mercoledì 31 ottobre 2018

Verso il '68. Gli anni dei pugni in tasca



Anni Sessanta: cresce l'insoddisfazione e la rabbia dei giovani verso una società patriarcale soffocante. Non c'è ancora una causa per cui lottare, ma la rivolta contro i padri cova. E' il senso de I pugni in tasca, film d'esordio di Marco Bellocchio.

Giorgio Amico

Della miseria in ambiente giovanile

E di certo gli anni Sessanta non sono anni facili per i giovani. La riforma della scuola dell'obbligo con l'istituzione nel 1962 della nuova scuola media e la soppressione delle scuole di avviamento professionale non risolve il problema della selezione che colpisce quasi esclusivamente gli strati popolari. Ancora nel 1966 un alunno su quattro delle elementari non riesce ad ottenere la licenza nei cinque anni previsti. Peggiore, se possibile, la situazione della scuola media, dove il ritardo scolastico riguarda il 35% degli allievi. 

E non è solo questione di bocciature. Diffusissimo, soprattutto al Sud e nelle campagne del Nord, resta il fenomeno dell'abbandono e dell'evasione dell'obbligo scolastico. In una scuola che è diventata di massa, e che per questo è duramente contestata dalla destra, gli esclusi si contano a centinaia di migliaia. Sono i nuovi marginali, destinati a diventare gli strati più bassi del proletariato e ad alimentare il fenomeno del lavoro nero (spesso minorile) nell'artigianato e nel commercio e del caporalato nell'agricoltura.

Sempre nel 1966 su un totale di otto milioni e mezzo di giovani (cioè di cittadini compresi fra i 14 e i 24 anni) oltre un milione e mezzo lavora dal compimento dei quindici anni, mentre altri trecentomila sono già emigrati all'estero in Svizzera, Belgio, Germania, in cerca di lavoro. Anche la minoranza “privilegiata”, i “Pierini” del libro di Don Milani, che ha completato il ciclo di studi inferiore ed ora frequenta l'università non ha particolari motivi per essere soddisfatta.

Al pari del resto dell'apparato pubblico le istituzioni universitarie non reggono il ritmo del cambiamento in atto nella società. Mancano aule, laboratori, biblioteche. Il corpo accademico, selezionato con criteri familisti e di contiguità col potere, si contraddistingue per una grettezza culturale e una chiusura corporativa che non ha eguali in Occidente. Sono i “baroni” che hanno tiranneggiato generazioni di studenti, ma che all'improvviso non spaventano più. Di fronte alle prime forme di contestazione aperta il re si rivelerà nudo.

La stagnazione economica che ha seguito il boom, la mancata modernizzazione del paese, le riforme annunciate e non fatte determinano uno stato di incertezza sul futuro che diventa presto riflessione critica sul ruolo sociale che i futuri laureati andranno a svolgere nell'industria, nelle professioni, nella scuola. Si sviluppa il dibattito sul ruolo dei tecnici, sulla proletarizzazione delle professioni intellettuali. Gli studenti iniziano a non pensarsi più tanto diversi dai giovani operai.

Una generale rimessa in discussione che investe presto anche il quotidiano e la sfera più intima dell'esistenza: la famiglia, il rapporto con i genitori, la scoperta del corpo e della sessualità. Il bigottismo soffocante degli anni Cinquanta mostra le prime crepe. L'autorità dei padri inizia a essere messa in discussione. L'obbedienza – siamo ancora a Don Milani – non è più una virtù. 

Nel 1965 I pugni in tasca, film di esordio di un giovanissimo Marco Bellocchio, diventa il manifesto cinematografico della rabbia sorda di una generazione intera. Come proclameranno gli studenti situazionisti di Strasburgo nel loro manifesto scandalo del 1966, la miseria dei giovani non è solo economica, ma esistenziale e prima di tutto sessuale. Il cambiamento sognato prende già dagli inizi le caratteristiche libertarie della rivoluzione sessuale teorizzata negli anni Venti da Wilhelm Reich.

(Giorgio Amico, Le culture del Sessantotto, 5)

martedì 30 ottobre 2018

Verso il '68. Non solo canzonette


Gli anni Sessanta sono segnati da una profonda trasformazione della condizione giovanile. I giovani si percepiscono come diversi, portatori di un'alterità radicale rispetto al mondo degli adulti che si esprime attraverso la musica e il modo di presentarsi. La politica verrà più tardi. Gli anni Sessanta sono gli anni del rock, dei capelloni e delle minigonne.

Giorgio Amico

Non solo canzonette

Per la prima volta, adeguandosi anche in questo ai paesi più avanzati, l'Italia assiste al formarsi di una specifica “questione giovanile” caratterizzata soprattutto da linguaggi, mode, atteggiamenti particolari che non tengono in alcun conto le differenze, pure fortissime, di classe o di istruzione, per privilegiare invece come centrale il dato dell'età. Nello stupore e nella riprovazione generale dei benpensanti, compresi quelli di sinistra, i giovani iniziano a ostentare modi di vita sideralmente lontani da quelli dei loro genitori. Tra il 1960 e il 1965 la rottura generazionale diventa totale.

La musica gioca un ruolo centrale in questo processo. Nasce un modo nuovo di cantare, quello degli “urlatori”, che rompe con il tradizionale genere melodico della canzone italiana. Si afferma una nuova generazione di giovani cantanti, i cui capofila allora quasi adolescenti, Adriano Celentano, Rita Pavone, Bobby Solo, Gianni Morandi, Patty Pravo solo per citarne alcuni fra i più famosi, si rivolgono ai loro coetanei per narrarne sogni, passioni, ma anche una totale alterità rispetto al mondo degli adulti, i cosiddetti “matusa”. É la cosiddetta musica ye ye che fa da apripista al rock che irromperà a metà del decennio con i Beatles e i Rolling Stones. L'effetto sarà quello di una esplosione atomica che azzera e trasforma totalmente il paesaggio esistente.


E se, come qualcuno fa subito osservare da sinistra, in fondo si tratta solo di “canzonette”, di un fenomeno di mercato, favorito dalle grandi case discografiche, amplificato e diffuso dalla televisione e dalla radio, tuttavia questo modo nuovo di cantare esprime un malessere profondo e un'insoddisfazione reale: dopo gli anni del fascismo, la tragedia della guerra e l'immobilismo bigotto degli anni Cinquanta la generazione degli anni Sessanta, figlia della ricostruzione e del boom, si sente diversa da quelle che la hanno preceduta, portatrice di valori nuovi, di un modo nuovo di intendere la vita, del tutto alternativo a quello propagandato dalla morale ufficiale.

Noi non siamo una banda di suonatori – aveva dichiarato Mick Jagger, storico leader degli Stones- Siamo un modo di vita”. E attorno a questo modo nuovo di vivere si raddensa progressivamente una nuova cultura giovanile, una controcultura. Nel maggio '65 si tiene a Frascati il primo grande raduno musicale giovanile, nello stesso tempo nascono i primi complessi beat (circa 5000 solo fra il 1965 e il 1966), alcuni come L'Equipe 84, i Nomadi, i Dik Dik, i Giganti, i New Trolls, i Pooh, destinati a un grande e duraturo successo. Sempre tra il 1965 e il 1966 la vendita di chitarre in Italia aumenta di otto volte toccando livelli mai raggiunti prima.

Da Londra assieme alle canzoni dei Beatles arriva la moda dei capelli lunghi e della minigonna, da San Francisco la controcultura hippie dei figli dei fiori e le prime droghe leggere. La musica beat porta con sé la letteratura, tra i giovani spopolano poeti come Ferlinghetti, Corso, Allen Ginzberg di cui i Nomadi (e un quasi sconosciuto Guccini) mettono in musica la poesia più famosa. Jack Kerouac diventa un mito per migliaia di giovani che si identificano nei suoi personaggi di ribelli senza una causa e scoprono filosofie e religioni orientali o il nomadismo dell'autostop.


Il fenomeno diventa presto fatto di costume. Sempre di più i giornali parlano dei “cappelloni”. Anche i media ufficiali sono costretti a tenerne conto. Nell'ottobre del 1965 la seconda rete radiofonica manda in onda Bandiera Gialla, una trasmissione fortemente innovativa con cui Renzo Arbore e Gianni Boncompagni si rivolgono direttamente ai giovani rivoluzionando il modo di fare radio.

Nel 1964 su Vie Nuove Elio Vittorini parlerà di una nuova generazione che si forma “in linea orizzontale” attraverso l’esempio reciproco e il confronto tra pari delle esperienze collaterali, al contrario delle generazioni precedenti che si erano fino allora formate secondo linee verticali, attraverso il confronto con i padri, con il passato, con le tradizioni. Un dato generazionale che sarà la caratteristica del '68 studentesco, ma anche in larghissima parte del '69 operaio.

Dalla fabbrica si esce sempre troppo tardi quando si ha vent’anni. Ed ogni minuto trascorso fuori dalle mura dell’officina sembra essere un minuto rubato al padrone e conquistato al mestiere di essere giovani”, dichiara nel giugno 1964 un giovane operaio al settimanale Vie nuove, esprimendo un senso di appartenenza duplice, di classe e generazionale, tenuto insieme da un più generale malessere e da una insoddisfazione profonda che diventerà presto aspirazione a un cambiamento radicale, poi desiderio di rivolta e infine aperta ribellione.

(Giorgio Amico, Le culture del Sessantotto, 4)

lunedì 29 ottobre 2018

Verso il '68. Tutti davanti alla TV: l'Italia di Carosello



All'inizio degli anni Sessanta l'Italia è ormai una società industriale e urbana. Questa radicale trasformazione determina un cambiamento profondo della vita quotidiana. La televisione entra in tutte le case e pone le premesse culturali della società dei consumi.

Giorgio Amico

Tutti davanti alla TV: l'Italia di Carosello

Il boom economico determina oltre all'affermarsi anche in Italia di una moderna società dei consumi, profonde trasformazioni in campo culturale. Nasce una vera e propria industria moderna della cultura articolata su grandi apparati pubblici e privati. Centrale come strumento di informazione, ma anche di standardizzazione culturale (e linguistica) diventa la televisione. È davanti a Carosello e a Lascia o raddoppia? che l'Italia si unfica davvero linguisticamente.

Una vera e propria alfabetizzazione di massa che passa attrverso le immagini e porta a livelli mai raggiunti neppure durante il fascismo il condizionamento ideologico degli italiani, che schiude sogni di consumo e benessere fino ad allora impensabili (la Seicento, il frigorifero), ma apre anche squarci illuminanti sulla realtà del paese (“Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi, le grandi inchieste sulle campagne del Sud o sulla condizione femminile, le prime tribune politiche) che contribuiscono comunque alla crescita civile e politica degli italiani.

E poi, naturalmente, la scolarizzazione di massa, con l'istituzione nel 1962 della Scuola Media Unica (con la nazionalizzazione dell'energia elettrica l'unica vera riforma di un centrosinistra destinato ad avvitarsi presto su se stesso e a ridursi alla gestione dell'esistente e alla salvaguardia degli equlibri politici), a cui fa da sfondo una mutazione profonda del ruolo degli intellettuali, diventati ormai a pieno titolo parte integrante della forza-lavoro complessiva.

Una forza-lavoro particolare, inserita in una industria della comunicazione e dello spettacolo in fortissima crescita e che ora nelle sue avanguardie si interroga sul proprio ruolo effettivo e inizia a formulare una critica radicale dell'organizzazione del sapere, del suo utilizzo istituzionale a fine di conservazione degli assetti di potere esistenti e dunque della sua oggettiva funzione repressiva. E anche questi sono temi che da patrimonio di un'èlite di intellettuali diventeranno di massa nel '68.

(Giorgio Amico, Le culture del sessantotto, 3)


domenica 28 ottobre 2018

Verso il '68. Gli anni '60: stagnazione o neocapitalismo?




Negli anni Sessanta l'Italia cambia volto. Il boom economico di fine anni '50 provoca profondi cambiamenti nella società che la sinistra fa fatica ad interpretare. Iniziano ad emergere temi e approcci che avranno poi pieno sviluppo nel '68. Centrale in questa fase è l'azione di Raniero Panzieri.

Giorgio Amico

Stagnazione o neocapitalismo?

Dopo il 1956 la crisi dello stalinismo coincide in Italia con uno sviluppo economico accelerato e con una profonda trasformazione degli assetti e degli usi sociali che rende ineludibile a sinistra il compito di trovare strumenti e metodologie nuove di analisi e di intervento. Il primo a porre con forza questa esigenza di rinnovamento è Raniero Panzieri, già esponente di punta della sinistra socialista e direttore della rivista teorica del PSI. In maniera del tutto inedita egli punta sull'adozione di nuovi strumenti di analisi, incentrati sull'incontro fra sociologia (una disciplina guardata fino ad allora con sospetto da una sinistra che la considerava troppo “americana”) e politica, ma soprattutto su un intervento “dal basso” sulle fabbriche capace di trasformare il movimento operaio e le sue avanguardie da oggetto passivo di indagine a protagonista dinamico della ricerca stessa.

    Panzieri ai cancelli di Mirafiori

Centrale è la critica di Panzieri alle tesi del PCI che, nonostante i mutamenti in atto, continuano a descrivere l'Italia come un paese sostanzialmente arretrato, condannato alla stagnazione economica dall'alleanza reazionaria fra blocco industriale-finanziario del Nord e agrari del Sud. Tesi elaborate negli anni Venti e Trenta da Gramsci e riprese poi nel secondo dopoguerra da Palmiro Togliatti che le pone, attenuandone di molto la carica rivoluzionaria, alla base di una strategia riformista di lungo periodo finalizzata al completamento di quella rivoluzione democratico-nazionale che la borghesia italiana non avrebbe saputo e voluto fare prima nel Risorgimento e poi nella costruzione dello Stato unitario.

Confrontandosi con il dinamismo dell'Italia del boom, Panzieri ritiene invece che proprio lo sviluppo intenso della produzione industriale abbia definitivamente fatto saltare il tradizionale equilibrio del blocco industriale-agrario e che ci si trovi ormai di fronte ad una nuova realtà, una sorta di “neocapitalismo” fondato sull'integrazione fra capitalismo di Stato e monopoli privati e incentrato sulla “programmazione” come modello anticiclico, sull'integrazione del proletariato tramite il pieno accesso al consumo e infine sul recupero in funzione anticomunista di parte della sinistra nella gestione del potere. Panzieri parla esplicitamente di “fanfanismo” dal nome dell'esponente politico democristiano che più di ogni altro aveva operato al fine di rendere simbiotico e permanente il rapporto tra il partito cattolico e lo Stato. Argomentazioni riprese dieci anni dopo pressocchè integralmente dalle organizzazioni della Nuova Sinistra, compresa la campagna contro il “Fanfascismo” sviluppata da Lotta continua alla vigilia delle elezioni presidenziali del 1971.


Tutto questo sullo sfondo di profondi mutamenti degli assetti produttivi e sociali del paese: dal 1955 al 1962 l'Italia cambia aspetto, il reddito e i consumi raddoppiano, il Sud si spopola, le campagne vengono abbandonate, le città del Nord si gonfiano a dismisura di una massa di immigrati in cerca di lavoro nelle fabbriche in piena espansione. In pochi anni si conta un milione di operai in più.

É una classe operaia di tipo nuovo, radicalmente diversa da quella che fino ad allora aveva rappresentato l'avanguardia di fabbrica e che non era sostanzialmente cambiata dai tempi de l'Ordine Nuovo. Si riduce sensibilmente, fino quasi a sparire nei principali centri industriali, la figura dell'operaio di mestiere, altamente professionalizzato e geloso delle sue competenze, soppiantato da una massa di giovani lavoratori, ex contadini, per lo più immigrati, sprovvisti di tradizioni sindacali e di una vera formazione professionale, ma accomunati da un lavoro estremamente parcellizzato, semplificato, fondato sulla ripetizione meccanica e standardizzata sempre degli stessi gesti.

É l'operaio-massa che non ha rivendicazioni particolari di categoria o professione da avanzare, ma solo richieste egualitarie (aumenti uguali per tutti, eliminazione dei cottimi, delle gabbie salariali e delle qualifiche) che saranno poi la vera novità rivoluzionaria dell'autunno caldo. Una forza lavoro dequalificata, a basso costo, composta di immigrati dalle campagne che si accalcano nelle periferie fatiscenti dei grandi poli industriali, di cui Danilo Montaldi offrirà nel 1960 nel suo libro Milano, Corea una descrizione ancora oggi insuperata.

(Giorgio Amico, Le culture del Sessantotto, 2)

sabato 27 ottobre 2018

La Grande Guerra


Il lungo Sessantotto



Il '68 italiano fu l'epilogo di un decennio di lotte e dibattiti iniziato con la rivolta antifascista di Genova del luglio '60. Fu anche l'inizio di un decennio di aspri scontri sociali e politici che terminerà con la grande sconfitta operaia di Mirafiori del 1980. Il “lungo Sessantotto” italiano è il tema di una ricerca (in via di pubblicazione) di cui presentiamo l'introduzione. 


Giorgio Amico

Il lungo Sessantotto

Il Sessantotto, “l'anno degli studenti” come è stato definito, sconvolge gli assetti di una società tardocapitalista giunta al culmine di quasi trent'anni di sviluppo ininterrotto della produzione, di crescita della ricchezza sociale e dei consumi. Sono gli anni in cui la crisi, che arriverà poi devastante alla metà degli anni Settanta, conseguenza della fine degli accordi di Bretton Woods sulla convertibilità del dollaro e dello shock petrolifero, pare un residuo del passato, sconfitta definitivamente dalla pianificazione economica, dal keynesismo e dall'affermarsi in tutto l'Occidente del welfare state.

Eppure la società del benessere nasconde al suo interno contraddizioni profonde che esploderanno alla fine degli anni Sessanta coinvolgendo tutti i paesi sviluppati, Unione Sovietica e paesi dell'Est compresi. Un fenomeno globale che presenta profonde differenze tra paese e paese, ma ha come elemento comune il protagonismo dei giovani e la breve durata. Quasi ovunque già all'inizio del 1969 il movimento è ormai in pieno riflusso, a causa della repressione violenta (Cecoslovacchia, Messico) o per un autoesaurimento (Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone) dovuto all'incapacità di uscire dall'ambito studentesco e di collegarsi con altre realtà sociali a partire proprio da quel movimento operaio visto, in forma spesso idealizzata, come l'interlocutore privilegiato.

Certo, i fatti del '68 lasciano una traccia profonda nella società e determinano una radicale e più generale trasformazione del modo di vivere. Basta pensare alla liberalizzazione dei costumi sessuali in ambito giovanile e alla nascita di un movimento femminista non più semplicemente emancipazionista, ma incentrato sulla rivendicazione della differenza di genere, per rendersi conto della vastità dell'impatto sociale del movimento del '68. Più contenuto è invece l'effettivo impatto politico. “Lo Stato borghese sui abbatte e non si cambia” era stato lo slogan più ripetuto nei cortei, ma nell'insieme il “sistema” tiene. Anzi, come dimostrano i casi francese e tedesco, si ricompatta nel segno di una restaurazione dello status quo non priva tuttavia di concessioni riformistiche soprattutto sul piano dei diritti di cittadinanza.

La sinistra radicale ne esce comunque rafforzata. Le preesistenti organizzazioni rivoluzionarie, veri e propri residui “fossili” della vecchia Terza Internazionale, si riempiono di studenti acquistando una visibilità mai avuta prima, mentre dalle ceneri del movimento studentesco nascono partiti di tipo nuovo, come la Ligue communiste in Francia o il Socialist Workers Party in Inghilterra, forti di migliaia di aderenti. Insieme, vecchie sette e nuovi partitini vanno a comporre la cosiddetta Nuova Sinistra, fortemente influenzata dalle lotte del Terzo mondo e dalla Rivoluzione culturale cinese, e dunque molto radicale negli slogan e nelle forme di azione, ma il cui peso politico effettivo resta al di fuori dell'ambiente studentesco pressocché nullo. Solo l'Italia, dove gli studenti riescono a non farsi rinchiudere nelle università e rompono l'isolamento entrando in contatto con le avanguardie di classe in via di formazione nelle fabbriche, fa eccezione.Tanto da far parlare di “lungo Sessantotto”. Una eccezione le cui cause vanno ricercate nella particolarità del caso italiano.



Il fatto è che alla prova della crisi l'Italia si rivela molto più fragile, socialmente e politicamente, degli altri paesi dell'Occidente avanzato. Gli equilibri di governo sono da sempre bloccati dalle logiche della guerra fredda. La formula del centrosinistra è logora, ma i vincoli internazionali rendono impraticabile l'apertura al PCI. Il risultato è il lungo declino del sistema di potere democristiano con il diffondersi di fenomeni degenerativi come la corruzione e il clientelismo, mentre restano irrisolte questioni fondamentali per lo sviluppo come quello della formazione universitaria e della scuola in genere. Il “biennio rosso 1968-69” è, come si è detto, preceduto da un decennio in cui si accumulano tensioni e contraddizioni, ma anche speranze riformiste e sogni rivoluzionari.

Alla vigilia del '68 l'Italia è per molti versi una polveriera pronta a esplodere. A partire dalla fine del 1967 il movimento delle occupazioni sarà la causa scatenante di una più generale rivolta che investe tutti i settori della società, compresi i più corporativi e chiusi come la medicina, la magistratura e perfino la polizia. Le lotte studentesche diventano il detonatore di una conflittualità generalizzata che investe realtà diversissime - dagli operai di Mirafiori ai braccianti del Sud, dai senza casa delle metropoli ai disoccupati, dai carcerati ai soldati di leva - e trova poi nello slogan di Lotta continua “Prendiamoci la città” la sua sintesi più efficace.

Sono tanti i fattori che determinano la specificità italiana e la lunga durata di un ciclo di lotte iniziato con la rivolta antifascista di Genova del 1960 e terminato con la grande sconfitta operaia di Mirafiori del 1980.Pesano in particolare la complessità della situazione politica, il ritardo nella costruzione dello Stato sociale, il riformismo mancato del centrosinistra, il divario fra Nord e Sud, lo squilibrio crescente tra dinamismo economico e rigidità del sistema politico-istituzionale. Con gli anni Sessanta inizia un ciclo di lotte e dibattiti, che trova nel biennio '68-'69 il momento apicale e di snodo per continuare poi per tutto il decennio successivo compresi i cosiddetti “anni di piombo” dell'eversione nera e del terrorismo di sinistra.

Ricostruire gli avvenimenti di quel biennio e di ciò che seguirà comporta dunque preliminarmente la necessità di confrontarsi anche con il decennio che lo precede e lo prepara, a partire dalla considerazione che più che di una cultura del '68 occorre parlare di una pluralità di culture frutto della complessità e della molteplicità delle tendenze in atto.

(Giorgio Amico, Le culture del Sessantotto, 1)

mercoledì 24 ottobre 2018

Il '68 delle ragazze


martedì 23 ottobre 2018

Donne nel Sessantotto




Oggi alla Biblioteca Universitaria di Genova
Via Balbi 40

alle ore 17.00
Presentazione del volume:

Donne nel Sessantotto

a cura di P. Cioni, E. Di Caro, P. Gaglianone, C. Galimberti, L. Levi, D. Maraini, M.S. Palieri, L.L. Sabbadini, F. Sancin, C. Di San Marzano, M. Serri, C. Valentini

Introduce
Oriana Cartaregia, Biblioteca Universitaria di Genova

Intervengono con Cristiana Di San Marzano
Silvia Neonato, giornalista
Virginia Nirii, Associazione per un archivio dei movimenti a Genova e Liguria

lunedì 22 ottobre 2018

sabato 20 ottobre 2018

Leggi razziali del 1938. Gli elenchi della vergogna


Una grande mostra a Torino racconta come la città visse gli orrori della guerra e della persecuzione antiebraica. Da vedere.

Andrea Parodi

Leggi razziali del 1938. Gli elenchi della vergogna


Iniziarono dai bambini, elencandoli. Le date riportate sui documenti sono crudeli testimoni di un tempismo studiato a tavolino. Pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni, giusto in tempo per impedirgli l’accesso alle classi con i loro compagni ariani.

Cominciò così a Torino, dai più deboli, nell’agosto 1938, la compilazione delle «liste di prescrizione ebraiche». Fino al 1942 i dipendenti del Comune di Torino trascrissero a mano, aggiornandoli di continuo, tre grandi volumi con la copertina color amaranto. All’interno erano elencati nomi, indirizzi, dati personali. Dei bambini, ma soprattutto degli adulti. Sul frontespizio era riportato un titolo generico: «Rubrica Denunce appartenenza razza ebraica e discriminazioni». Di fatto era il crudo elenco con il quale il Comune divise i torinesi tra «noi» e «loro». Si trattava di 4.500 profili biografici su 700.000 abitanti, pari allo 0,65% della popolazione torinese.

Da lunedì - e per la prima volta - l’Archivio Storico della Città di Torino esporrà al pubblico, in una toccante mostra curata da Maura Baima, Luciana Manzo e Fulvio Peirone, la documentazione originale delle leggi razziali del 1938. Lo fa nell’ottantesimo anniversario dell’emanazione del provvedimento fascista ma, soprattutto, perché sono scaduti i termini di legge temporali per la loro diffusione pubblica. Il loro valore storico è importante soprattutto perché la documentazione storica della Comunità ebraica torinese non è completa. È andata perduta con il bombardamento della Seconda guerra mondiale del 20 novembre 1942, che danneggiò anche la sinagoga.

Le liste che arrivarono dalle singole scuole torinesi di ogni ordine e grado sono quelle che colpiscono di più. Vennero vergate a mano, con la calligrafia precisa di maestri e insegnanti. Compilarono obbedendo, escludendo i loro allievi dalla possibilità di istruirsi. Le liste giunsero alla «Divisione stato civile e statistica» del Comune di Torino. Contenevano l’elenco degli studenti che avevano richiesto di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Perché agnostici, perché valdesi, perché ebrei. Su quest’ultima informazione, una volta arrivata agli uffici comunali, scattava l’inserimento nella lista più terribile: quella dei volumi color amaranto.

Questi tre libroni, aperti e consultati per tutti gli anni della guerra dai gerarchi fascisti per procedere al loro allontanamento dalla vita civile, nonché fonte preziosissima dal 1943 per poterli catturare, sono adagiati in una vetrina e proposti al pubblico. Li ha sistemati qui Luciana Manzo, dedicando per mesi, con grande attenzione e cura, le ricerche nell’allestimento di una sezione che urla la più grande vergogna della storia d’Italia post unitaria. I tre volumi non si possono sfogliare, ma si possono leggere.

In questi «elenchi della vergogna» ci sono alcuni dei cognomi più famosi e influenti della Torino dell’epoca, nonché torinesi illustri: lo scrittore Primo Levi, la scienziata e premio Nobel Rita Levi Montalcini, il chirurgo fondatore dell’ospedale Cto Simone Teich Alasia, l’avvocato Bruno Segre, che proprio l’altro giorno, dall’alto dei suoi cento anni appena compiuti, l’ha sfogliato con emozione ritrovando il suo nome.

Un terribile grafico disegnato a mano con i colori nero e rosa illustra con pragmatica crudezza una metodologia per determinare il grado di purezza ebraica. Che è pari al 100% per gli appartenenti a famiglie ebraiche che risiedevano a Torino già nel 1845. Dal 17 novembre del 1938 quella lista divenne formalmente una prescrizione. Anche nel lavoro. Un documento datato 24 febbraio 1939 riportava le aziende torinesi che venivano depennate dall’elenco dei fornitori della civica amministrazione. Tra queste compariva la Ceat, fabbrica di cavi elettrici di proprietà dell’ebreo Virginio Tedeschi, il nonno di Valeria e Carla Bruni Tedeschi.

La mostra «Torino sotto attacco. Dalle leggi razziali alla Liberazione» rimarrà aperta dal 22 ottobre al 26 aprile 2019 all’Archivio Storico della Città di Torino (via Barbaroux, 32) con ingresso gratuito, dal lunedì al venerdì con orario 8,30-16,30. Sono previste aperture straordinarie il sabato con cadenza mensile.

La Stampa 20 ottobre 2018

venerdì 19 ottobre 2018

Il lungo '68



lunedì 29 ottobre 2018
alle ore 18.00
al Rock Cafe'
di via Mistrangelo 10r a Savona

Presentazione di

Il Lungo '68
di Marco Boato

sarà presente l'autore

Da leggere: Marino Magliani, Prima che te lo dicano altri



Dall'estremo Ponente ligure all'Argentina dei desaparecidos si snoda una storia terribile di amicizia e di morte che Marino Magliani ci racconta con una scrittura asciutta che va diretta al cuore. Da leggere.

Guido Festinese

L’uomo senza qualità nell’Argentina del rimosso

Ci sono scrittori di parole distillate come centri nevralgici attorno ai quali far ruotare uno spicchio di mondo e scrittori di trama, costruttori di congegni cogenti e privi di spigoli, che prendono per mano il lettore dall’incipit all’ultima frase. Difficile che esistano, nel mondo delle lettere, scrittori che abbiano alternativamente incarnato l’una o l’altra figura, e che, a un certo punto nella vita, riescano a mettere in una sorta di confronto dialettico la singola parola essenza, e la vertigine della trama che incatena alla pagina. Marino Magliani, singolare personaggio in bilico tra due mondi che non comunicano, l’Olanda delle dune affacciate sul Mare del Nord e l’entroterra ligure dell’estremo ponente calato nel buio umido dei paesi inchiavardati nel fondovalle ha riavvicinato le due sponde della scrittura.

Lo ha fatto con il nuovo libro, Prima che te lo dicano altri (Chiarelettere, pp. 336, euro 17.50). È un libro duro, a cominciare dal fatto che si misura con uno snodo rimosso e atroce del Novecento: la dittatura dei militari argentini.


La storia che travolge e stravolge le esistenze, quando se ne riprende il filo per ricomporre il mosaico del dolore familiare, non è necessariamente in mano a eroi belli e puri della memoria. Non tutti sono il giudice Garzón, che scoperchiò senza paura il verminaio delle torture e delle complicità occulte del generale Videla. Ci può essere anche un protagonista che è davvero «uomo senza qualità», con il peso aggravante del figurare come persona sgradevole, un omino che filtra la grettezza e il rancore di una provincia incupita nel poco pensiero su se stesso, nell’approccio strappato e misogino con le donne.

Qust'uomo è, nel racconto, Leo Vialetti. Cresciuto senza padre, goffo e impacciato, divenuto cacciatore e bracconiere spietato, il tutto in una credibile proiezione distopica del Ponente ligure che diventerà, di qui a tra pochi anni, una colata di cemento che soffoca le colline. Neppure questo importa a Leo. Gli importa, invece, ritrovare le tracce di quell’uomo argentino brillante che aveva tentato di insegnargli a vivere, da bambino, in una villa cadente, con la scusa di dargli ripetizioni.

NEL ’74 l’uomo, Raul Porti, fa ritorno in Argentina. E non tornerà più. Forse triturato nei denti affilati del congegno di morte dei militari golpisti con la complicità, delle gerarchie ecclesiastiche, di tanti uomini grigi come in realtà è grigio anche il ligure. Che andrà a cercare il presunto torturatore in Argentina, tanti anni dopo, mettendo in atto una gelida, indifferente, spaventosa vendetta da bracconiere in cui neppure il bersaglio invecchiato è quello giusto. Nessuno si salva, in questa epica cruda come i monti attorno a Dolcedo, resa con una lingua che restituisce e congela ogni fremito.

Il Manifesto – 16 ottobre 2018

giovedì 18 ottobre 2018

Le immagini parlano, perché pensiamo immagini e non parole…




Il 20 e 21 ottobre 2018 torna a Laigueglia Il Salto dell’acciuga: incontro sulle vie del sale, enogastronomia, laboratori, incontri letterari, mostre e spettacoli, proposte artistiche della Liguria e del Piemonte. Riprendiamo l'intervento di Giuliano Arnaldi che parteciperà all'evento con la Fondazione Tribaleglobale.

Giuliano Arnaldi

Le immagini parlano, perché pensiamo immagini e non parole…

Le immagini parlano, perché pensiamo immagini e non parole…è quindi spontaneo e immediato riconoscere e comunicare pensieri e sentimenti attraverso le immagini. Ciò accade sia in modo spontaneo sia in modo consapevole, attraverso i linguaggi dell’arte. Se volete verificare quanto questa affermazione sia scientificamente fondata leggete ciò che scrive Semir Zeki a proposito di arte e cervello…A differenza di una immagine casuale, un’opera d’arte è concepita proprio per evocare uno stato di coscienza , cioè per comunicare emozionando. Non penso esista la comunicazione asettica, obiettiva : ogni messaggio è elaborato da chi lo invia e da chi lo riceve, sia consapevolmente che a livello inconscio. Il grande equivoco dell’obiettività è uno dei limiti della nostra cultura, cosi tesa verso l’obiettivo di essere scientifica da dimenticare che la scienza senza l’uomo non è scienza..e se c’è l’uomo c’è tutta la sua profondità di campo, ci sono tutti i suoi sensi ( compreso il sesto…). Curiosamente il progresso scientifico, sempre più indirizzato verso la conoscenza del “piccolo”, dell’elemento originario, va di pari passo con l’irrompere nei linguaggi dell’arte di opere che non si guardano solamente, ma si toccano, si odorano, si sentono, si gustano..Aumenta anche - finalmente! - la compagnia di chi come noi rompe gli steccati della “scientificità“ ed espone insieme arte antica e contemporanea, arte occidentale ed extraeuropea…Sarebbe utile però che queste operazioni non rispondessero solo ad un sentimento estetico ( anche se è già un gran passo in avanti ) ma venissero indagate le motivazioni profonde del perché si percepisca autentica armonia in una esposizione “contaminata” da linguaggi artistici così diversi nei luoghi e nei tempi di provenienza.

Basterebbe Terenzio…«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»..ma se vogliamo andare oltre ci sono Jung e Fibonacci, Semir Zeki e Leibniz. Archetipi e bellezza dei numeri, Neuroestetica e metafore..Proviamo con questa serie di eventi a testimoniare concretamente questo concetto. Sotto i titolo “ le immagini parlano” presentiamo una serie di eventi diversi: mostre, conferenze, flash mob. Si svolgeranno in contesti diversi, sia ad Onzo che altrove.

In primo piano ci saranno opere antiche di tradizione occidentale, grazie alla collaborazione con l’Impresa Sociale Milanese “Di mano in Mano” . Non si tratta di una Azienda Antiquaria qualsiasi, e nemmeno della “solita” cooperativa buonista che campa di contributi. E’ una azienda che sta sul mercato, che produce reddito con grande professionalità in un settore difficile come l’antiquariato dando lavoro a decine di persone ( in difficoltà e non ) ma con una forte tensione ideale in ogni modalità operativa.

Per continuare lo schema del dialogo tipico di Tribaleglobale alle opere antiche saranno affiancate più discretamente opere di arte primaria: abbiamo scelto di porre al centro della scena il nostro linguaggio dell’arte per non smarrire la conoscenza del forte potere narrativo che essa aveva. La rappresentazione della serenità ieratica di una Madonna seicentesca evoca l’archetipo della Grande Madre come ancora oggi fanno le sculture Bambara, Ashanti od Oceaniche. La sofferenza di una Crocifissione usa lo stesso linguaggio di un Nkisi dei Kongo. E l’archetipo, appunto, si manifesta.

In questa serie di eventi cercheremo però di evidenziare i diversi elementi della narrazione e il loro uso evocativo: un veliero e un paesaggi, dialogano con una quieta Madonna che intercede attraverso un Angelo nel grande dipinto seicentesco che ha per titolo “La Madonna dei Marinai”, i volti intensi e comuni di Suonatori rappresentati nel dipinto di Giuseppe Bonito ( 1707/1789)…elementi alfabetici di quel linguaggio di immagini che parla dell’uomo, delle sue paure, delle sue speranze…



Questo percorso inizia con “ il Salto dell’acciuga” a Laigueglia, il 20 e 21 ottobre.

Lo spazio è suggestivo, il luogo ancora di più…Laigueglia è una delle perle rare del ponente ligure: bella, struggente e discreta..Ancora molto ligure ( tribale…) e insieme aperta al mondo globale… Thor Heyerdahl la amava profondamente e chissà che il suo Kon Tiki prima o poi non riappaia all’orizzonte… Difficile immaginare un luogo più adeguato per cercare di rappresentare, o meglio di evocare, l’antico alfabeto metaforico intriso di bellezza incardinato su immagini archetipiche che forse non conosciamo ma ri/conosciamo. E’ un alfabeto vero e proprio: il Prof.Emanuel Anati, archeologo raffinato ed innovatore, ha individuato 28 segni che appartengono a gran parte delle culture a partire dal neolitico. Semir Zeki, neuroscienziato, parla di neuroestetica..ma ciascuno di noi può semplicemente ruotare di novanta gradi questi segni presenti su ogni tastiera di computer : ) per ottenere un sorriso…e un’immagine che si trova da quarantamila anni ovunque qualcuno abbia voluto evocare uno stato d’animo felice…ecco l’archetipo che si manifesta, attraverso un segno…

L’evento è puntuale e fantasmagorico, a partire dal nome : il salto dell’acciuga. L’omonimo racconto di Nico Orengo evoca una Liguria senza tempo, che con la sua materia più semplice - l’acciuga, uno dei pesci più “poveri” che il mare ci offre- cementa relazioni e suggestioni via via più lontane, con una forza centrifuga che non si depotenzia nel suo agire, e non smarrisce l’origine. Una forza che agisce in modo orizzontale, creando connessioni e nodi …come la Rete..

Senza soluzione di continuità sugli schermi della Sanità Pubblica di Laigueglia potrete quindi vedere ed ascoltare in cuffia un intervento del Prof.Anati dal titolo Quarantamila anni di arte contemporanea, animazioni create con immagini di incisioni rupestri e sigilli sumeri, antichi tessuti africani ed oceanici e oggetti di sciamani nepalesi..Alcuni degli oggetti protagonisti delle azioni virtuali saranno fisicamente presenti, compreso un dipinto seicentesco che raffigura, anzi evoca, la Madonna protettrice dei marinai, perché anche noi occidentali abbiamo usato le immagini per parlare di ciò che siamo…e sarebbe utile non disperde quel patrimonio di memoria! Tutto sarà con/fuso, come la vita. A chi verrà a trovarci l’onere e l’onore di scegliere come orientarsi, perché come si dice in mare, senza fare un punto nave non si può fare un punto rotta…

domenica 14 ottobre 2018

Portella della Ginestra. Primo Maggio 1947



Lunedì 15 ottobre alle ore 18
presso la Libreria Ubik di Savona,
incontro con lo scrittore siciliano Mario Calivà
e presentazione del libro
Portella della Ginestra. Primo maggio 1947. Nove sopravvissuti raccontano la strage” (Navarra Editore).
Introduce Giorgio Amico

Il Primo maggio del 1947 duemila lavoratori del Palermitano, della zona di Piana degli Albanesi, di San Giuseppe Jato e di San Cipirello si riunirono a Portella della Ginestra per la Festa del Lavoro. Improvvisamente alcuni uomini, guidati dal bandito Salvatore Giuliano, spararono sulla folla, uccidendo dodici persone e ferendone più di trenta. È la strage di Portella della Ginestra, prima strage di Stato, evento spartiacque del dopoguerra che ha cambiato il corso della storia, da molti considerato il primo grande mistero dell'Italia repubblicana: mai sono stati accertati, infatti, il movente e i mandanti. Dell'eccidio di Portella della Ginestra si è scritto tanto, ma in questo lavoro di Mario Calivà parlano nove testimoni che hanno visto le vittime morire davanti ai propri occhi tra la folla festante. Un prezioso documento di storia orale che permette di andare al di là della storia ufficiale ed entrare nel vivo dei fatti, condividendo emozioni e riflessioni

mercoledì 10 ottobre 2018

Massoneria e Tradizione esoterica occidentale




Nata nella sua forma attuale nel 1717, la Massoneria conserva uno straordinario “giacimento” di simboli (biblici, gnostici, alchemici, astrologici) che la rende la principale (se addirittura non l'unica, come sosteneva René Guénon) rappresentante della tradizione esoterica occidentale. Se ne parlerà nel secondo incontro di Pillole per la mente

venerdì 12 ottobre, alle ore 21.00, 
nel Teatrino Mons. Bertolotti di Altare 

Massoneria e Tradizione esoterica occidentale
Visita virtuale ad un Tempio massonico



martedì 9 ottobre 2018

“Jà mai aquì, di nuovo qui”. L'Uvernada ritorna



Una grande festa occitana a Saluzzo. Da non perdere (e non solo per i Lou Dalfin)

Jà mai aquì, di nuovo qui”
L'Uvernada ritorna


Se c'è una festa che ha caratterizzato la rinascita musicale delle valli occitane, accompagnandola negli ultimi ventotto anni, è proprio questa: l'Uvernada. Nata come celebrazione annuale del gruppo da cui tutto è iniziato, omaggio alle migliaia di persone che hanno accompagnato e vissuto il percorso culturale e sociale di trasformazione/evoluzione della musica d'òc cisalpina, da semplice manifestazione folcloristica a fenomeno di massa, si è chiamata per anni “Festa de Lou Dalfin”, per cambiare nome nelle ultime sette edizioni. Il motivo è stato un gemellaggio con la grande kermesse estiva di Rodez, l'Estivada.

Tra spostamenti di sede e cambiamenti di formula il palco dell'Uvernada ha visto, in tutti questi anni, alternarsi i principali gruppi della musica occitana e tutta una serie di formazioni “contigue”, sempre davanti a un pubblico variegato, cresciuto e consolidatosi nel tempo. Da Massilia Sound System alla Talvera a Castanha e Vinòvel, passando per Modena City Ramblers, Africa Unite, Dubioza Kolektiv e una miriade di altri gruppi, i suoni più disparati hanno celebrato il rito di un incontro che vede nello spirito più vero e antico della cultura d'òc, fatto di inclusione e scambio, la propria ragione di essere.

L'edizione di quest'anno si basa sull'idea di incontro tra terre alte. Highlands d'òc, potremmo dire. Le nostre valli accolgono musicisti, liutai, ballerini, artigiani, amici dal massiccio centrale e dai Pirenei. Un triangolo magico che unisce le tre catene montuose più alte delle terre occitane.

Arriveranno gli oboi del Coserans, nel dipartimento dell'Ariège, le bourrées, le cornamuse, le ghironde d'Auvergne, i nostri sonadors di clarinetto e fisarmonica, la nostra polifonia, ma non solo, anche le lame e i coltelli delle Alpi d'òc, i libri, i formaggi del Forez, i margari, i liutai con gli organetti mitici delle Marche, le violas di Jenzat, i fifres e i galobets di Provenza”.

La nuova edizione di Uvernada inizia, prima ancora che con la musica, con alcune novità e la voglia di narrare la “tradizione delle Vallate occitane” attraverso diversi linguaggi: l’artigianato, la terra e il lavoro, il gusto. Per essere più presente e inserita nella città, quest’anno l'Uvernada si svolgerà in tre sedi diverse a Saluzzo: venerdì sera un momento di musica d'ascolto al Teatro Magda Olivero, sabato il grande concerto con Lou Dalfin al Pala CRS e domenica, dal mattino, festa in Piazza Cavour, per e con i saluzzesi. Senza dimenticare gli stage di danza del sabato pomeriggio e le animazioni al mercato del sabato mattina.




domenica 7 ottobre 2018

Lo specchio e l'ombra



IL LABORATORIO DI PITTURA DI SAN MARCELLINO presenta

LO SPECCHIO E L’OMBRA
Il volto umano fra identità e differenza

Mostra a cura di Lorenzo Penco e Sandro Ricaldone
Palazzo Nicolosio Lomellino (via Garibaldi 7, Genova)


INAUGURAZIONE GIOVEDÌ 11 OTTOBRE 2018 ORE 17,30

Marco Alloisio Monte, Roberto Anfossi, Alessandro Avanzi, Piero Mauro Bisogno, Beppe Dellepiane, Giuliano Galletta, Thomas Gori, Stefano Grondona, Marina Junyent Mercader, Giuseppe Limatola, Jane McAdam Freud, Giuliano Menegon, Carlo Merello, Carlo Montesello, Lorenzo Penco, Michele Ventricelli.

In vista dei Rolli Days – che si svolgeranno a Genova il 13 e 14 ottobre 2018 – a Palazzo Nicolosio Lomellino, uno dei Palazzi dei Rolli più affascinanti di via Garibaldi, venerdì 12 ottobre apre la mostra “Lo specchio e l’ombra, il volto umano fra identità e differenza”: un’esposizione di 26 opere di 16 artisti, di cui 8 partecipanti al laboratorio di pittura dell’Associazione San Marcellino. Ricerca artistica e accoglienza sono al centro dell’esposizione e delle tele nate nell’atelier dell’Associazione San Marcellino – che da oltre 70 anni si occupa della promozione della dignità umana nella città di Genova - con il contributo di artisti ospiti che in vari modi, accolti e accoglienti, hanno collaborato con il laboratorio, un luogo unico e straordinario dove il disagio viene combattuto, anche se non sempre sconfitto, con la forza dell’espressività. 

“La mostra propone artisti molto diversi tra loro. Da Mauro Bisogno alla giovane spagnola Marina Mercader, Michele Ventricelli e i maestri genovesi Beppe Dellepiane e Giuliano Menegon, ma anche l’inglese Jane McAdam Freud, figlia del pittore Lucian e pronipote del fondatore della psicoanalisi Sigmund, fino all’esordiente sedicenne Thomas Gori. – ha commentato Lorenzo Penco, curatore della mostra - Ad unirli il tema dell’autoritratto, la rappresentazione di sé, del proprio volto che si fa altro nell'immagine dello specchio o dell'ombra. Un tema noto, che in questa mostra si sviluppa in quello dell’incontro e dell’accoglienza, tra ricchezza-povertà, ospiti-ospitati, casa-strada, dentro-fuori, io-altro, accogliere-essere accolto.”

sabato 6 ottobre 2018

Ecologia della parola


venerdì 5 ottobre 2018

Genova, appunti sulla città


Teatro dell'Ortica
via Allende, 48, 16138 Genova

Rito, mito, simbolo. Introduzione all'esoterismo



Cosa c'entra Humphrey Bogart con l'esoterismo? William Shakespeare era un mago elisabettiano? Quali segreti nasconde la figura misteriosa del Rebis e perchè i templi massonici hanno per pavimento una scacchiera bianca e nera? Inizia questa sera presso il Teatrino Mons. Bertolotti di Altare la Quinta edizione di “Pillole per la mente”, occasione di riflessione su aspetti del nostro presente. Quest'anno il ciclo di incontri verterà interamente sul tema dell'esoterismo, parola misteriosa e carica di suggestioni non sempre positive.

Venerdì 5 ottobre alle ore 21,00
presso il Teatrino Mons. Bertolotti – Altare
Rito, mito, simbolo. Introduzione all'esoterismo
Condurrà la serata il prof. Giorgio Amico

Ogni anno, secondo il Codacons, tredici milioni di italiani si rivolgono a maghi e cartomanti, mentre non si contano i siti web dedicati all’occulto in tutte le sue forme comprese le più assurde e anche pericolose come il satanismo fai da te di certa sottocultura giovanile. Ma davvero l’esoterismo si riduce a questo bric-à-brac di presunti “misteri”, di oscuri complotti, di magie fatte in casa? Come chiarisce il dizionario etimologico Treccani per “Esoterismo” “in ambito filosofico e religioso, si dicono le dottrine e gli insegnamenti segreti, che non devono essere divulgati perché destinati a pochi”.

Dunque un sapere, filosofico e religioso, considerato tanto elevato da essere riservato ad una élite. Un sapere presente in tutta la storia dell’Occidente, dall’antichità classica ad oggi, strettamente intrecciato alla cultura ufficiale. Basti pensare ai legami fra astrologia, alchimia e scienza sperimentale (Galilei, Newton, Keplero) e fra magia rinascimentale e filosofia e letteratura (Giordano Bruno, Shakespeare) nel XVI e XVII secolo.

Di questi legami tratterrà la prima lezione (Mito, rito, simbolo), incentrata sul linguaggio dei simboli e sul rapporto tra mito e rito nel pensiero tradizionale, con riferimenti non solo alla filosofia e alla religione, ma anche alla letteratura, all’arte e alla psicoanalisi.

La seconda lezione (Massoneria e tradizione iniziatica occidentale) tratterà invece delle origini, della storia e delle idee di quella che dal medioevo resta la principale realtà esoterica dell’Occidente.

In sintesi: una scoperta per chi ha desiderio di conoscenza, forse una delusione per i cercatori di “segreti” e di sensazioni forti.