga è così poco umiliato che ventiquattro ore dopo al VI Plenum
dell'Internazionale pronuncia il solo vero discorso di opposizione
entrando nel merito della questione russa, nel merito dei metodi
russi: «In questi ultimi tempi si impiega nel partito uno sport che
consiste a colpire, intervenire, spezzare, aggredire; ed in questi
casi i colpiti sono spesso degli ottimi rivoluzionari. Trovo che
questo sport del terrore nell'interno del partito non ha nulla di
comune con il nostro lavoro... L'unità si giudica dai fatti, non da
un regime di minaccia e di terrore. Quando gli elementi deviano in
modo evidente dal cammino comune bisogna colpirli, ma se in una
società l'applicazione del codice criminale diventa la regola, ciò
significa che la società è imperfetta... Ci occorre assolutamente
un regime più sano nel partito, è assolutamente necessario che si
dia al partito la possibilità di costruire la sua opinione... Il
partito russo lottava in condizioni speciali cioè in un paese in cui
l'aristocrazia feudale non era stata ancora sopraffatta dalla
borghesia capitalistica. E' necessario per noi sapere come si attacca
uno stato democratico moderno...» E' difficile immaginare una
critica più pertinente al sistema staliniano in formazione, e una
formulazione più esatta dei problemi fondamentali della rivoluzione
dei Paesi avanzati.
Togliatti,
che rappresenta a Mosca il partito italiano di Gramsci, se ne avvede
e deve dire: «Avete sentito tutti Bordiga, e sembra che abbiate una
certa simpatia per lui. Pone i problemi in modo sincero e pare avere
la forza di un capo. Ma noi non crediamo che sia un grande capo
rivoluzionario». E magari è così, ma resta aperta la questione se
ai fini del socialismo sia stata più utile la sua intransigenza, o
il realismo togliattiano. Bordiga, arrestato jnel 1926, mandato al
confino, viene espulso dal partito comunista nel 1930, dopo che
Togliatti si è arreso senza condizioni a Stalin, e approfittando
delle purghe che Stalin pretende in tutti i partiti dei presunti
trotzkisti. La identificazione di Bordiga con Trotzki è quanto mai
approssimativa e vale come tutte le altre identificazioni fra i
nemici dello stalinismo.
Le
calunnie degli stalinisti
Bordiga
torna a Napoli, si dedica alla sua professione di ingegnere, e
sopporta l'isolamento politico e la calunnia a cui i comunisti
ortodossi lo sottopongono dall'esilio. L'odio e l'indignazione dei
togliattiani nei riguardi dell'ex-leader sono artificiosi, fatti per
compiacere Stalin, per rafforzare nei militanti di base l'odio verso
l'eresia trotzkista. E nel periodo del peggiore stalinismo le
requisitorie contro Bordiga si succederanno ossessivamente. Si arriva
a scrivere che «l'avversione a Bordiga e al bordighismo è sempre
stata profonda in Togliatti, direi quasi fisica». E poiché ha
assistito al matrimonio di una nipote, a cui sono presenti anche dei
fascisti, lo si accusa di essere «una canaglia trotzkista, protetto
dalla polizia e dai fascisti».
In verità
Bordiga vive isolato nel suo alloggio di corso Garibaldi a Napoli, e
i suoi unici amici sono i comunisti, pochi, che non lo hanno
abbandonato. Egli è convinto che l'uscita dallo stalinismo prenderà
un tempo molto lungo, e sa che un uomo come lui non ha il minimo
spazio: o lo reprimono i fascisti, o lo eliminano gli stalinisti.
Meglio dunque attendere, e intanto ripensare il marxismo, ripensare
il partito rivoluzionario.
Alla fine
della Seconda Guerra Mondiale Bordiga prende atto che lo stalinismo
non è finito, e che una sua uscita in campo aperto contro il partito
togliattiano non avrebbe alcuna possibilità di successo. Ma è in
questi anni fra il 1944 e il 1965 che svolge un enorme lavoro
ideologico, scrivendo su Programma
comunista
e compilando saggi come il Dialogato
con Stalin del
1953 e Dialogato
coi morti
del 1956, in polemica con Krusciov.
A Napoli
egli ha più ammiratori che compagni di partito, i militanti più
numerosi sono al nord. Negli ultimi anni Bordiga era stato colpito da
una paresi, ma continua a pensare, a scrivere, a parlare come si è
visto in una drammatica intervista televisiva trasmessa post
mortem.
Il breve
abbozzo biografico di Amadeo Bordiga si ferma qui. Certamente l'uomo
non è stato mondo di difetti e di errori come pretenderebbero i suoi
seguaci. Certamente alla prova del fascismo Bordiga ha compiuto
errori gravi di analisi e di scelta tattica, ma da tutti i suoi
scritti, da tutti i suoi atti emana una intelligenza sincera,
generosa, nobile, che lo accomuna più a Gramsci che a Togliatti. E
che comunque gli merita un giudizio più equo e una storia più
onesta di quelli usciti fin qui dal partito comunista togliattiano.
«Storia
Illustrata», n. 189, agosto 1973