martedì 28 febbraio 2017

Da non perdere: Fabio Biale, Senza peso/Tour



Fabio Biale
Senza peso/Tour

11 marzo 2017

Chapeau
Via Famagosta 12r
Savona
ore 21.00-23.00


Dopo la lunga militanza con Zibba e Almalibre e le avventure folk con i Luf, i Liguriani e i Birkin tree, il violinista cantante torna in studio da solo per una nuova raccolta di canzoni originali. Nelle dodici tracce lo swing gitano, il valzer, il canto narrativo ed il rock si incrociano per raccontare storie la cui gravità insegue il segreto della leggerezza: eroi, innamorati, assassini, mendicanti; i disillusi e gli inarrestabili.

“Italo Calvino sottolinea che dal sangue della Medusa, che trasformava chiunque la osservasse in pietra, era nato il cavallo alato Pegaso. La pesantezza può essere rovesciata nel suo contrario” racconta Fabio a proposito dello spirito del nuovo album. “Così nello stesso disco convivono protagonisti della Resistenza e maniaci di provincia, chi si lascia andare allo sconforto e chi non smette mai di credere che domani sarà migliore. Tutti fanno parte dell’amara commedia della vita che solo una leggerezza pensosa può alleviare”.



Così parlò Fabio Biale


Le canzoni della leggerezza le faccio partire da Savona.
Ho preparato il minestrone e gli ingredienti sono bio: swing zingaro alla Django Reinhardt, indie rock e Lezioni Americane di Italo Calvino. 
Con tre amici e supermusicisti, Ivano Vigo (chitarre), Davide Medicina (basso) e Lorenzo Ottonello (batteria) le ho elettrificate, sbollentate, salate e pepate. Il piatto mi pare saporito ma leggerissimo.
Venite affamati!

E così si presenta

Fabio Biale: Musician/Band
Violinista, polistrumentista. Non cantautore ma cantastorie. Logorroico con timidezza. Malato di musica. Sicuramente calvo.

Un appuntamento da non perdere

Siamo tutti Edipo: riflessioni sul mito fondamentale della psicoanalisi

    Max Ernst, Edipo (1922)

Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura - Genova

SIAMO TUTTI EDIPO:
RIFLESSIONI SUL MITO FONDAMENTALE DELLA PSICOANALISI

1 MARZO 2017, ore 17.45

Sala del Maggior Consiglio

Lectio magistralis
di
MASSIMO RECALCATI

Presiede: NICLA VASSALLO

Per il ciclo “Miti senza tempo”, a cura di Eva Cantarella e Nicla Vassallo, Massimo Recalcati riflette sul mito di Edipo, sostenendo esplicitamente già nel titolo della sua lectio due tesi: 1) tutti gli umani sono Edipo; 2) il mito di Edipo è fondamentale per la psicoanalisi.

Si tratta di tesi  che presentano sfida non da poco, con cui Recalcati dovrà confrontarsi nella sua lectio, poiché per le “ragazze” in psicoanalisi non si parla del complesso di Edipo, bensì del complesso di Elettra, complesso quest’ultimo che rimane comunque una sorta di analogo femminile del complesso di Edipo; inoltre, alcune ricerche etnoantropologiche non hanno riscontrato sul “campo”, in alcune società non occidentali, in base alla loro specifica strutturazione della famiglia, evidenze del complesso di Edipo e/o di Elettra. In secondo luogo, occorre mostrare che il mito di Edipo costituisce davvero il mito fondamentale della psicoanalisi, e non semplicemente uno dei miti a cui essa ha fatto e fa ricorso per spiegare un certo complesso.


domenica 26 febbraio 2017

Lia Giribone Crocco. A pesare la neve hai mai pensato?


Ieri sera a Savona nei locali dell'Associazione Labirinto  si è tenuto un affollatissimo reading di poesie di Lia Giribone Crocco. Ne riprendiamo due che ci hanno particolarmente emozionato e che ben testimoniano del personalissimo percorso creativo dell'autrice.


PESARE LA NEVE

A pesare la neve hai mai pensato
mentre si posa a terra con lentezza
con la lievità di una gelida carezza sulla pelle
che il freddo ha già arrossato?

A pesare la neve hai mai giocato
mentre sfugge nell'aria silenziosa
si distende sul capo come un velo di sposa
un diadema di fine ghiaccio ricamato?

A pesare la neve hai mai provato
mentre sul palmo si scioglie
al calore del sangue lasciando un fragile sentore
di freschezza e candore ritrovato?

A pesare la neve hai mai pensato?  


IL SACCHETTO DI PLASTICA VUOTO

Vola danzando
un sacchetto di plastica vuoto.
Muta forma
plasmato da una mano invisibile.
Ancora non sa
quando toccherà terra.

Respira nel vento
dilata i confini
del suo corpo mutevole
ancora non sa
se è caldo il terreno
o bagnato
o irto di pietre taglienti.

Resta lì
sospeso in un gelido istante
fluttuante tra le morse del tempo
ignaro e felice.

sabato 25 febbraio 2017

Pino Bertelli, Ferro, Fuoco, Terra! 50 anni di lavoro in Maremma


Una terra, degli uomini, il lavoro, la fatica, la dignità e la speranza. Questa è l'ultima grande mostra di Pino Bertelli , cantore degli ultimi e orgogliosamente refrattario alle lusinghe del mercato. E naturalmente vecchio amico di Vento largo.

Silvia Trovato-Tiziano Arrigoni

Ferro, Fuoco, Terra! 50 anni di lavoro in Maremma

La mostra di Pino Bertelli «Ferro, Fuoco, Terra! 50 anni di lavoro in Maremma» racconta con lo sguardo libertario di questo autore di fama internazionale il lavoro di ieri e di oggi della Maremma toscana. L'iniziativa fa parte del progetto di collaborazione tra Irta Leonardo (Istituto di Ricerca sul Territorio e l'Ambiente) e Magma Follonica, museo che fa dell'attenzione al mondo del lavoro e della memoria storica locale uno dei suoi principali fulcri.

Da sempre sensibile e recettivo alle questioni del lavoro e della società, dell'emarginazione, della diversità e della libertà, Pino Bertelli raccoglie in questa mostra ritratti, ambienti, luoghi di lavoro e di memoria in trenta foto in grande formato seguendo un percorso che unisce gli elementi della terra, del mare, del ferro e del fuoco.
La prima dimensione ambientale è quella dei lavori agricoli e del bosco, l'elemento della terra è catturato nella sua trasformazione che negli anni Settanta è già arrivata a modificare la fisionomia delle campagne. I lavoratori dell'agricoltura in questo periodo sono ormai ridotti a proporzioni marginali, ma in Maremma, territorio agricolo, ci sono persistenze ed elementi di continuità che fanno ancora resistenza. Le nuove generazioni agricole saranno più specializzate, più attente al prodotto, fino all'agricoltura biologica e alla creazione degli agriturismi.

L'altra fondamentale dimensione che racconta le terre di Maremma è quella delle miniere che negli anni Settanta/Ottanta vivono gli ultimi momenti di vita, come la miniera di Campiano/Boccheggiano: si tratta di un mondo che scomparirà totalmente nel giro di pochissimi anni, e di cui le foto di Bertelli conservano una fondamentale traccia.

Parlare di lavoro in Maremma significa anche parlare di grande industria pesante, dal polo chimico di Scarlino, a quello siderurgico di Piombino. Gli anni Ottanta e Novanta porteranno forti trasformazioni motivate da esigenze ambientali, e dal mercato mondiale che porterà a un profondo processo di ristrutturazione. I poli della grande industria diverranno sempre più marginali, trasformandosi da industrie propulsive che assorbivano manodopera ed erano anche un simbolo politico, a roccaforti disseccate e sospese anche nell'immaginario collettivo.

Accanto ai modelli da "seconda rivoluzione industriale" si pone il settore terziario, da quello turistico balneare di massa, al turismo culturale e gastronomico delle colline, ai percorsi di archeologia industriale che cercano di recuperare la memoria e farne un motore di sviluppo futuro.
Infine i nuovi mestieri legati alla quarta rivoluzione industriale, quella informatica, ma soprattutto la precarizzazione progressiva ed incisiva del lavoro, che semina i suoi vuoti, le sue questioni aperte e le sue ferite e poi le migrazioni del mondo che si uniscono a formare i nuovi ritratti di questa Maremma che raccontiamo attraverso il lavoro, attraverso l'identità del passato e quella in costruzione del futuro.



Carlo Arturo Quintavalle
Ordinario di Storia dell'Arte, Università di Parma

Le strade della fotografia

Pino Bertelli è uno dei fotografi più importanti del nostro tempo, è un fotografo di consapevolezze complesse, di qualità molto alta, di passioni anche estreme. Comunque le sue immagini sono di quelle che restano nella storia della fotografia, e non solo in quella del nostro paese.

Se siano davvero realistiche non importa, i realismi sono molti e proprio Bertelli ne ha sperimentati diversi per giungere alla qualità delle sue raffigurazioni, ma ha anche vissuto da vicino, ne sono certo, la fotografia della astrazione, quella delle avanguardie. Che esse siano borghesi non credo, come non credo al filo rosso del realismo staccato da queste ricerche non di segno diverso, credo. Ma tutto questo non importa, anche le avanguardie, quelle dell'astrazione, hanno contribuito a distruggere le immagini pianificate di ogni ufficialità, dai futuristi ai costruttivisti, da Dada al Surrealismo, e parlo di fotografia.

Così forse un giorno potremo meglio ripercorrere le matrici della ricerca di Bertelli proprio dentro l'astrazione, come certo non sarebbe piaciuto a Ždanov e ai suoi poveri evocatori. Ma questa, forse, sarà altra storia.

La fotografia di Bertelli ha dialogato e dialoga ancora oggi con le immagini scattate da alcuni grandi protagonisti della fotografia, e sopratutto con Henri Cartier-Bresson, e con alcuni altri fotografi della Magnum, ma anche con altri attori sulla scena storica della fotografia, quelli legati alla Farm Security Administration. Come pensare dunque che siano nate queste foto che analizzano le persone, non i mestieri delle persone, se non da una partecipazione attenta allo spazio del loro lavoro, dalla comprensione della loro fatica? Come non pensare a quello che suggerivano Stryker e gli altri della FSA, dunque a Dorothea Lange e a Walker Evans, sul modo di porsi di fronte a un evento, sul come analizzarlo, sul come raccontarlo per immagini?

Bertelli ha una sapienza diversa rispetto a tanti fotografi impegnati, sa fermare il tempo e sa condensarlo nelle fotografie.



www.utopiarossa.blogspot.com




giovedì 23 febbraio 2017

Ecologia e bellezza. Architettura del paesaggio ligure



«All’uomo moderno, travolto dalla corsa al profitto, serve una nuova filosofia, o meglio una ecosofia, che metta in relazione l’amore per il sapere con l’ormai imprescindibile e improcrastinabile salvaguardia dell’ambiente».


Lo afferma l’architetto Maurizio Spada nel suo ultimo libro L’altro architetto, Giampiero Casagrande editore, e sarà questo il tema della conferenza “Ecologia e Bellezza, architettura e paesaggio ligure”, che si terrà sabato 25 febbraio alle ore 16.30 nella sede del Museo Bicknell in via Romana 39, alla quale parteciperanno anche la dottoressa Daniela Gandolfi, dirigente dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, l’architetto Renato Grinda bioarchitetto dell’Istituto Uomo e Ambiente e l’architetto paesaggista Matteo Ercole di Bordighera. 

La Catena d'unione. Contributi per una storia della massoneria


Dopo gli Annali della Storia d’Italia Einaudi, il nuovo libro sulla Massoneria del filosofo Gian Mario Cazzaniga.

Giorgio Amico

La Catena d'unione. Contributi per una storia della massoneria

Gian Mario Cazzaniga, dirigente del PSIUP, fondatore del Potere Operaio pisano, poi dirigente nazionale del PCI e fino al 1997 dei DS, professore di filosofia morale all'Università di Pisa, da anni si dedica ad una ricostruzione rigorosa della storia della massoneria in Italia. Fra i suoi lavori più importanti ricordiamo la direzione dei due Annali della Storia d'Italia Einaudi dedicati alla Massoneria e all'Esoterismo. Due opere fondamentali per chi voglia avvicinarsi alla conoscenza di un fenomeno complesso come quello della massoneria evitando di perdersi in un mare di pubblicazioni contraddistinte per lo più dalla ricerca del sensazionale e da intenti denigratori (la vecchia ma sempre verde tesi del complotto pluto-giudaico-massonico) oppure meramente apologetiche e dunque inutili.

Esce ora La catena d'unione, raccolta di trentuno saggi, con cui l'autore traccia le linee portanti di una possibile storia universale della massoneria e di altre società ad essa storicamente legate come la Carboneria, i Fratelli Cacciatori, i Cavalieri del Lavoro. Il volume, suddiviso in sei sezioni tematico-cronologiche, conduce dalle origini della massoneria, ai rapporti con l' illuminismo e le rivoluzioni moderne (compreso il Risorgimento italiano) per concludersi con una serie di scritti sul ruolo giocato dalla Libera Muratoria nella nascita e negli sviluppi del movimento operaio.

    Salvador Allende al centro della catena d'unione di una loggia cilena

Come si legge nella presentazione del volume “In questi saggi la massoneria viene collocata all’interno della fioritura dell’associazionismo volontario nel XVIII secolo, espressione dunque del fenomeno costitutivo della modernità: l’invenzione del legame sociale e l’affermarsi di una visione della comunità umana come autopoiesi. La catena d’unione, simbolo di fraternità universale e legame che unisce fra loro sia ritualmente i membri di una loggia sia idealmente tutti i massoni sparsi per il mondo, ne è immagine esemplare. Il programma di perfezionamento dell’uomo che aspira a riacquistare libertà ed eguaglianza naturali, maturato nelle logge settecentesche, finirà per incontrare, con esiti alterni, le rivoluzioni atlantiche, il sorgere di stati-nazione e il tentativo di unirli in associazioni sovranazionali di arbitrato e difesa della pace. “

Dopo gli studi di Francovich, Giarrizzo e Ciuffoletti sulla massoneria settecentesca italiana ed europea questo volume cerca dunque di delinearne una storia mondiale inserita nella vita culturale e sociale del mondo occidentale, collocandosi autorevolmente nel filone più interessante degli studi contemporanei a fianco di studiosi del calibro di Pierre-Yves Beaurepaire e Margaret Jacob.


Gian Mario Cazzaniga
La catena d'unione
ETS, 2016
45 euro

La Rafanhauda



E' disponibile il n. 8 della rivista La Rafanhauda


Dal sommario

Alessandro STRANO, Derant prepaus. A trenta ans de nòstre prumier numre
Renato SIBILLE, La 115a Brigata Garibaldi "Bruno Peirolo"
Georges DAMEVIN, Souvenirs des caravanes du sel
Alessandro STRANO, Alcuni luoghi comuni sulla grafia dell'IEO e sulla trascrizione dell'occitano in generale
Daniele PONSERO, Mas chocches, Paire grand (pouesies)
Alessandro STRANO, A la recercho d'un noum per un geinant inseite dins l'ouccitan de Chaumount
RED., "Le resultat l'ei positiu se le travalh l'ei collectiu". Esperienze collettive di valorizzazione di porzioni di territorio a Chaumont


Per informazioni o richieste di copie: larafanhauda@gmail.com


mercoledì 22 febbraio 2017

Occitania. L'utopia di un popolo senza senza Stato



Abbiamo già parlato di questo libro, davvero molto interessante. Riprendiamo ora la recensione apparsa sull'ultimo numero dell'edizione italiana di Le Monde diplomatique. Le edizioni Tabor sono una piccola e coraggiosa casa editrice della Val Susa impegnata sui temi della difesa del territorio e del recupero della storia millenaria delle libere comunità alpine.

H. Agît Dora

Occitania. L'utopia di un popolo senza senza Stato

In Europa, gli occitani sono il più grande dei cosiddetti “popoli senza Stato”. Patria della lingua d’oc, parlata in un territorio continuo che va dalle Alpi ai Pirenei e dall’Atlantico al Mediterraneo, l’Occitania non ha mai conosciuto un’unità politica, sempre divisa da frontiere altrui (oggi quelle di Francia, Italia e Spagna), e l’occitano ha subìto nei secoli «l’alienazione ingiusta e crudele voluta dalla scuola centralizzata, che offende sin nel profondo dell’anima le classi popolari, facendole vergognare delle loro origini popolari, contadine o montanare» (Tavo Burat). «Vietato sputare per terra e parlare patuà», era scritto nelle scuole della Repubblica francese, dove i bambini venivano puniti, e marchiati con il segnal, perché colpevoli di usare la loro lingua madre, spesso l’unica che conoscevano. Un genocidio culturale, realizzato attraverso la colpevolizzazione dell’intero ambito di vita – famigliare, di villaggio, di comunità – di cui la lingua è espressione, per inculcare nelle classi povere un senso di inferiorità, dipendenza, sudditanza nei confronti della cultura dominante, quella della classe dominante.

È così che, in Occitania come altrove, nelle pieghe della storia, le rivendicazioni linguistiche e identitarie si intrecciano con i conflitti di classe, diventando una trincea di resistenza, un’occasione di riscossa e uno strumento di liberazione (e non certo, come vorrebbe certo progressismo, un’istanza reazionaria).

Questa è la chiave di lettura con cui lo scrittore francese Gérard de Sède interpreta e racconta i suoi Settecento anni di rivolte occitane, definendole tali non perché portatrici di una prospettiva “occitanista” o nazionalista, ma perché inestricabilmente radicate in quel territorio e nella sua storia, una storia marchiata nelle carni da un «atto di predazione coloniale che non si cancella mai completamente» (come scrive nella Prefazione il collettivo «Mauvaise troupe»).

Non a caso i Settecento anni prendono il via dal XIII secolo, da quella che, passata alla storia come “crociata contro i catari”, fu in realtà una vera e propria guerra di conquista finalizzata allo sterminio dell’intera civiltà d’oc e dell’anomalia che rappresentava. Ma neppure un milione di morti bastò ad annientare un tessuto sociale che continuerà ad alimentare sotto le ceneri le braci della resistenza e della rivolta.

Le inarrestabili sollevazioni rurali dei tuchini e dei croquants ai quattro angoli del Paese; la guerriglia impregnata di profezia di ugonotti e camisards tra i monti delle Cevennes; la strana guerra combattuta nei boschi pirenaici dalle demoiselles; le Comuni proclamate a Marsiglia e Narbonne nel 1870; la ribellione dei vignaioli di Linguadoca nel 1907; la resistenza popolare dei maquisards del Limousin; la battaglia contro il campo militare del Larzac negli anni Settanta… Sono solo alcuni degli episodi di una vicenda deliberatamente cancellata dalla storia ufficiale, che Gérard de Sède ripercorre in queste pagine in un racconto appassionato, «non per crogiolarsi nel sogno di un impossibile ritorno al passato, quanto piuttosto per attingere da questo passato la forza per affermarsi aïci e ara, qui e ora».

«L’Occitania di domani – scrive infatti l’autore a conclusione del libro – non dovrà riprodurre al suo interno le strutture dello Stato-nazione, che non ha mai conosciuto nel corso della sua storia. (…) L’Occitania militante ha ben altre preoccupazioni che quella di scegliersi una capitale, di stabilire nuove frontiere e di disegnare le divise dei futuri doganieri, poliziotti e generali. Al tempo stesso una e variegata, l’Occitania dovrà in futuro governarsi senza un modello da seguire; dovrà mettere l’immaginazione al potere, inventando la propria democrazia politica, economica e sociale. (…) essa non partirà da zero. I suoi appigli storici, antichi e recenti, sono molteplici e solidi: la vecchia tradizione del foro e dei centri di potere multipli, la diffusa unità popolare che emerge in ogni periodo di crisi (…), l’emergere negli ultimi anni di movimenti sociali autonomi, una lunga abitudine alla cooperazione, un tenace spirito libertario…».

Le Monde diplomatique – Febbraio 2017


Gérard de Sède
Settecento anni di rivolte occitane
Tabor 2016
12 euro


Per informazioni o richiesta di volumi: https://tabor.noblogs.org/

Centre Européen Pour l’Improvisation. Rencontre



Giovedì 23 febbraio – Centro di Ricerca Musicale / Teatro San Leonardo,Via San Vitale 63 Bologna

ore 20.30
presentazione CEP–Centre Européen Pour l’Improvisation (Puget-Ville, Provenza)
incontro con Barre Phillips (presidente e fondatore CEPI)

ore 21.15
RENCONTRE
sempre prima assoluta
a cura di Salvatore Panu

CEPI
Centro Europeo Per l'Improvvisazione
http://european.improvisation.center



Il CEPI ha sede in Provenza, a Puget-Ville, nello stabile di fianco alla Cappella di Santa Filomena (XI° sec.) e ha come finalità l'incontro attorno alla creazione attraverso l'improvvisazione. L'improvvisazione è, oggi più che mai, indispensabile come spazio di incontro fra gli esseri umani, che siano artisti o che provengano da altre discipline come le scienze, la filosofia, etc.. indispensabile perché l'improvvisatore, che si realizza lavorando insieme agli altri, non ha degli “a priori”, non ha un “programma” prestabilito che cerca di piazzare ma partecipa al lavoro istintivamente, in uno stato di “lâcher-prise”. E' così che vengono scoperti nuovi mezzi e nuove forme di creazione, nuove combinazioni delle forze umane.
Barre Phillips, 2016

Attualmente presidente del CEPI, Barre Phillips è musicista improvvisatore riconosciuto a livello mondiale. La sua registrazione del 1969 "Unaccompanied Barre" è stato il primo disco di contrabbasso solo nella storia dell'improvvisazione musicale. Nominato Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere nel 1988, Barre Phillips lavora in ambito jazzistico e dell'improvvisazione musicale da più di 50 anni. Lo stesso dicasi per il cinema (in particolare con Robert Kramer, Jacques Rivette), il balletto (Carolyn Carlson), il teatro (Antoine Bourseiller). Ha registrato circa 200 dischi e CD di cui 40 a proprio nome. (per approfondimenti: www.barrephillips-emir.org). Nella sua lunga arriera ha suonato dagli anni Sessanta in poi con Eric Dolphy, Jimmy Giuffre, Archie Shepp, Peter Nero, Attila Zoller, Lee Konitz and Marion Brown, Dave Holland, John Surman, Stu Martin, stabile con la London Jazz Composers Orchestra diretta da Barry Guy, con Ornette Coleman, Peter Kowald, Joëlle Léandre, Derek Bailey, Theo Jörgensmann, Aurélien Besnard, Peter Brötzmann, Evan Parker, Joe Maneri, Paul Bley, etc, etc...



Cos'è l'ìmprovvisazione?

Improvvisare: comporre senza preparazione sul momento e “in campo”. Noi tutti, nel nostro quotidiano, improvvisiamo senza rendercene conto. Quando durante una conversazione fra due o più persone la parola insorge nel momento: essa è come improvvisata... Ognuno utilizzando le sue conoscenze, le sue esperienze, può nutrire questo “via vai”. Le regole non sono prestabilite. C'è solo la necessità di una logica che permette lo scambio. Da una cinquantina d'anni alcuni musicisti utilizzano questo metodo, questa “conversazione”, per creare insieme.

Perché un centro per l'improvvisazione?

Oggi in Europa ci sono dei luoghi e delle residenze dedicate all'improvvisazione nel campo della musica e della danza. Tuttavia nessuno di questi centri è completamente specializzato al fine di sviluppare un lavoro essenzialmente pluridisciplinare. In effetti attualmente in numerosi ambiti (matematica, filosofia, etc...) il concetto di improvvisazione è molto studiato per la rilevanza che può avere per esempio in relazione ai meccanismi dell'intuizione. Il CEPI sarebbe un luogo di incontro unico in Europa che permetterebbe scambi e lavori di ricerca fra musicisti, scienziati, matematici, filosofi, etc... senza escludere ovviamente i processi creativi delle singole discipline. Questa trasversalità aprirebbe nuove strade tramite concerti, conferenze, incontri, attività didattica di alto perfezionamento, documentazione e archivi.


Ugo Carrega, Io tento l'assoluto


Entr’acte e UnimediaModern Contemporary Art presentano nei rispettivi spazi, dal 25 febbraio al 24 marzo 2017, un omaggio a Ugo Carrega (Genova 1935 – Milano 2014), teorico e protagonista della poesia simbiotica e della scrittura visuale, il cui lavoro di artista e di organizzatore ha animato per oltre un cinquantennio la scena internazionale.

“Il rapporto tra la componente materiale del segno e la sua dimensione significativa – ha scritto Giorgio Zanchetti – è stato indagato da Ugo Carrega sin dai primissimi anni Sessanta, giungendo ad un'ipotesi, non soltanto di sintesi, ma di vera e propria simbiosi dei due elementi.

[...] Da un lato alla base di questa operazione troviamo un movente squisitamente letterario con gli immancabili riferimenti, esplicitati a più riprese, a progenitori comuni per buona parte delle nuove avanguardie: da Pound a Eliot a Joyce, divenuti "figure" paradigmatiche di tutta una tradizione di letteratura della letteratura. Dall'altro ci imbattiamo nella necessità di restituire un corpo fisico alla parola e al concetto poetico, attraverso l'inevitabile attrito tra la mente e la mano”.


La mostra, che riprende il titolo di una rassegna allestita da Caterina Gualco nel 1999, raccoglie una scelta di opere che documentano l’attività di Carrega tra il 1975 e il 2002, focalizzata specificamente sul suo tentativo di fondere nel linguaggio l’interiorità dell’atto con l’esteriorità del segno, saggiando una dimensione radicalmente umana di assoluto.

lunedì 13 febbraio 2017

I Savoia in Valle Gesso


domenica 12 febbraio 2017

Uomini e lupi


Non è difficile andando in montagna incontrare tracce del lupo. A noi è capitato, ed è stata un'esperienza strana, come assistere al riemergere alla luce di una parte del nostro inconscio. Perchè il rapporto millenario di amore/odio con il lupo fa parte della storia della nostra specie. Proprio per questo il problema della presenza del lupo di nuovo vicino a noi va affrontato con grande equilibrio.


Valeria Salvatori

Un predatore di gran successo

Il lupo fa parte del nostro patrimonio naturale: da sempre presente in tutta Europa, in Italia è stato vicino all’estinzione negli anni 70. La sua capacità adattativa, il suo opportunismo, insieme ad altri fattori come l’abbandono delle campagne, il ripopolamento – naturale o indotto dall’uomo – dei boschi da parte delle sue prede selvatiche, essenzialmente cinghiale e capriolo, e la protezione totale dal 1971, gli hanno permesso di riprendersi i territori da cui era stato sterminato, spingendosi anche oltre.

Il lupo non è solo nei nostri boschi, ma ovunque: nel nostro immaginario, nei libri delle favole, nei dipinti, nella mitologia. Perché fa parte del nostro patrimonio culturale e ha plasmato alcune delle nostre abitudini: in Abruzzo, ad esempio, mai si può pensare di avviare un’attività zootecnica senza prevedere misure per proteggere il bestiame dagli attacchi del lupo. Condiziona perciò anche il nostro lavoro.

Ultimamente, ha avuto grande spazio nel dibattito pubblico, perché si discute sull’accettabilità di un documento che dovrebbe fornire indicazioni ai gestori del nostro territorio: cosa fare quando il lupo è presente nei territori che dobbiamo governare? Non sempre la risposta è lineare e, anzi, si potrebbe dire che in rari casi ne esista una giusta. 



La verità è che il lupo fa il suo lavoro: il predatore. E lo sa fare molto bene, perché si adatta a predare animali diversi, con il minor dispendio energetico possibile, vive in gruppi con una struttura sociale definita, di tipo familiare e gerarchico, e questo gli consente di essere vincente. Quando negli anni ’70 cominciò la campagna per la sua protezione si paventava la scomparsa di un animale fiero ed elusivo, che abitava segretamente i nostri boschi. Oggi la sua elusività sembra essere diminuita, se ne vedono sempre più di frequente, anche perché la persecuzione da parte dei «lupari» è terminata da ormai mezzo secolo.

L’interazione con l’uomo risale alla preistoria, quando uomo e lupo erano entrambi cacciatori di prede di medie-grandi dimensioni. La qualità dell’interazione varia a seconda delle culture e dei momenti storici ed evolutivi: da simbolo spirituale che infonde forza, simbolo mitologico nelle società greca e romana ad animale nocivo da sterminare. Il passaggio dalla cultura della cacciagione a quella agricola e pastorale ha determinato un profondo cambiamento della posizione del lupo nella sfera della nostra percezione.

La pastorizia, nell’economia delle antiche società, era fondamentale per la sopravvivenza delle diverse comunità. Non si poteva permettere al lupo di minacciare un’attività così importante e per questo non si è esitato a dare avvio a campagne di sterminio tramite i lupari, esperti cacciatori, che venivano pagati per offrire un utile servizio alla società, eliminando la minaccia. Poi le cose sono cambiate: nell’ultimo secolo si è cominciato a considerare il lupo una specie interessante da studiare, e nel 1940 si è cominciato a parlare di una sua reintroduzione nel parco Nazionale di Yellowstone, in Nord America, poi avvenuta nel 1995 e ad oggi unico esempio al mondo di reintroduzione nella storia della conservazione del lupo.


Quando nel 1971 è stato dichiarato specie protetta, in Italia non si contavano più di 100 esemplari, concentrati perlopiù sulle montagne dell’Appennino centrale. Il Wwf in prima linea, insieme a tante altre associazioni ambientaliste, hanno promosso azioni che garantissero la sopravvivenza di questo predatore.

Nel 1992 l’Unione Europea lo ha inserito nella lista delle specie di interesse comunitario, dichiarandola specie prioritaria, e ha posto come obiettivo quello di raggiungere uno «stato di conservazione soddisfacente». Niente di più vago! Esistono dei criteri generali per stabilire se lo stato di conservazione sia soddisfacente, ma sono passibili di interpretazione, non sempre univoca. Nel 2008 si è tentato un approccio che potesse facilitare l’interpretazione dello stato di conservazione soddisfacente: il concetto di popolazione. Nel frattempo diverse iniziative continuavano a essere portate avanti con impiego di risorse ma senza un obiettivo preciso. Si contribuiva alla protezione – all’inizio – e alla conservazione – dopo – del lupo. Dalla protezione si è passati a parlare di conservazione, termine che implica una certa dose di dinamismo, considerando le interazioni che la specie ha con l’ambiente in cui vive.

Quando si chiama in causa la conservazione di una specie non c’è spazio per soffermarsi alle attenzioni verso il singolo individuo: si parla di patrimonio genetico, di garantire la sopravvivenza di un gruppo sufficientemente ampio di individui per preservare la stabilità genetica della specie e del suo ruolo nell’ambiente. Ma l’ambiente in cui vive il lupo include l’uomo e alcune attività economiche possono essere influenzate dalla sua presenza: non si può pensare di conservare il lupo senza considerare il suo ruolo e il suo impatto sulle economie locali.


Oggi, dopo circa 40 anni, stiamo assistendo a un successo che ha pochi precedenti. Possiamo affermarlo perché abbiamo indicazioni da diverse fonti che il lupo sia presente in quasi tutto l’Appennino e le Alpi occidentali, non perché siamo in grado di dire con certezza di quanto sia cresciuta la popolazione. In tutti questi anni sono state portate avanti iniziative per facilitare la protezione del lupo, ma sono state localizzate e di durata limitata e non c’è mai stata una strategia nazionale a lungo termine con obiettivi ragionati. Quando si ha un problema e si decide di intervenire, bisognerebbe prima di tutto stabilire cosa fare e quali risultati si vogliano raggiungere.

Quali sono le minacce per la specie oggi? Il lupo è adattabile e può vivere in tanti ambienti diversi, ma ha bisogno di aree particolari in cui stabilire la sua tana nei momenti di riproduzione. È poi talmente adattabile che può accoppiarsi con i cani producendo una prole fertile, che potrebbe non garantire il mantenimento del patrimonio genetico caratteristico della specie: dobbiamo controllare la presenza dei cani vaganti sul territorio.

Il lupo preda gli animali domestici, di solito più facilmente di quelli selvatici, se non sono ben custoditi: non possiamo permettere che questo intacchi la sopravvivenza delle attività lavorative di alcuni di noi. Il lupo può suscitare voglia di rivalsa e sentimenti di rabbia che portano a gesti deplorevoli come il bracconaggio: tali gesti devono essere condannati, ma le persone non devono essere spinte all’esasperazione. Dobbiamo tutti fare uno sforzo perché non possiamo permetterci di perdere il lupo.

Esistono esempi virtuosi di iniziative che vanno in questa direzione. Il contributo dei progetti Life, cofinanziati dall’Unione Europea è importante. Oggi il progetto Life medwolf (life11nat/it/069) lavora a Grosseto per fornire assistenza agli allevatori impreparati a dotarsi degli strumenti più adeguati, ma quanto lavoro in più richiede?


Tutti vogliamo il lupo, dovremmo però essere sensibili di fronte alle difficoltà degli allevatori che ci convivono. Life Mirco-lupo (Life13nat/it/728) cerca faticosamente di impedire che l’ibridazione con i cani domestici nei parchi nazionali dell’Appennino tosco emiliano e del Gran Sasso e Monti della Laga.

Ma quanto costa alla società la cattura e la sterilizzazione degli ibridi? Non sarebbe più semplice tenere sotto controllo i nostri cani domestici, evitando occasioni di incrocio? Il progetto Life ibriwolf (life10nat/it/265) ha trasferito gli esemplari ibridi catturati in centri di recupero per evitare che causassero danni al patrimonio zootecnico. Non sarebbe più facile scongiurare l’incontro cane-lupo, magari mettendo dei collari con Gps ai nostri cani (spesso i cacciatori lo fanno)?

Il progetto Life wolfalps (life12nat/it/807) promuove il monitoraggio, la protezione del bestiame e la valorizzazione turistica del paesaggio, anche in quelle aree di recente apparizione del lupo, mentre il Life pluto (life13nat/it/311) prevede la formazione di nuclei cinofili antiveleno. Ma in situazioni non più gestibili, forse un’azione di intervento gestionale estremo, come il prelievo, può essere una soluzione valida. Non senza prima aver tentato, con tutte le risorse possibili, di evitarlo.


Il Manifesto – 5 febbraio 2017

lunedì 6 febbraio 2017

sabato 4 febbraio 2017

Occitania. Settecento anni di rivolte e resistenza



L'Occitania è la più grande delle Nazioni senza Stato europee. Un libro ne racconta la storia.

Alessandro Barile

Settecento anni di rivolte e resistenza

A dispetto del luogo comune che vorrebbe la Francia uno dei paesi più “unitari” e omogenei d’Europa, questo è al contrario uno dei territori maggiormente attraversati da spinte secessioniste e federaliste: occitani, corsi, bretoni, baschi, alsaziani e fiamminghi da secoli lottano per il riconoscimento delle proprie specificità nazionali, culturali e politiche. L’esasperato centralismo statuale non è allora la caratteristica peculiare di un territorio particolarmente coeso, ma la risposta necessaria che la Francia è stata costretta a darsi onde evitare l’inevitabile frantumazione.

Come si è imposto questo centralismo, è proprio l’oggetto della ricerca di Gérard de Sède, pubblicata in Francia addirittura nel 1970 ma che solo oggi vede la sua edizione italiana per opera meritoria delle edizioni Tabor (tabor.noblogs.org). L’autore si concentra sullo specifico caso occitano, che costituisce un unicum nella storia europea.



L’Occitania è infatti il più grande dei territori europei, con una popolazione stimata di 15 milioni di abitanti e una superficie di 196 mila kmq, a non aver mai raggiunto alcuna forma di riconoscimento ufficiale e istituzionale, a non essere mai divenuta Stato. Per dirla con le parole del romanziere Robèrt Martì, “il solo territorio sovrano che il popolo occitano poté mai abitare furono la sua lingua e la sua letteratura”. Una lingua e una letteratura davvero notevoli, che coincisero con l’apice della letteratura medievale trobadorica, e che successivamente si trasformarono in strumento di resistenza all’assimilazione francese dopo il XIV secolo. L’annessione di tutto il Mezzogiorno al nord francese non avvenne però pacificamente.

Anche nel caso occitano, i perdenti rimangono senza voce, vittime di una guerra civile mai riconosciuta. Eppure, la pacificazione occitana rimane uno dei capitoli più cruenti della storia francese e della chiesa cattolica. L’istituzione stessa del Tribunale dell’Inquisizione, nel 1184 e perfezionata da Innocenzo III nei primi anni del XIII secolo, rispose alla necessità di stroncare la religione catara in Occitania, un culto popolare che, sfruttando la dimensione religiosa, garantì la continuità di alcuni caratteri tradizionali occitani addirittura pre-romani. La crociata del 1209-1229, la prima contro altri cristiani, solo superficialmente rispose alle esigenze di pacificazione confessionale: molto più concretamente, la religione servì come copertura ideologica di un processo di annessione territoriale di una popolazione aliena alle caratteristiche dei gallo-franchi del nord.

L’esagono francese, almeno fino alla fine del XV secolo, era tutt’altro che compatto territorialmente e culturalmente. La stessa lingua, oggi celebrata come elemento di unità culturale dal mare del Nord al Mediterraneo, fino al XVIII secolo avrà vita dura nell’affermarsi in tutto il regno. Solo l’organizzazione delle prefetture garantirà la soppressione di ogni particolarismo locale.



Un fenomeno in sé non necessariamente regressivo, ma che calato nella specifica realtà occitana assume la forma della colonizzazione interna. Il saggio di de Sède ripercorre settecento anni di resistenza, di rivolte, di vere e proprie guerre civili combattute da eroi sconosciuti: dalla resistenza religiosa di Bernard Délicieux alle rivolte contadine dei crocquants, dai guerriglieri camisards alle comuni occitane del XIX secolo, per finire nel Novecento dove il movimento occitano assume chiaramente i caratteri progressivi e socialisti nella lotta contro l’accentramento francese e contro l’invasore nazista.

La conclusione dell’autore è amara ma sintetizza un fenomeno tipico di certi regionalismi addomesticati dal potere centrale: una volta sconfitta politicamente e sottomessa culturalmente, l’Occitania viene riscoperta in chiave turistica e sotto-culturale proprio da quello Stato centrale nei secoli impegnato alla sua scomparsa reale. Dagli anni Settanta l’Occitania vive la sua “riscoperta”, così come il catarismo, oggi rivalutato (e addirittura rivendicato dai “francesi”) in chiave folcloristica e pacificata. Nel momento in cui non fa più “paura”, l’Occitania diviene elemento culturale da sfoggiare, simbolo della trasformazione democratica dello Stato. Motivo in più per visitare quei luoghi fuori da circuiti turistici prestabiliti, magari partendo proprio dalle Valli occitane piemontesi.


Il Manifesto – 28 gennaio 2017



Per chi vuole approfondire. E' consultabile on line Lo Lugarn, la rivista del Partito della Nazione Occitana.

http://lo.lugarn-pno.over-blog.org/




La pratica del segno di Vincenzo Accame



LA PRATICA DEL SEGNO

mostra personale di Vincenzo Accame

a cura di Adriano Accattino
Genova, SATURA art gallery
dal 2 al 18 febbraio 2017
orario: da martedì a sabato ore 15:00 – 19:00


S’inaugura sabato 4 febbraio 2017 alle ore 17:00 nelle sale di Palazzo Stella a Genova, la mostra personale “La pratica del segno” di Vincenzo Accame a cura di Adriano Accattino. 

“La scrittura costituisce il ‘luogo della convergenza’ dei diversi tipi di espressione e comunicazione estetica. E aggiungiamo che la scrittura ci sembra anche in grado di mediare la necessaria interazione tra i vari segni che intervengono nella creazione dell’opera”.

Così Vincenzo Accame chiarisce le ragioni del suo impegno nell’ambito della poesia visuale e del gruppo della “Nuova scrittura”, di cui nel 1975 firma il manifesto con Carrega, D’Ottavi, Vincenzo Ferrari, Liliana Landi, Mignani, Anna e Martino Oberto.

Dopo aver esordito nel 1961 sulle pagine del Verri, la rivista principe di quella che diverrà la neoavanguardia italiana, diretta da Luciano Anceschi, con pagine in cui, sulla scia della lezione di Mallarmé si sforzava di “rompere la linearità della poesia verbale, agendo soprattutto sugli spazi”, entra in relazione con gli Oberto, fondatori della rivista Ana eccetera e con Ugo Carrega che con Tool, quaderni di scrittura simbiotica attorno alla metà degli anni ’60, proponeva una visione estesa della poesia, capace di integrare oltre agli aspetti verbali (fonetico e proposizionale), l’elemento grafico (lettering, segni e forme).

Il suo lavoro - condotto in parallelo con l’attività di studioso e traduttore delle avanguardie storiche e recenti, dal Surrealismo al Lettrismo – costituisce una sintesi originale e inesauribilmente inventiva di questa poesia totale.

“Ho sempre molto ammirato l’opera di Vincenzo Accame” – ha osservato Enrico Baj, compagno di scorribande nei territori patafisici di Alfred Jarry –“In quel suo scrivere, quasi per blocchi o campiture distinte, compatte o poi esplose e sparpagliate, complicate, arzigogolate e mantrugiate, in un fluire fittissimo e rapido, oppure al contrario statico, di stimoli grafici, il significante linguistico si maschera di un senso di misura e di leggiadria, le quali traggono in inganno lo spettatore”.

La mostra allestita negli spazi di SATURA, con opere provenienti dalla collezione del Museo della Carale Accattino di Ivrea, offre un significativo panorama del lavoro realizzato da Accame fra gli anni ’70 e ’90. Vi si incontrano scritture illeggibili, sottolineature, esplosioni grafiche, “sgeometrie” dove le parole, trascritte in caratteri minuti, si convertono in tracce lineari, in mormorii prossimi al silenzio, ma nutriti di una singolare forza vettoriale.

Una scrittura poetica sommessa ma resistente, al cui riguardo l’Autore può concedersi il lapidario commento, che riporta nel titolo di una delle opere in rassegna, del verso conclusivo dell’Ars poetica di Verlaine: “E tutto il resto è letteratura”. 

(Testo critico a cura di Sandro Ricaldone)


Vincenzo Accame (Loano 1932 – Milano 1999) si è occupato di ricerche poetico-visuali, sia come operatore sia come cronista. Ha pubblicato pagine di poesia e testi critici su numerose riviste (Il Verri, Malebolge, Marcatrè, Tre rosso, Uomini e idee, Tool, Le Arti, Approches, Phantomas, Tam tam ecc.) ed è stato presente a tutte le più importanti rassegne di poesie visuali; numerose le mostre personali e di gruppo (Gruppo Tool, Nuova Scrittura).

Si è dedicato assiduamente anche alla poesia francese, curando edizioni di Eluard (Ultime poesie d’amore, Lerici, Milano 1965e Accademia Sansoni, Milano 1970), Jarry (Poesie, Guanda, Parma 1968; I minuti di sabbia memoriale, Munt Press, Milano 1975; Visite d’amore, Guanda, Milano 1977) e Arp (Poesie, Guanda, Milano 1976). Ad Alfred Jarry ha pure dedicato una monografia (Jarry, La Nuova Italia, Firenze 1974).

Tra i volumetti di ricerca poetica citiamo: Ricercari (Tool, Milano 1972) Prove di linearità (EA, Milano 1970), Differenze (Tool, Milano 1972), La pratica del segno (Visual Art Center, Napoli 1975) e Récit (La Nuovo Foglio, Pollenza 1976).

(dal risvolto di copertina del fondamentale volume Il segno poetico. Riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Munt Press, Samedan – Milano, 1977).

Vincenzo Accame ha raccolto una sorta di “summa” del suo pensiero in un volume dal titolo Anestetica (Spirali, Milano 1998) che ne evidenzia soprattutto la componente anarchica.  

giovedì 2 febbraio 2017

Diavoli, santi e uomini. L'immagine dell'Aldilà nella Liguria di Ponente

    Montegrazie

Breve viaggio fra i grandi cicli di affreschi tardogotici della Liguria di Ponente

Giorgio Amico

Diavoli, santi e uomini. L'immagine dell'Aldilà nella Liguria di Ponente



Nella Liguria di Ponente dalla Valle Roja ad Albenga si possono trovare ben nove grandi cicli di affreschi tardogotici che presentano scenari infernali. Solo di alcuni si posseggono dati certi relativi alla data in cui l'opera fu eseguita (Montegrazie 1483), San Bernardo di Pigna (1482), San Bernardino di Albenga (1483) e Notre-Dame des Fontaines a Briga (1492) e sugli autori, I Biazaci per Montegrazie e San Bernardino di Albenga e il Canavesio per Notre-Dame des Fontaines e San Bernardo di Pigna. Per San Bernardino di Triora, San Bernardo di Lavina, Santa Maria Annunziata di Solva e San Giorgio in Campochiesa di Albenga siamo invece ancora allo stato delle ipotesi.

    Pigna. Cappella di San Bernardo

I temi della rappresentazione sono ovunque simili, sia nell'organizzazione spaziale delle scene che nei contenuti.L'intera narrazione ha lo scopo di far meditare il fedele su cosa l'attenda dopo la morte e cosa deve fare per meritare la pace eterna. Particolare enfasi è posta sul tema del Purgatorio che, come esaustivamente spiega Le Goff, non appartiene al cristianesimo delle origini, ma viene introdotto a partire dal XII secolo.

    Montegrazie. Santuario

Insomma un incitamento alla penitenza, alla confessione e a chiedere alla Chiesa di intercedere, in cambio sia chiaro di offerte adeguate, per le anime presenti in Purgatorio, alleviandone così le sofferenze e abbreviandone la pena.

    Rezzo. Santuario

Un mondo bipolare quello dell'aldilà, caratterizzato dall'estrema armonia e musicalità del Paradiso, dove tutto è ordine e grazia, e il caos terribile dell'Inferno dove tutto è “pianto, urla e stridor di denti” e diavoli e dannati si accalcano senza un ordine apparente.

  Triora. San Bernardino

Il tutto rappresentato in un linguaggio graficamente semplice, ma molto complesso e avvincente per quantità elementi espressivi e richiami alle fonti. A partire dalla figura del Cristo inscritto nella mandorla cosmica a separare la sfera del sacro da tutto ciò che è materialità. 

    Albenga. San Bernardino

Elemento archetipale che riprende un tema tipico della spiritualità orientale.


Il Paradiso ha l'aspetto della Gerusalemme celeste, una città circondata da mura possenti e vigilata da angeli in armi, assediata dall'universale dilagare del peccato e dal male dovunque in agguato.

    Albenga. San Bernardino

All'interno tutto è luce, ordine, proporzione. Nulla è casuale così ogni personaggio è contraddistinto da un particolare che lo rende riconoscibile agli occhi dei fedeli. Santa Lucia porta gli occhi in un piatto, Giuda Taddeo regge l'ascia con cui fu martirizzato, San Giacomo impugna saldamente il bastone da pellegrino. Un codice elementare per il mondo medievale, dimenticato da noi che infatti facciamo fatica ad orientarci nella rappresentazione.

E poi, come dicevamo l'esaltazione del Purgatorio rappresentato come una palude di fuoco in cui le anime attendono con fede il momento della liberazione. E' il luogo della speranza. Le rappresentazioni insistono sul ruolo dei fedeli che possono con adeguate offerte migliorare la condizione dei loro cari defunti.

“Uxor, tua missa celebrare fecit” si legge in un cartiglio a Montegrazie. “Moglie, ho fatto celebrare una messa per te”.

     Albenga. San Bernardino

Nei bellissimi affreschi di San Bernardino di Albenga si vedono le anime soccorse da angeli beneficenti che, grazie alla intercessione dei viventi, arrecano balsami e unguenti a lenire i dolori delle anime immerse nel lago infuocato, in attesa di ascendere lo scalone maestoso che conduce in Paradiso sulla cui porta li attende un San Pietro sorridente.

    Albenga. San Bernardino

Giudicati da San Michele, che riprende l'antichissimo tema egizio della pesa delle anime da parte di Toth, i dannati vengono scaraventati nelle profondità dell'Inferno, dove, divisi in comparti, ognuno riferito ad uno dei sette peccati capitali, essi pagano eternamente per le loro colpe, sotto lo sguardo, che a noi pare divertito, del demone Capitaneus che sovrintende alla gestione di ogni girone.

     Montegrazie

Immediatamente al di sotto, vicino agli occhi dei fedeli, la cavalcata dei vizi spiega quali siano i comportamenti che conducono alla Bocca della Bestia. 

   Albenga. San Bernardino

Mentre le fondamenta della città celeste stanno nelle buone opere di carità e nello scegliere, in ogni momento della vita, la cosa giusta, evitando le insidie del diavolo sempre in agguato, pronto nell'attimo della morte a carpire l'anima di chi ha smarrito la retta via.


    Montegrazie