mercoledì 28 marzo 2018

Il gran bosco del Finale. Uso del territorio e contrasti fra le comunità




Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.(San Bernardo da Chiaravalle) Inizia così l'ultimo libro di Giuseppe Testa che aggiunge un altro tassellino allo straordinario puzzle che da anni l'autore sta costruendo sulla storia del Finalese. Da leggere per chi ama la storia del nostro territorio. Ne riprendiamo la Premessa.


Giuseppe Testa

Il Gualdo del Bormida”. Il bosco del Marchesato



Scrivere un libro può essere facile, specialmente se si è supportati dalla passione. “Centrarne” il titolo, in talune occasioni, è estremamente difficile.

Il titolo, necessariamente formato da poche parole, deve individuare il contenuto del libro e così permettere al lettore, incuriosendolo, di capire l’argomento di cui si tratta. A volte, in particolare per i saggi monotematici, il titolo è subito chiaro e, direi, obbligato. Quando invece le tematiche sono numerose, come in questo caso, tutto diventa difficile: o si scrive una paginata di titolo (il ché non rientra nella prassi, né è consigliabile) o si rischia di lasciare fuori dall’immediata comprensione molte sfaccettature, più o meno importanti, del contenuto del testo.

Le vicende dei “Boschi di Bormida”, di seguito riportate coinvolgono numerose comunità: già è riduttivo il solo riferimento a Bormida, in quanto dovrebbero essere chiamati anche “di Osiglia”, “di Rialto”, “di Mallare”, “di Carbuta” e “di Calice”. Lo studio in questione, inoltre, sviluppa le vicende del bosco in varie epoche: dalla preistoria, attraverso i Liguri e l’Età Romana fino ad Oggi. Sono esaminate vicende sociali, quali il tipo di uso del bosco ed il modo in cui lo stesso veniva gestito nei secoli, compreso ciò che era o meno permesso; poi tutti i passaggi legali tra i vari possessori e l’evolversi dei confini e dei conflitti fino ai giorni nostri.

La lotta per il possesso dei boschi era in fondo un'antesignana guerra per le risorse , nella quale le comunità del versante marino, più ricche e potenti e di fatto già deforestate nei loro territori, facevano la parte delle superpotenze di allora. Emerge anche la consapevolezza, che avevano gli uomini del Medioevo, della assoluta importanza del bosco, tutelato con grande attenzione (superiore addirittura a quella di oggi), attraverso lo sfruttamento accurato e non distruttivo delle sue risorse nonché il ripristino dei tagli. Queste sono cose che dovremmo imparare da quegli anni definiti “bui”. Il bosco era considerato un bene supremo, tanto che non stupisce affatto come nella vendita del 1261 il marchese Giacomo abbia imposto l’obbligo agli acquirenti di non disboscare per far posto ai campi seminati, ed abbia sottolineato il divieto di usare il fuoco, vero pericolo per il bosco.

Per spiegare il contenuto di questo libro ci vorrebbero quindi più titoli:

- Il Gualdo di Bormida, come era spesso definito nei documenti Medievali;
- La Terra di Mezzo, in quanto si tratta di un territorio compreso tra entità più nette e definite, (Mare e Pianura Padana, Liguria e Piemonte) oltre che tra diverse comunità;
- I Boschi del Finale, oppure del Marchesato;
- Il possesso dei boschi di Bormida, un'antica disputa per l’energia;
- Un millennio di controversie per i boschi di Bormida;
- Uso e gestione dei boschi di Bormida.

Faticosa la scelta definitiva: in taluni momenti propendevo per un'opzione, in altri un diverso titolo mi sembrava più appropriato. Questo altalenare è durato per tutta la stesura ma alla fine, dovendo andare in stampa, una scelta andava fatta. Questa credo sia la più calzante, seppur, lo riconosco, non esaustiva: per cui, così come avviene per alcune persone, che vantano più nomi, anche questa “storia dei boschi” mi piace pensarla con più titoli.


martedì 27 marzo 2018

All'ombra delle palme tagliate. Poesie di Marino Magliani



Libreria AmicoLibro – Bordighera‎

All'ombra delle palme tagliate.
Poesie di Marino Magliani

Giovedì 29 marzo, alle ore 16,00,
presso la Biblioteca Aprosiana
via Cavour 61 Ventimiglia
presentazione della raccolta di poesie di Marino Magliani
"All'ombra delle palme tagliate", Amos Edizioni.


Introduce Corrado Ramella.
Sarà presente l'autore.

Cinema e Resistenza. Il riflusso degli anni '80 e il declino del cinema italiano



Con gli anni '80 inizia il riflusso. Negli anni '90 il crollo del muro di Berlino e dell''esperienza sovietica del socialismo reale segna la fine della guerra fredda, ma non dell'anticomunismo che in Italia con Berlusconi gode di uno straordinario revival. In un momento politico in cui i nostalgici di Salò entrano al governo, la Resistenza non può che tornare nell'ombra. Fa eccezione nel 2000 Il partigiano Johnny, un grande film di paesaggio.

Il riflusso degli anni '80 e il declino del cinema italiano

Nonostante la grande fiammata del '77, la seconda metà degli anni Settanta è nel segno del riflusso, della ritirata nel privato, in una dimensione individuale e non più collettiva di cui anche la scelta delle armi, con il suo avanguardismo esasperato e senza prospettive, è una manifestazione. Sono gli anni del ripensamento, del tentativo di inserire in modo organico anche gli anni della rivota nel flusso più generale della storia d'Italia. Anche la rappresentazione della Resistenza rientra in questo tentativo di rileggere la storia sul lungo periodo. Ancora una volta è Bertolucci con “Novecento” (1976) a cercare attraverso le vite parallele di un contadino e di un padrone terriero un filo rosso nella storia d'Italia dall'inizio del secolo all'avvento della Repubblica. Un lungo periodo in cui la Resistenza trovi finalmente la sua collocazione.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta inizia la china discendente del cinema italiano. La televisione, soprattutto dopo il boom delle reti private, fa una concorrenza spietata al cinema. Il videoregistratore e le cassette portano i film in casa. Come negli anni '50 i produttori tornano a privilegiare sempre di più film a basso costo e di qualità scadente. E' il trionfo del western all'italiana, dell'horror sanguinolento, di polizieschi fascistoidi come “La polizia incrimina, la legge assolve”, “Il cittadino si ribella”, “Milano odia, la polizia non può sparare”. La commedia all'italiana diventa farsa erotica o cinepattone. Si aprono le prime sale a luci rosse e la pornografia viene sdoganata. Sulle televisioni private imperversano con ascolti stellari trasmissioni come “Colpo grosso” totalmente incentrate sull'esibizione sempre più esplicita e volgare del corpo femminile. La televisione diventa centrale nella costruzione dell'immaginario collettivo. Lo stesso linguaggio cinematografico cambia, adattandosi sempre più ai tempi frenetici della narrazione televisiva.



Gli anni Ottanta segnano anche l'avvio di un “revisionismo strisciante”che legge la Resistenza come una parentesi buia, un succedersi di orrori e di errori soprattutto a causa della presenza di un partito comunista che si descrive interamente volto ad un piano eversivo. Inizia la riabilitazione dei “giovani di Salò”. Con il pretesto dell'omaggio ipocrita e retorico ai caduti, fascisti e antifascisti sono assimilati. Sono i temi che renderanno Pansa un autore di successo. Non è un fatto spontaneo e neppure innocente. L'eclisse della prima Repubblica, segnata dalla stagione giudiziaria di “Mani pulite” e dall'avvento dell'Italia berlusconiana porta questo processo alle sue estreme conseguenze. Il crollo del muro di Berlino e dell''esperienza sovietica del socialismo reale segna la fine della guerra fredda, ma non dell'anticomunismo che in Italia con Berlusconi gode di uno straordinario revival. In un momento politico in cui i nostalgici di Salò entrano al governo, la Resistenza non può che tornare nell'ombra.

Nel cinema resistenziale degli anni '80 e '90 c'è tutto questo, a partire dagli echi della lotta armata. Nel 1980 esce “Uomini e no” di Valerio Orsini, trasposizione cinematografico del romanzo di Vittorini, incentrato sulla guerra dei GAP e con un finale che ricorda Dante di Nanni (ma anche Walter Alasia). Nel 1992 è la volta di “Gangsters” di Massimo Guglielmi. Ambientato nella Genova dei primi mesi dopo la Liberazione, il film racconta la tragica parabola di un gruppo di partigiani comunisti (ex gappisti) che non hanno lasciato le armi e si trasformano appunto in gangsters. Una riflessione sul sottile discrimine che separa ideali politici e violenza fine a se stessa, attualissima negli “anni di piombo”, ma non priva di ambiguità. Come la sequenza finale che allude apertamente all'uccisione da parte dei carabinieri di quattro brigatisti genovesi in via Fracchia, un fatto la cui dinamica non fu mai chiarita a fondo.


La riflessione può prendere però anche i toni della poesia e della pietas. E' il caso dei fratelli Taviani con “La notte di San Lorenzo” (1982) dove la dimensione della guerra civile è descritta in tutta la sua ferocia, ma in una forma quasi onirica sostanziata da una profonda compartecipazione al dolore e alla sofferenza di uomini e donne travolti da avvenimenti più grandi di loro.

Gli anni '90 due film rompono il silenzio ormai calato sulla Resistenza con due storie entrambe ambientate nel Nord-Est. Nel 1997 Daniele Luchetti riprende il romanzo (bellissimo, ma poco conosciuto) di Luigi Meneghello “I piccoli maestri” per raccontare una storia di formazione antieroica e antiretorica ambientato in un Veneto in cui la lotta partigiani ha soprattutto i colori del Partito d'Azione e della Democrazia Cristiana. Nello stesso anno Renzo Martinelli con “Porzus” ricostruisce lo scontro fratricida fra garibaldini e partigiani non comunisti nel contesto più complessivo del tentativo jugoslavo di spostare il più possibile a ovest i confini. Racconto di un eccidio, occultato per decenni (come la tragedia delle foibe), Porzus è un tentativo civile di ristabilire la verità storica e allo stesso tempo di esplicitare le contraddizioni di un'unità antifascista spesso solo di facciata.


Negli anni 2000, quelli del berlusconimo rampante e dello sdoganamento definitivo di Salò la Resistenza sparisce dagli schermi. Fa eccezione, proprio all'inizio del nuovo millennio, la trasposizione cinematografico del capolavoro incompiuto di Beppe Fenoglio. Totalmente privo di intenti ideologici, ma lucidissimo nella ricostruzione di luoghi e personaggi “Il partigiano Johnny” di Guido Chiesa tenta con esiti felicissimi l'operazione che pareva impossibile di tradurre sullo schermo un testo così articolato e complesso. Un film di paesaggi, di silenzi, un film che ha come protagonista la Langa. “Un film molto fisico – ha scritto un critico - sul precario lavoro del partigiano, sul faticoso e doloroso mestiere di sopravvivere sui monti con il suo carico di pioggia, neve, fango, agguati, fughe, sangue, paura, dubbi, spie, rappresaglie, solitudine. È forse il primo film che racconta con coinvolgente efficacia che cosa fosse un rastrellamento e che della guerra per bande espone la casualità”.

Poi più nulla, se si eccettua “Una questione privata” dei fratelli Taviani (2017), film inconcludente e sostanzialmente malriuscito dove la Resistenza serve solo da sfondo. Uno sfondo sfuocato ben rappresentato dall'incomprensibile ambientazione in una Val Maira smorta e anonima invece che nelle langhe carne e sangue della narrativa fenogliana, ma che bene si presta a simboleggiare la fine di una storia, quella della Repubblica nata dalla Resistenza di cui il cinema, parlando della guerra di Liberazione, ha in realtà raccontato il travaglio.

(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana 6)

lunedì 26 marzo 2018

Cinema e Resistenza. 1968-1977 Gli anni dei pugni in tasca


    Asger Jorn, Manifesto del Maggio

1968: la contestazione (come viene chiamata allora la rivolta giovanile che scuote le metropoli) rimette in causa anche il mito della Resistenza.


Giorgio Amico

La grande contestazione del '68 e dei primi anni '70.

Preparata dai fermenti degli anni '60 nel 1968 inizia la stagione della protesta, esplodono le contraddizioni e le tensioni che si sono via via accumulate negli anni del boom e poi del riformismo mancato del centrosinistra. Il 1968-69 sono gli anni della grande contestazione, prima studentesca e poi operaia, della rimessa in discussione di tutti i valori (reali e presunti) su cui si è retto un ventennio. Tutto è rimesso in discussione. La rivolta è politica e sindacale, ma soprattutto generazionale. E' il mondo dei padri che viene radicalmente rifiutato con una forza mai vista prima.

Prima che una rivoluzione, il '68 è un rito collettivo con cui simbolicamente ci si vuole lavare dalle colpe dei padri. Una rivolta, non priva di riflessi edipici, che trova la sua prima rappresentazione in “I pugni in tasca” (1965), film di esordio di un giovanissimo Bertolucci. Film che fa scandalo per l'aggressività dei toni e la ferocia con cui si disseziona il quadro fino ad allora rassicurante della famiglia cattolica, borghese, benpensante. 


Anche la Resistenza è radicalmente ripensata. Torna il mito della Resistenza tradita, della rivoluzione mancata nel 1945 per la viltà opportunistica di un partito comunista che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo, costi quello che costi. E fino in fondo vogliono andare i giovani, insofferenti ad ogni mediazione, ad ogni riforma parziale. “Siate realisti, chiedete l'impossibile” recita uno slogan del Maggio francese. “Corri, compagno, il vecchio mondo è dietro di te” incita un altro. Il mondo si è messo davvero a correre e non solo in Italia. In Vietnam la superpotenza USA non riesce a piegare la resistenza di un piccolo popolo di contadini, l'America Latina è nel segno del Che un solo focolaio guerrigliero, a Praga e a Varsavia i giovani si rivoltano contro il dispotismo sovietico, il Potere nero scuote le metropoli americane. Tutto sembra possibile, non è più il tempo delle mediazioni. E' l'ora del fucile proclama una canzone del 1971.


Gli anni di piombo sono dietro l'anno, ma i giovani ancora non lo sanno. Inizieranno a comprenderlo nel dicembre '69 con i morti di Piazza Fontana. E' il momento della perdita dell'innocenza, l'inizio delle deriva che porterà in breve alla lotta armata. Anche al cinema l'antifascismo diventa militante e più che narrare la Resistenza parla del presente. Non a caso il decennio si apre con “Corbari” di Valentino Orsini, dove i partigiani sembrano guardie rosse della Rivoluzione culturale cinese (manca solo il libretto rosso di Mao) e i padroni delle fabbriche (naturalmente fascisti) vengono sequestrati, sottoposti a un processo popolare e appesi per i piedi. Ma non è solo trionfo della retorica “rivoluzionaria”, è anche il momento del ripensamento critico. 


Gli anni Settanta portano con sé, lo abbiamo visto, la morte dei padri, la fine delle certezze, la crisi delle narrazioni ufficiali dell’antifascismo. L'Italia presente, gattopardesca, conformista e ipocrita, proietta una luce ambigua anche sulla Resistenza. “La strategia del ragno” (1970) di Bernardo Bertolucci è l'espressione più intensa di questo stato d'animo. Ispirato al tema del traditore e dell’eroe di Jorge Luis Borges, il film è interamente girato nel segno dell’ambiguità, della linea sottile che separa realtà e finzione. Bertolucci racconta la storia di Athos Magnani, figlio di un eroe antifascista il quale, tornato trent’anni dopo nella bassa padana, scopre che la verità è un'altra, che il mito paterno non ha fondamento eppure ha un senso e uno scopo. E decide di tacere.


Gli anni '70 sono anche gli anni della rivolta femminista, della riscoperta di uno specifico femminile sempre negato. A suo modo anche il cinema della Resistenza ne tiene conto. “L'agnese va a morire” di Giuliano Montaldo (1976) rompe finalmente il silenzio del cinema sul ruolo avuto dalle donne nella Resistenza. Tratto dal libro di Renata Viganò edito nel 1949, il film (che è anche un commosso omaggio al Rossellini di Paisà) si mantiene fedele al romanzo nel disegnare la figura di una contadina analfabeta che sceglie di stare con i partigiani non per scelta ideologica o politica, ma perché contro le “cose ingiuste” e che nella lotta trova finalmente per portare allo scoperto una identità sua propria, femminile, che gli uomini, a partire dal marito comunista, non le hanno mai davvero riconosciuta.


(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana 5)  

domenica 25 marzo 2018

PolaRay. Alex Raso espone a Celle




Alex Raso in mostra a Celle. Da non perdere.


TraumfabrikLab Caterinette/ Biennale di Ceramica
Via Aicardi 59R Celle Ligure


PolaRay


Ridare vita a quegli istanti perduti che incalzano il tempo ma anche infonderla a quelli solo immaginati.
Poi proteggerli o guardarli con voyeurismo discreto da un piccolo foro.
Le PolaRay sono vecchie carte e lamine di terracotta della misura di una polaroid rese fotosensibili e successivamente impressionate con lastre fotografiche in vetro trovate ai mercatini e con illustrazioni originali, per mezzo di antiche tecniche fotografiche. 

Una custodia studiata insieme al designer Johnny Hermann se ne prende “cura”. 
“Cura” anticamente da còera, quia cor urat, perché scalda il cuore, lo stimola e lo consuma.
Perché PolaRay? 
Pola come Polaroid, le famose istantanee; Ray come l’artista e fotografo dadaista Man Ray, famoso per le sue rayografie: stampe a contatto su materiale reso fotosensibile.


Cinema e Resistenza. Il periodo d'oro degli anni '60



Gli anni '60 rappresentano il periodo di massimo splendore del cinema italiano. Roma diventa una delle grandi capitali del cinema, capace di rivaleggiare ad armi pari con Hollywood grazie alle opere di registi come Antonioni, Visconti, Fellini.

Il risveglio del cinema italiano negli anni ’60.

“Gli sbandati” è un film di poco successo, ma che precorre i tempi e farà scuola nel decennio successivo in un'Italia profondamente trasformata dal boom economico e da una gigantesca migrazione al Nord che svuota le campagne meridionali e riempie le fabbriche del triangolo industriale. Una classe operaia nuova e una gioventù nuova, quelle delle “magliette a strisce” che nel luglio '60 riscopre l'antifascismo e scende in piazza contro l'apertura della DC ai fascisti e la nascita del governo Tambroni. Sono i giorni di Genova e poi di Reggio Emilia che aprono un decennio segnato da profondi cambiamenti e che sfocerà poi nel '68. 

Sono gli anni del centro-sinistra, del ritorno delle lotte operaie dopo anni di paura e di repressione. Nel luglio '60 si apre una stagione nuova, quella delle riforme (nazionalizzazione dell'energia elettrica, scuola media unica) destinata a interrompersi presto per la reazione delle forze più conservatrici che minacciano il golpe (1964). Ma nonostante tutto non si torna indietro. Il vento del cambiamento pare inarrestabile. Dopo la stagnazione degli anni '50 l'Italia appare un paese interessato da un profondo cambiamento. In dieci anni, dal 1954 al 1964, il reddito nazionale raddoppia. Aumenta la ricchezza, anche se permangono e in alcuni casi si aggravano, sacche di miseria e aree profondamente depresse. 

La questione meridionale resta irrisolta, ma resa meno esplosiva dall'emigrazione. Si spopolano le campagne e per la prima volta le città raccolgono la maggioranza della popolazione. Iniziano le prime forme di consumismo. E' l'Italia delle Seicento, dei primi frigoriferi, di Carosello. Sono gli anni del boom edilizio, alla periferia delle città sorgono nuovi quartieri. Sono palazzoni grigi, spesso tirati su in fretta e furia, ma dotati di ascensore, bagno, riscaldamento centrale. Una rivoluzione per un'Italia contadina abituata ad una vita spartana, non molto diversa da quella dei padri e dei nonni. Ora invece, cambia tutto. L'Italia è un paese inquieto in cui si riaprono spazi per l'impegno culturale e civile impensabili nel decennio precedente. 



Il cinema inizia a raccontare questa Italia frenetica e contraddittoria con film di una forza straordinaria: Luchino Visconti con Rocco e i suoi fratelli (1960); Federico Fellini con “La dolce vita” (1960); Dino Risi con “Una vita difficile” (1961), “Il sorpasso”, (1962) e “I mostri”, (1963); Francesco Rosi con “Le mani sulla città” (1963); Elio Petri con “Il maestro di Vigevano” (1963); Vittorio de Sica con “Il boom” (1965); Antonio Pietrangeli con “Io la conoscevo bene” (1965). La stagione straordinaria della commedia all'italiana caratterizza il decennio di massimo splendore del cinema italiano. Roma con gli studi di Cinecittà diventa una delle grandi capitali del cinema, capace di rivaleggiare ad armi pari con Hollywood grazie alle opere di registi come Antonioni, Visconti, Fellini.

Il cambiamento è generale. La televisione entra nelle case degli italiani soppiantando la radio e scalzando progressivamente il cinema da prima forma di intrattenimento. Le attenzioni dei censori si spostano sul nuovo mezzo di comunicazione, che soppianta il cinema come strumento di condizionamento dell'opinione pubblica. Quella italiana è e resterà fino agli anni '80 una tv di Stato rigidamente controllata dal potere politico. Un cambiamento di clima politico, a cui non è estranea a livello internazionale l'inizio del processo di distensione fra i due blocchi (la cosidetta “coesistenza pacifica” secondo la formula del leader sovietico Nikita Kruscev) e su di un altro piano la svolta storica della Chiesa con il pontificato di Giovanni XXIII e l'avvio del Concilio Vaticano Secondo. Insomma, si inizia a respirare un'aria nuova. 



In questo clima più disteso la Resistenza ritorna prepotentemente sugli schermi con una serie nutrita di grandi film preceduti nel 1959 da “Il generale Della Rovere” di Rossellini, vincitore del Leone d'oro alla Mostra di Venezia. E' una vera e propria grandinata di titoli, ci limitiamo ai più noti. Nel 1960 escono “Tutti a casa” di Luigi Comencini, “La lunga notte del '43” di Florestano Vancini, “Era notte a Roma di Roberto Rossellini, “Il gobbo” di Carlo Lizzani. Nel 1961 è la volta di “Un giorno da leoni” di Nanni Loy, “Una vita difficile” di Dino Risi, “ Tiro al piccione” di Giuliano Montaldo. Ondata che continua nel 1962 con “Le quattro giornate di Napoli” ancora di Nanni Loy e l'anno successivo con “Il terrorista” di Gianfranco De Bosio. 

Rispetto alla prima stagione neorealista il cinema ora guarda alla Resistenza con occhi meno innocenti, abbandonandone la visione mitica incentrata, come si visto sull'unità antifascista delle grandi masse popolari comuniste e cattoliche. E' una descrizione in chiaroscuro, che progressivamente fa emergere le contraddizioni, le ambiguità, il rimosso di un fenomeno che si rivela estremamente complesso e sfaccettato. Si inizia a parlare dei repubblichini (“La lunga notte del '43”, “Tiro al piccione”), dei contrasti politici fra i partiti del CLN (“Il terrorista”), della guerra di Liberazione come guerra civile che distrugge legami famigliari e di amicizia (“Un giorno da leoni”), della sostanziale continuità di molti aspetti del fascismo anche nell'Italia repubblicana (“Una vita difficile”.

La Resistenza, da oggetto di celebrazione diventa campo di indagine. Una ricerca che coinvolge anche gli anni del regime, tanto che saranno almeno una quarantina i film dedicati al ventennio.Siamo di fronte ad un cinema disincantato. “Buona parte dei film degli anni sessanta – annota un critico - è percorsa dal tema della disillusione, delle speranze e dei sogni presto dissolti dopo la Liberazione, il senso del fallimento per un Paese che non si era rinnovato nelle istituzioni e ancora lontano dall’essere una democrazia compiuta, per un’Italia che avrebbe potuto essere e non è stata. A percorrere questi film non è ancora il rimpianto del mito della “rivoluzione mancata” o della “Resistenza tradita” che diverrà assillante negli anni settanta, ma sono la visione etica e morale della lotta di Liberazione e l’incolmabile distanza, dopo quasi vent’anni, tra quanto enunciato dalla Costituzione e quanto realizzato”.


Due film spiccano fra tutti. “Una vita difficile” di Dino Risi del 1961, che racconta l'impossibile reinserimento nella vita civile di un ex partigiano che non vuole rinunciare ai propri ideali e ai propri sogni e paga per questo un prezzo durissimo. Un film amaro con un grande Alberto Sordi che offre in questa occasione forse la migliore prestazione della sua carriera. 

E poi “La lunga notte del '43”, tratto da un racconto di Bassani che ricostruisce la strage di un gruppo di antifascisti. E' il primo film in cui i fascisti sono protagonisti assoluti e manifestano un odio feroce verso l'Italia che li ha traditi, una voglia assoluta di morte tesa a cogliere anche il minimo pretesto per scatenarsi in tutta la sua ferocia. Qui il disincanto diventa quasi disperazione. Nella sequenza finale, ambientata negli anni '60 uno dei protagonisti stringe la mano di uno degli assassini del '43 e non perché vi sia stata riconciliazione o perdono, ma per quieto vivere e indifferenza. Vent'anni dopo l'Italia ha già dimenticato, carnefici e vittime sono diventati uguali. Il sogno di un'Italia diversa pare definitivamente tramontato.

(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana 4)

sabato 24 marzo 2018

Cinema e Resistenza. Gli anni grigi della censura (1951- 1960)




Nel 1947 Giulio Andreotti è nominato (su input Vaticano) sottosegretario allo spettacolo. Inizia il decennio nero del cinema italiano. Non si salverà nessuno: neppure Totò e Humphrey Bogart. La Resistenza sparisce dagli schermi cinematografici.

Giorgio Amico

Gli anni grigi della censura (1951- 1960)

Introdotta in epoca fascista con la creazione di una Direzione generale per la cinematografia, la censura prevedeva forme di controllo sulla circolazione dei film tramite la concessione di appositi nulla osta. Nel dopoguerra normativa e apparati erano rimasti immutati: presso la Presidenza del Consiglio continuava a funzionare un Ufficio Centrale per la Cinematografia. Dal 1947 sottosegretario allo spettacolo sarà il giovane Giulio Andreotti, nominato a soli 28 anni da De Gasperi su consiglio di monsignor Montini (il futuro Paolo VI) allora esponente importante della Curia romana. Andreotti (a cui dalla fine del 1953 succederà un ancora più rigido Oscar Luigi Scalfaro, allora esponente della destra DC) si accanisce a tagliare tutto quello che può sembrare una minaccia anche minima alla pace sociale e alla morale cattolica.

Sotto i colpi di forbice di Andreotti (e Scalfaro) finiscono tutti i film che trattano argomenti scomodi, come l'esistenza in Italia di un partito comunista di cui non si doveva assolutamente parlare. Così si taglia ne La Spiaggia (bellissimo film di Lattuada girato nel 1954 a Spotorno), la figura del sindaco comunista. E poco importa se il film non ha intenti politici. E' rimasta celebre la scena di Totò e Carolina, in cui Totò poliziotto alla guida di una jeep finita fuori strada viene soccorso da una camionetta carica di militanti comunisti che cantano Bandiera rossa e naturalmente il canto è cancellato e ai giovani si fa cantare una canzone patriottica “Di qua di là dal Piave”.


Per tutto il decennio la Resistenza sarà la grande rimossa dal cinema italiano, dedito ormai a sfornare a getto continuo prodotti di pura evasione: i melodrammi strappalacrime di Raffaello Mattarazzo, una sorta di “neorealismo popolare” (riscoperto e riabilitato proprio a Savona in una rassegna del 1976 da Tatti Sanguinetti e da un giovanissimo Carlo Freccero), i film comici ricalcati sul varietà e l'avanspettacolo con Totò, Rascel, Macario, le commedie tipo “Pane, amore e fantasia” di Luigi Comencini (1953) o “Poveri ma belli” (1956) e a partire dal 1958 una lunga serie di film storico-mitologici, i cosiddetti “peplum”, destinati ad essere soppiantati negli anni '60 dal filone degli spaghetti western. Tutti film a basso costo che incassano moltissimo rispetto al capitale investito.

In attesa della televisione che sta per arrivare il cinema resta la forma di svago preferita dagli italiani e il numero delle sale cresce costantemente passando dalle 6500 del 1948 alle quasi 10.000 del 1954 un terzo delle quali gestite dalle parrocchie. Anche la Chiesa attraverso il Centro Cattolico Cinematografico (CCC) passa al vaglio i film. Sulla porta delle chiese soprattutto nelle città sono elencati i titoli dei film in programmazione con a fianco un voto (per tutti, adulti, adulti con riserva, escluso) che indicava cosa si potesse vedere e cosa no. L'attività del CCC condiziona pesantemente i produttori: potendo influenzare sensibilmente la riuscita economica di un film, il giudizio della Chiesa rappresenta una forma tacita, ma efficace di censura preventiva.

Persino le Forze Armate hanno titolo nella valutazione di cosa gli italiani possono vedere. Nel 1954 il film “Senso” di Luchino Visconti ambientato nel 1866 viene amputato di una scena in cui i patrioti criticano il comportamento dell’esercito. Il titolo stesso, che doveva essere “Custoza”, viene cambiato perchè non si può neppure quasi un secolo dopo mettere in risalto una pagina poco gloriosa della storia d'Italia.

Anche “Casablanca” (1942), un film ancora oggi di culto, non passa indenne al vaglio dei censori: il protagonista, gestore disincantato di un night, ha un passato di militante rivoluzionario che lo ha condotto in Etiopia a appoggiare la resistenza contro gli invasori fascisti. Ma questo non si può dire e nella versione italiana tutto si trasforma in un innocuo “aiuto ai cinesi”.


Stando così le cose non è strano che per quasi un decennio la Resistenza scompaia dagli schermi. Un lungo silenzio interrotto solo nel 1955 dal film di un esordiente “Gli sbandati” di Francesco Maselli. Presentato a Venezia, il film racconta la vita di un un gruppo di giovani altoborghesi sfollati nella campagna milanese nei mesi immediatamente successivi all'8 settembre. Il tempo trascorre tra discussioni includenti sul che fare (andare in montagna o cercare di espatriare in Svizzera?). Solo uno, innamoratosi di una giovane operaia, deciderà di raggiungere i partigiani, ma la storia terminerà tragicamente con l'arrivo dei tedeschi informati da un delatore.

Il film, sostanzialmente una storia d'amore, non piacque alla sinistra che lo trovò eccessivamente intimistico, ma esprime perfettamente come una nuova generazione di cineasti, non proveniente per motivi anagrafici dalla militanza partigiana o comunque antifascista come la generazione precedente, si avvicinasse alla Resistenza senza più gli entusiasmi o le speranze degli anni '40, ma animata dalla voglia di capire. Il tempo delle decisioni si dilata, la Resistenza di Maselli è una Resistenza problematica, osservata più che partecipata.

(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana 3)  

venerdì 23 marzo 2018

Il primo dopoguerra e il cinema neorealista (1945-1951)




La speranza era quella di far diventare il cinematografo uno strumento utile. Con "Roma città aperta" ho innovato tanto. Allora era impensabile girare in ambiente vero e non ricostruito in un teatro di posa, che era il luogo in cui si celebrava il grande rito del cinema; la strada, quella vera, era completamente sconosciuta al cinema di allora. Volevo fare un cinematografo accessibile a tutti: uscire dalla produzione industriale, con tutte le schiavitù che comportava”. Così Roberto Rossellini racconta il suo cinema. Nel 1945 a guerra ancora in corso inizia la grande stagione del neorealismo.

Giorgio Amico

Il primo dopoguerra e il cinema neorealista (1945-1951)

La prima stagione del cinema resistenziale si apre nel gennaio del 1945 a guerra ancora in corso con “Roma città aperta” di Roberto Rossellini per concludersi all’inizio degli anni Cinquanta con “Achtung! Banditi!” di Carlo Lizzani, un film girato a Genova fra le fabbriche e le case di Pontedecimo. E' un cinema povero di mezzi, ma ricco di ideali e di speranze. Film girati nelle strade spesso con attori non professionisti sia per sopperire alla drammatica mancanza di risorse (gli stessi studi di Cinecittà erano allora ricovero degli abitanti dei quartieri distrutti dai bombardamenti), sia per sottolineare il carattere realistico e popolare della narrazione. 

Con il film di Rossellini inizia la grande stagione neorealista, destinata a rendere celebre in tutto il mondo il cinema italiano, vissuta come una reazione all'uso che del mezzo cinematografico aveva fatto il fascismo. Un cinema di propaganda, rappresentato da film come “La vecchia guardia” di Blasetti (1934) o “Scipione l'Africano” di Carmine Gallone (1937) celebrativi della “rivoluzione fascista” e della conquista dell'impero, a cui si affiancava (a imitazione della commedia americana) il genere sofisticato dei “telefoni bianchi”, apparentemente meno impegnato, ma in realtà teso a magnificare il benessere crescente e la modernizzazione dell'Italia fascista degli anni Trenta. Ne sono un chiaro esempio “Grandi Magazzini” di Camerini del 1939 e “Gli uomini che mascalzoni” di Lattuada del 1932 che pure in anni di crescente autarchia importano italianizzandolo il sogno americano fatto di negozi luccicanti ed automobili lussuose.



Il cinema della Resistenza parte da Roma, proprio all'indomani dell'uscita dalla città dei tedeschi e dell'arrivo degli Alleati per raccontare la lunga notte dell'occupazione nazista, gli arresti e le torture, le fucilazioni e le rappresaglie. E parte con un film girato nel segno della morte e della tragedia, ma anche della speranza incentrato su due personaggi: un prete fucilato sul campetto della sua parrocchia e un ingegnere comunista che muore sotto tortura. Il prete benedice i suoi assassini, il comunista non rivela i nomi dei suoi compagni. Rossellini nel raccontare queste tristi vicende pone l'accento più sul piano morale che su quello politico, spiegando per immagini di un bianco e nero essenziale cosa sia quella “moralità nella Resistenza” che Claudio Pavone porrà nel 1991 a titolo del suo libro. 

“Roma città aperta” è un film totalmente antiretorico. Non ci sono proclami né slogan, ma, anche se non in primo piano, la politica c'è e rimanda già dalla scelta dei protagonisti allo storico incontro fra comunisti cattolici che avviene proprio in quei mesi, a quella unità antifascista destinata ad esaurirsi nello spazio di pochi anni con l'inizio della guerra fredda, ma che è comunque, nonostante tutto, alla base della nascita prima della Repubblica e poi della Costituzione. 

Seguirà nel 1946 Paisà, sempre di Rossellini, un potente affresco collettivo di un'Italia attraversata dalla guerra. Sei storie, dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alla guerra partigiana nel delta del Po, passando per Napoli, Roma, Firenze, a raccontare di un'Italia in rovina che si arrangia come può (splendido l'episodio napoletano), ma che non ha perso del tutto la sua innocenza e la sua fede. Lo testimoniano i fraticelli del piccolo convento sperduto sull'Apennino emiliano che si trovano ad ospitare per una notte tre cappellani militari americani: un prete cattolico, un pastore protestante e un rabbino.


Tra il 1945 e il 1948, negli anni della ricostruzione e dell'unità antifascista, sono complessivamente una dozzina i film dedicati alla Resistenza. Non è poco tenuto conto della ridottissima produzione di quegli anni in cui nelle sale dominano i film americani. Una situazione sintetizzabile in pochi dati: nel 1946, a fronte di 46 film prodotti in Italia, quelli importati sono complessivamente 874, di cui 668 americani. Nel 1948 sono 54 i film italiani di fronte agli 874 realizzati all'estero, di cui 668 provenienti dagli USA. Come dimostrano queste cifre sono anni fortunati per le sale cinematografiche che riaprono a migliaia, spesso in condizioni di fortuna, in tutto il Paese compresi i paesi più piccoli. Centrali in questo rilancio sono i circuiti organizzati, quello delle sale parrocchiali (da sole un terzo dei cinema) e quello alternativo delle organizzazioni ricreative e culturali legate alla sinistra. 

La stessa Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI) è in prima fila a promuovere l'utilizzo del mezzo cinematografico nella costruzione della memoria. Lo farà commissionando nel 1946 la realizzazione di due film, “Il sole sorge ancora”, di Aldo Vergano, e “Caccia tragica”, di Giuseppe De Santis, entrambi di ambientazione rurale: il primo in un cascinale lombardo, il secondo nella campagna ravennate. Film poverissimo, tanto da costringere gli sceneggiatori a recitare in prima persona per ridurre la spesa degli attori, “Il sole sorge ancora” racconta gli inizi della lotta partigiana all'indomani dell'8 settembre, il travagliato processo di formazione delle prima bande e il loro radicarsi nelle comunità locali. Il film di Vergano sottolinea particolarmente gli elementi di rivolta popolare (operaia e contadina) della guerra partigiana, tanto da essere definito un film “marxista” da parte della critica, restando tuttavia all'interno del tema, già incontrato in “Roma città aperta” dell'unità antifascista delle grandi forze popolari. Eloquente in questo senso la sequenza della fucilazione congiunta del prete e dell'operaio comunista i cui corpi vanno a formare una croce. 


Lo scopo di questi film era sostanzialmente educativo: trasformare il cinema da momento di mero intrattenimento in un primo stadio del processo di alfabetizzazione democratica di masse popolari diseducate da vent'anni di dittatura. Il messaggio doveva essere chiaro, accessibile a tutti, immediatamente comprensibile. L'aggancio alla realtà doveva essere totale, non ci doveva essere finzione, la storia raccontata doveva rispecchiare il più possibile il vissuto degli spettatori, le loro storie individuali, le loro esperienze della guerra. In un'intervista, rilasciata molti anni dopo a Enzo Biagi, Roberto Rossellini parlerà della volontà di fare un cinema “utile”:

“La speranza era quella di far diventare il cinematografo uno strumento utile. Con Roma città aperta ho innovato tanto. Allora era impensabile girare in ambiente vero e non ricostruito in un teatro di posa, che era il luogo in cui si celebrava il grande rito del cinema; la strada, quella vera, era completamente sconosciuta al cinema di allora. Volevo fare un cinematografo accessibile a tutti: uscire dalla produzione industriale, con tutte le schiavitù che comportava”.

E' proprio questo intento educativo che spiega l'accento posto da tutti gli autori di questa prima stagione resistenziale sui motivi etici piuttosto che su quelli politici. Anche le storie individuali raccontate hanno questo sottofondo, i personaggi sono continuamente posti di fronte ad una scelta che è prima di tutto etica.



La fine dei governi di unità antifascista e l'inizio della guerra fredda segnano un profondo cambiamento del clima politico e culturale. Dopo le elezioni politiche del 1948 l'Italia rispecchia fedelmente la realtà di un mondo diviso in due blocchi. L'esclusione delle sinistre dal governo seguita dalla scissione sindacale apre una fase nuova. Anche sul cinema cala il gelo della guerra fredda. Nel clima di stabilizzazione moderata dei primi anni Cinquanta, segnati dal recupero in funzione anticomunista della destra monarchica e neofascista, la Resistenza diventa una realtà scomoda. Uno storico inglese descrive così questo passaggio epocale:

“Il governo italiano lanciò un programma di misure anticomuniste per cui sindacalisti, ex partigiani e membri del Partito comunista furono arrestati in massa. (…) Dei 90-95.000 comunisti ed ex partigiani arrestati fra l'autunno del 1948 e il 1951, solo 19.000 andarono sotto processo, e solo 7000 furono trovati colpevoli di qualche reato; gli altri furono trattenuti per periodi variabili in «custodia preventiva». Furono i militanti più ostinati, e soprattutto gli ex partigiani, a essere trattati con la massima durezza. Dei 1697 ex partigiani arrestati fra il 1948 e il 1954, 884 furono condannati a un totale di 5806 anni di galera. (…) Certo è che questo «processo alla Resistenza» fu molto più severo di quanto non fosse mai stata l'epurazione dei fascisti. Il messaggio era chiaro: gli «eroi» del 1945, che avevano liberato il Nord d'Italia dal governo fascista, erano diventati alla fine il nuovo nemico”.

“Achtung!Banditi!” film del 1951 di Carlo Lizzani chiude un’epoca e ne apre un’altra. Lo dimostrano gli ostacoli di ogni genere mossi dalle autorità alla relizzazione del film. Non fu ad esempio permesso l'uso di armi da fuoco vere e la produzione fu costretta non senza difficoltà a provvedere alla fabbricazione di abili imitazioni in legno in tutto simili agli originali. Notevoli furono anche i problemi finanziari. Nell'impossibilità di trovare un produttore disposto a finanziare il film (e rischiare così di perdere i contributi statali), si dovette addirittura costituire una cooperativa, la Società cooperativa di produttori e spettatori. Il film racconta della lotta per impedire lo smantellamento di una fabbrica e il trasferimento dei macchinari in Germania. L'accentuazione “operaista” del film, girato nel quartiere industriale di Pontedecimo tra i capannoni delle fabbriche, rivendica il ruolo nazionale e patriottico svolto nella guerra di Liberazione da una classe operaia descritta ora dalla reazione come una massa fanatizzata e incolta, facile preda della propaganda sovversiva.

(Giorgio Amico, Da "Roma città aperta" a "Il partigiano Johnny". La Resistenza nella filmografia italiana)

mercoledì 21 marzo 2018

Resistenza e Cinema




Nell'ambito del corso di aggiornamento per docenti a cura dell'ANPI di Savona La Resistenza nelle scuole. Fonti e metodi 2

22 marzo 2018
ore 16.00
presso l'ISS Patetta
Via XXV Aprile – Cairo M.

La Resistenza nella filmografia italiana
a cura di Giorgio Amico


L'incontro è aperto al pubblico

Anticipiamo la prima parte della relazione.



Giorgio Amico

Resistenza e Cinema


Non sono molti i lavori che il cinema italiano ha dedicato alla Resistenza. Una sessantina di film in tutto, ma sufficienti a disegnare una sorta di percorso di come l'Italia repubblicana si è posta di fronte alla guerra di Liberazione.

Un percorso complesso e contradditorio, segnato dall'alternarsi degli stati d'animo collettivi e del clima politico, riassumibile in alcune grandi stagioni che segnano la storia del cinema italiano e al contempo quella del dopoguerra dalla Liberazione alla attuale “Seconda Repubblica”. Un po' schematicamente si può parlare di sei periodi:

1. Il primo dopoguerra e il cinema neorealista (1945-1951)
2. Gli anni grigi della censura (1951- 1960)
3. Il risveglio del cinema italiano negli anni ’60
4. La grande contestazione del '68 e dei primi anni '70
5. Il riflusso degli anni '80 e il declino del cinema impegnato
6. Il nuovo millennio

Pur nel mutare delle situazioni e delle sensibilità, cambiamento che come vedremo presentò anche in alcuni casi aspetti traumatici, si possono tuttavia notare nella rappresentazione cinematografica del tragico periodo 1943-1945 alcune caratteristiche di fondo che restano inalterate nel tempo.

La prima è il carattere unidimensionale degli eventi presentati. Quella narrata dal cinema è più la storia della guerra di liberazione che della Resistenza nella sua integralità. Anche per motivi spettacolari l'attenzione è rivolta quasi esclusivamente al racconto di episodi o storie della lotta armata. Poco trattata è quella che è stata definita da alcuni storici la “Resistenza passiva”, il rifiuto quotidiano dell'occupazione nazista, il sostegno ai partigiani fatto di piccoli gesti, l'abbraccio protettivo di territori interi come le Langhe, l'Apennino ligure e quello tosco-emiliano, senza il quale la stessa lotta armata non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivenza e di riuscita.

Lo evidenzia Beppe Fenoglio in una pagina bellissima dei suoi Appunti partigiani: battere i tedeschi e i fascisti, scrive, “non fu abilità nostra. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa”. Una realtà ovviamente presente nella filmografia resistenziale, ma mai da protagonista, sempre come sfondo (qualche volta anche sfuocato), tranne che per “Il partigiano Johnny”, film del 2000, straordinariamente atipico e bello proprio in quanto prima di tutto robustissimo film di paesaggio.


Altrettanto assente è la Resistenza dei soldati italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre e utilizzati come manodopera forzata nelle industrie e nelle miniere tedesche. Un popolo di schiavi, decimato dalla fame e dalle malattie, la cui condizione era di poco migliore di quella degli ebrei e che nonostante questo rifiutò l'adesione alla Repubblica Sociale e il ritorno in Italia. Una realtà trascurata anche dalla storiografia tanto che il libro “L'altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania” di Alessandro Natta (pubblicato con poca fortuna nel 1954) restò per lungo tempo la sola opera in materia. Una storia dimenticata anche dal cinema, l'unico riferimento rintracciabile è un brano di un film comico interpretato da Totò, Siamo uomini o caporali di Camillo Mastrocinque del 1955, in cui viene rappresentata (anche se in maniera semifarsesca) la condizione dei soldati italiani internati nei lager. In entrambi i casi comunque una Resistenza “militare”, una questione prevalentemente maschile con le donne, messe sullo sfondo come la rivolta silenziosa delle madri ne “Le quattro giornate di Napoli” di Nanni Loy o protagoniste di singoli episodi come la Anna Magnani “Pina” (non a caso premiata come migliore attrice non protagonista) nella sequenza più famosa di “Roma città aperta”.


All'interno di questa caratterizzazione prevalentemente maschile tipica (a partire da quello americano) del cinema “di guerra”, genere in cui (con qualche forzatura) si può far rientrare anche il filone resistenziale, si inseriscono poi autocensure e vere proprie rimozioni al fine di salvaguardare il mito degli “italiani brava gente” e una visione meramente patriottica della guerra di Liberazione. Quasi sempre i cattivi sono i soldati tedeschi, rappresentati come simbolo impersonale di una ottusa e bestiale ferocia. Poco si parla dei repubblichini, fascisti si, ma pur sempre italiani. Poco si parla, soprattutto, delle differenziazioni politiche fra le formazioni partigiane, del carattere di classe della Resistenza nelle fabbriche, della lotta nelle città. Una pagina scomoda, quella della guerra dei GAP, fatta di attentati e di esecuzioni di spie e di repubblichini, che poco aveva di spettacolare e molto di politico. Un terreno scivoloso per molti motivi (a partire dalla natura terroristica delle azioni), una materia difficile da trattare, non a caso ripresa (con qualche ambiguità), proprio negli anni bui del terrorismo. Pochissimo trattato, infine, il tema della guerra civile, vero e proprio tabù a sinistra almeno fino agli anni '90 quando Claudio Pavone pubblicherà il suo “Una guerra civile”, opera fondamentale per comprendere la complessità della Resistenza, al contempo guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe.


Quello che di certo non c'è nei film sulla Resistenza italiana è il trionfalismo. E' sempre con un certo pudore che il cinema si è accostato alla vittoria finale dei partigiani. Solo in “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani una lunga sequenza è dedicata all'insurrezione vittoriosa rappresentata come uno sventolio di bandiere rosse issate sulle ciminiere delle fabbriche da operai in armi. Per il resto silenzio. La Liberazione è spesso evocata, mai descritta. Esemplare resta il finale di Paisà: un cielo livido sovrasta il Po che ha appena inghiottito i corpi di un gruppo di partigiani fucilati dai nazisti. Uno scenario spettrale su cui appare la scritta “Due mesi dopo la guerra era finita”. Tutto è silenzio, solo il sibilare del vento che fa ondeggiare le canne delle paludi. Qualcuno ha parlato di “rimozione”, ma non di questo si tratta. Per il cinema italiano, da “Roma città aperta” a “Il partigiano Johnny”, il punto nodale non è tanto il 25 aprile, quanto l'8 settembre, quando tutto è cominciato, il momento delle scelte, quello in cui un popolo diseducato da vent'anni di dittatura e disorientato dalla sconfitta inizia faticosamente a risollevarsi e a prendere nelle proprie mani il destino di un paese devastato.

Le streghe in Fornace


giovedì 15 marzo 2018

L'arte come antifascismo: Asger Jorn




"L'arte come antifascismo: Asger Jorn"


Venerdì 16 marzo alle ore 20.00
presso la SMS " Operai e impiegati " di Celle Ligure

Cena e presentazione a cura di Giorgio Amico
della figura dell'artista danese che a lungo soggiornò ad Albisola

L'iniziativa è organizzata dalla Sezione ANPI "Fratelli Briano" di Lavagnola



"Il vichingo arrivò a Milano il 28 marzo 1954 a mezzogiorno... con armi e bagagli, con zaino, tenda da campo ed un violino. Il violino lo dimenticò in treno, per cui, accortosene, si dovette tornare all'Ufficio Oggetti Smarriti, ove fortunatamente fu ritrovato, il che lo dispose favorevolmente verso di me e l'Italia".

Così Enrico Baj ricorda la calata di Asger Jorn verso il Mediterraneo, verso Albisola, dove questo nordico "perpetuamente nomade per l'Europa" metterà su casa e che oggi lo ricorda con una mostra allestita nel Museo della Ceramica, a cura di Franco Tiglio.

Jorn aveva allora poco più di quarant'anni ed alle spalle le esperienze del gruppo danese astratto-surrealista "Host" e quella fondamentale di CoBrA, il primo grande movimento artistico europeo del dopoguerra - in cui la rivendicazione del carattere sperimentale dell'arte conviveva con una ricerca espressiva orientata verso il primitivismo - di cui con Dotremont e Constant era stato il principale animatore.

L'anno precedente Jorn aveva dato vita al Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, in polemica con l'"industrial design" propugnato da Max Bill (all'epoca direttore della Höchschule fur Gestaltung di Ulm) "come unica direzione della funzione dell'artista nella società" ed alla concezione statica della forma che vi si riflette.

Ed è proprio ad Albisola che, nell'estate del 1954, viene organizzata la "prima esperienza della Bauhaus Immaginista" con gli Incontri Internazionali della Ceramica cui prendono parte Fontana, Baj, Dangelo, Scanavino, Appel, Corneille, Matta, Jorn. Koenig, Giguere e Jaguer.

L'estate successiva, al Bar Testa, l'incontro con Pinot Gallizio e Piero Simondo, venuti ad Albisola per un'esposizione delle loro ceramiche: "lo ha visto lì una sera - ricorda Piergiorgio Gallizio - e mio padre che era un tipo piuttosto aggressivo è andato a sederglisi di fianco: Jorn intanto continuava a suonare il violino e allora mio padre ha avuto l'idea di prenderlo sull'archeologia, hanno cominciato a discorrere, si sono sciolti... Dopo tre giorni Jorn lo ha invitato in studio, dopo una settimana era già su ad Alba".

Nasce allora il progetto del "Laboratorio Sperimentale di Alba", l'idea del "Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi" svoltosi nel 1956 nella città piemontese, da cui prenderà le mosse il processo che porterà alla confluenza del M.I.B.I., dell'Internationale Lettriste di Guy-Ernest Debord e del Comitato Psicogeografico di Londra nell'Internationale Situationniste, fondata a Cosio d'Arroscia, in casa di Simondo, nell'estate 1957 e nota soprattutto per aver fornito - con le sue analisi della "società dello spettacolo" - un importante supporto teorico al movimento degli studenti francesi nel Maggio '68”.

(Da: Sandro Ricaldone, Jorn. Un vichingo ad Albisola, http://www.quatorze.org/jovik.html)


lunedì 12 marzo 2018

sabato 10 marzo 2018

venerdì 9 marzo 2018

Carlo Pasini/Aldo Mondino, Inside





Carlo Pasini “Inside”
e opere scelte di Aldo Mondino
Palazzo del Commissario 
(Fortezza del Priamar – Savona)
10 – 31 marzo 2018

Biografia del Maestro Carlo Pasini


Nasce a Pavia il 12 giugno 1972. Diplomato presso il Liceo Artistico “Raffaello Sanzio” di Pavia si iscrive al Politecnico di Milano ove si laurea in Architettura con Fredi Drugman e Corrado Levi nel 1999. Inizia l’attività artistica presso il laboratorio di Aldo Mondino nel 2000 dove svolge il ruolo di collaboratore ed assistente fino alla primavera 2005.
E’ un pittore espansivo sin dalle origini, da quando ha scelto di dipingere su delle zanzariere perfettamente funzionanti montate su intelaiature di alluminio, portando la pittura sul terreno della percezione e fruizione. Il rapporto tra vuoti e pieni ha portato Pasini a considerare la pittura non più confinata alla sola vista, bensì ad includere il tatto e il senso dinamico del movimento nello spazio.
Nascono così le pelli di serpente, opere astratte costellate di macchie, screziature e arabeschi della natura. L’espressione dinamica iniziale della zanzariera viene liberata nella scultura vera e propria di animali guizzanti che lottano per la sopravvivenza, come un ritorno alle origini con una razza umana implosa e priva di maschere.
In questa vita che è un grande teatro tutti ci presentiamo con interfacce e software per comunicare informazioni criptate più simili ad animali come Cavalli di Troia in cui l’apparenza non coincide quasi mai con il vero Essere.
Del suo lavoro si sono occupati Aldo Mondino, Ivan Quaroni e Valerio Dehò.


Biografia del Maestro Aldo Mondino.

Nasce a Torino il 4 ottobre del 1938.
Nel 1959 si trasferisce a Parigi, dove segue i corsi di Heyter all'Atelier 17 e all'Ecole du Louvre. Frequenta i corsi di mosaico all'Accademia, con Severini e Licata.
Stringe amicizia con Tancredi, Errò, Jouffroy, Lam, Lebel e Matta.
L'anno successivo, proprio grazie a Tancredi, espone alla Galerie Bellechasse, quadri nei quali sono evidenti le influenze dei Surrealisti. In contemporanea, espone alla Galerie des 4 Saison presentando “opere/manifesto” contro il clima di repressione del governo francese di quel momento nelle quali appare una netta rottura con l'Informale.
Nel 1961, anno in cui rientra in Italia per svolgere il servizio militare, espone alla Galleria L'Immagine di Torino; l'anno successivo è alla Galleria Alpha di Venezia.
Seguono nel 1964 una mostra alla Galleria Il Punto di Torino diretta da Gian Enrico Sperone, in quel momento principale polo espositivo nazionale del panorama artistico internazionale; sempre a Torino, forte il rapporto con la Galleria Stein e la Galleria Paludetto.
Nella metà degli anni '60 espone opere e attua performance nella sua città natale ed ancora a Milano, Roma, Brescia facendo sempre parlare di se per la novità delle sue opere (uso di materiali “alternativi” come il torrone), per le polemiche che a volte il suo operare scatena (ricordiamo l'accusa di blasfemia per una mostra di Brescia) e per le operazioni attuate al fine di far diventare il pubblico elemento attivo delle opere.
Nel 1966, la sua prima presenza in una mostra collettiva alla Galleria Pescetto di Albisola Superiore (Sv).
Alla fine degli anni '60, esce volutamente dal circuito d'arte tradizionale e dopo un anno di “silenzio” nel 1970 presenta i suoi King, tele e fantocci/feticci nei quali tende ad rappresentare se stesso, opere in qualche modo dedicate alla “scansione del tempo”.
Nel 1969 espone alla Galleria A77 di Albissola Marina (Sv).
Negli anni '70, è partecipe dell'avventura iniziata a Calice Ligure (Sv) da Emilio Scanavino che ha scelto questo paese dell'entroterra savonese per vivervi; è un'intensa “stagione artistica”: la nascita della Galleria Il Punto (omonima di quella di Torino); il concretizzarsi degli Incontri Albissola/Calice; la presenza in loco di artisti come Carlo Nangeroni, Sergio Dangelo, Eduardo Arroyo, Sergio Sarri, Paolo Baratella, Giorgio Bonelli.
Nel 1972 torna a Parigi per un soggiorno che si protrarrà per sette anni, periodo nel quale si dedicherà principalmente alla pittura.
Nel 1976 partecipa alla Biennale di Venezia e alla fine degli anni '70 vedono la luce le Tour Eiffel, opere dal forte impatto segnico nelle quali si può considerare citato il periodo Espressionista.
Una serie di esse saranno prodotte in ceramica nella Fornace di Bruno Viglietti ad Albissola Marina (Sv).
Seguono gli anni '80 con un percorso espositivo che si dipana tra Roma, Parigi, Milano, Torino, New York, Chicago, Ginevra, Vienna e Londra.
E' il periodo dell'avvicinamento alle suggestioni dell'Oriente: citazioni delle atmosfere del Marocco, Palestina, Turchia; inizia a rappresentare le danze/preghiera dei Dervisci.
Nel 1993, nuovamente presente alla Biennale di Venezia, espone le citate tele dei Dervisci Danzanti e opere/installazioni create con l'uso di zollette di zucchero, tappeti, penne biro.
Si appassiona contemporaneamente alle atmosfere della Spagna: vedono la luce le serie dei Tori e Toreri.
Espone al Laboratorio della Sapienza di Roma, Venezia, Bologna e al Museo Topkapi di Istanbul.
Nel 1996 espone a Siena opere dedicate in contemporanea alla Corrida e al Palio e dall'anno successivo produce su altri temi a lui cari: i Musicisti della Confraternita Gnawa, i Danzatori ed Equilibristi Nordafricani, l'Ebraismo.
Negli anni successivi, mostre a Bologna, Milano, Roma, Torino, Bruxelles, nelle quali l'elemento essenziale delle opere sono i cioccolatini Peyrano prodotti appositamente nella sua Torino.
E' il momento delle grandi opere in torrone, zucchero, tessuto ma anche l'appropriarsi delle tecniche artistiche tradizionali: da progetti precedenti nascono le fusioni in bronzo; tipico esempio è “La mamma di Boccioni”, nata da una versione precedente in caramelle alla menta.
Nel 2000 esposizione dal titolo “Flowers” a Calcutta.
Sue mostre vengono organizzate a Firenze e Norimberga; nuovamente a Torino, vengono qui esposte per la prima volta opere in vetro realizzate a Murano.
Nel 2003, a Ravenna, viene organizzata una sua grande antologica.
Si spegne nella sua città natale il 10 marzo del 2005.