mercoledì 28 febbraio 2018

Francesco Petrarca, Maledetta tu sia Savona, città bellissima




Il 1348 è l'anno della peste nera, la grande epidemia che fa milioni di morti in tutta Europa. In un anno sparisce un terzo della popolazione del continente. A dicembre 1347 la pestilenza colpisce Nizza, a febbraio devasta Savona. Francesco Petrarca è in Italia, in missione diplomatica per conto della corte pontificia di Avignone. A Parma attende il nipote, Franceschino degli Albizzi che, partito dalla Provenza, deve riunirsi a lui. Ma improvvisa gli giunge la notizia che, colpito dal morbo, il giovane a lui così caro è morto a Savona. Distrutto dal dolore scrive di getto all'amico Fra Giovanni dell'Incisa una lettera in cui esprime tutta la sua sofferenza. E' l'11 aprile 1348.

Francesco Petrarca

Maledetta tu sia Savona, città bellissima

O malvagia ed iniqua Savona cagione a me di tanto affanno. Che di male imprecarti io potrei a quel che ti meriti ? Tu mi rapisti la metà dell' anima mia, troncasti inesorabile sul più bel flore la vita a giovane egregio, che di crescente virtù la irradiava, ed or su quel corpo che il mio Francesco abitava, la terra tua spietatamente si aggrava. Che quegli a tuo dispetto è fuggito, né su lui puoi tu nulla, ma solo il corpo suo e la mia speranza tieni sepolta. Ed io che ti dovrò augurare per questo?

Apransi e si distèndano a lungo quei colli che ora in giro ti cingono, sicché fatta spiaggia scoperta, indifesa, s' abbiano in te le navi stanza pericolosa e malsicura. Si sfracellino le muraglie e gli artefatti ripari da te opposti alla furia dei venti e dell'onde: e la violenza delle Sirtì, il furor dell' Euripo , la rabbia di Scilla, l'impeto di Cariddi, e tutti quanti sono nell'ampio mare i pericoli sul lido tuo si rovescino.

Scateni Eolo gli inquieti fratelli, e l'Austro, e gli altri soliti ad infestar le tue rive, lasciata in pace ogn' altra parte del mondo, tengano sollevata sopra te sola una perpetua procella.

Quanto di malanni e di morti per ogni terra ed ogni mare quest'anno pestifero ebbe diffuso, tutto si raccolga in te sola, e se altrove un anno, in te duri eterna la peste.

Dall'isola di Sardegna, e da ogni parte più impura del cielo, dai putridi stagni, dai laghi solfurei, dalle limacciose paludi sgombri e si parta l'aere più crasso ed infetto, e il gelo dell'artico polo, l'ardore dell'Etiopia, i serpenti dell'Africa, le tigri dell'Ircania, quanto in fine di letale, di mostruoso, di ferino per lo mondo intero si spande tutto da ogni angolo della terra si riunisca in te sola.

Su te le triste nebbie, le velenose sorgenti , i maligni influssi , e ghiaccio e fuoco incrudeliscano. Salvo infine e felice tutto il resto dell' universo, possa tu sola perire da cima a fondo, e divenire terra di morte, paese di paura e di terrore, dimora del lutto e della miseria: da te il peregrino, da te il mercadante, fuggan da ultimo gli stessi tuoi cittadini da te; e pauroso dalle vette de' monti abbattuta ti contempli il viandante, e trepido dall' alto mare ti riguardi il nocchiero, facendo forza di remi e di vele per evitare gl'infami tuoi scogli...

    La più antica rappresentazione di Savona

Ma dove il dolor mi trasporta? Ove sono, e che è questo ch'io dico? Mortale io stesso, faccio dei mortali destini tanto lamento, e maledico la terra innocente, che secondo suo diritto tutti riceve, mentre di me non so dove avverrà ch'io mi muoia , ed ove sarà che alla terra ritornino le ceneri mie? Sia dunque tregua ai gemiti e al pianto, e come meglio ad uom si conviene, preghiamo finché la vita ci duri pel caro fratello che si parti prima di noi.

E a te , città bellissima che nel tuo seno depositato quel mio tesoro custodisci , fatto senno alla fine io rendo grazie , perchè forse in barbara terra ei giacerebbe, se accolto in te tu non l'avessi. Che breve avesse ei la vita era volere dei fati; ma fu tuo dono che il dolce amico mio, comechè giovane, d'affanni stanco e di cure, sortisse in Italia la pace del sepolcro , conforto, per lieve che sia, da molti grandi personaggi desiderato.

Già di vederti io mi fui lieto e ti ammirai per l'amenità del tuo cielo, e della tua postura: or fatta custode di ceneri a me dilette, con una soavità mista di amarezza ti rivedrò più volentieri.


(Francesco Petrarca, Lettere, II, p. 220-221, Firenze 1864)

sabato 24 febbraio 2018

La ragazza che ero, la riconosco



24 febbraio 2018
alle ore 18,00
presso la Libreria Ubik
Corso Italia savona

Presentazione del libro
“La ragazza che ero, la riconosco. Schegge di autobiografie femministe”
a cura di Silvia Neonato.
Presentano Betti Briano e Nicola Stella.

Sono presenti le autrici: Maria Alacevich, Rossana Cirillo, Maria Pia Conte, Silvia Neonato, Giulia Richebuono, Giovanna Sissa

Genova, anni Settanta: molte donne, come in altre città italiane, partecipano al movimento femminista che riempie le piazze. Ma fanno contemporaneamente anche un lavoro più nascosto, riunendosi in collettivi nelle case e nelle sedi più o meno provvisorie che la politica povera della sinistra extraparlamentare poteva mettere a disposizione in quegli anni. Quel lavoro, vera e propria pratica politica definita “autocoscienza”, ha segnato la vita di tutte e l’eredità che le ragazze del ’68 lasciano alle donne venute dopo.

A quarant’anni di distanza, dieci protagoniste di quel collettivo femminista genovese si sono reincontrate, per provare a raccontare che cosa è successo nel frattempo a ciascuna di loro e al mondo. Questi frammenti di biografie femministe illuminano una stagione di forte impegno ancora troppo lacunosamente ricostruito, affondando nella storia personale di ognuna, nelle differenze di classe e collocazione, nelle reciproche relazioni e nelle vicende di una città, dal dopoguerra a oggi.


mercoledì 21 febbraio 2018

La violenza non è la risposta


Milano. Murales per Fausto e Iaio

La violenza non è la risposta


Dopo i fatti di Macerata, ieri a Palermo è stato aggredito e ferito sotto casa il segretario provinciale di Forza Nuova.
Ritorna il clima avvelenato degli anni di piombo.

Noi che quegli anni abbiamo vissuto e di quella storia fummo parte, abbiamo il dovere morale di trasmetterne il ricordo e la lezione: la violenza non è la risposta.

Tanti allora furono le vittime, da una parte e dall'altra. Non "fascisti" o "comunisti", ma giovani con un nome, un volto, un'età.

Nostri fratelli allora, nostri figli oggi.

Mariano Lupo, 22 anni, (Lotta Continua) accoltellato a Parma dai fascisti.
Carlo Falvella, 19 anni (MSI) accoltellato a Salerno da anarchici.
Virgilio Mattei, 22 anni (MSI) bruciato vivo a Roma da militanti di Potere Operaio
Stefano Mattei, 8 anni, morto con il fratello nel rogo della casa in cui abitava.
Sergio Ramelli, 19 anni (MSI) ucciso a sprangate a Milano da militanti di Avanguardia Operaia
Walter Rossi, 20 anni (Lotta Continua) assassinato a Roma durante un volantinaggio.
Vittorio Scialabba, 24 anni (Lotta continua) assassinato a Roma da militanti dei NAR.
Fausto Tinelli, 18 anni e Lorenzo “Iaio” Iannucci, 18 anni (Centro Sociale Leoncavallo), assassinati a Milano da estremisti di destra.

Il passato non deve tornare!
L'antifascismo non è squadrismo!




martedì 20 febbraio 2018

A-mare. Divagazioni musicali tra Matisse, Gaber e Céline




A.S.D Altrove
Via San Lorenzo 75R, 17100 Savona
24 febbraio 2018
ore 21.00

La Piccola Orchestra Invisibile

Teatro canzone tra monologhi e musica, un equilibrio fragile traminimalismo ed emozione.
Uno spettacolo che si muove in punta di piedi tra letteratura e canzone come i pesci rossi di Matisse, che guarda a Gaber e che legge Céline. Un ora alla ricerca di nuove domande, con accompagnamento musicale.

La Piccola Orchestra Invisibile è Luca AMICO.

Nato e cresciuto a Savona, ha circa 37 anni e tormenta chitarra e corde vocali da quando ne aveva 14.


lunedì 19 febbraio 2018

Gli anni del 68




GLI ANNI DEL 68 IN UN DOCUMENTARIO

Mercoledì 28 febbraio alle ore 20,30 al Teatro della Tosse, Sala Trionfo (piazza De Negri 6, Genova, ingresso libero) sarà proiettato il documentario “Gli anni del 68. Voci e carte dall’archivio dei movimenti”, realizzato da Giuliano Galletta e Marino Carmelo e prodotto dall’Associazione per un Archivio dei movimenti. A partire dalla grande mostra che si è tenuta al Palazzo Ducale di Genova nel febbraio 2017, il video racconta “il lungo 68” affiancando ai documenti – volantini, foto, manifesti, libri, riviste, opuscoli, filmati, oggetti ¬che erano esposti – una serie di interviste inedite a testimoni, storici di diverse generazioni, giornalisti, studenti. Un percorso che permette a chi non ha visitato la mostra di conoscerne i contenuti e di riviverne lo spirito. Il video dedica spazio anche al pubblico – la mostra ha avuto, in un solo mese, undicimila visitatori – che è stato assoluto protagonista dell’evento. La colonna sonora utilizza brani dell’Assemblea Musicale Teatrale.

L’Archivio dei movimenti di Genova (www.archviomovimenti.org), nato nel 2009, conserva, ordina e mette a disposizione del pubblico, presso la Biblioteca Civica Berio, materiali relativi alla stagione dei movimenti, svolge un’attività di raccolta di fonti orali e di ricerca sulle fonti in collaborazione con l’Università di Genova, promuove iniziative culturali (presentazioni di libri, convegni, incontri) ed editoriali e di produzioni video. In occasione della mostra è stato pubblicato il libro “Gli anni del 68. Voci e carte all’archivio dei movimenti” (Archimovi/Il Canneto editore) con quaranta contributi tra saggi e testimonianze; è in uscita un secondo libro che riproduce testi, didascalie e documenti così come sono stati esposti, oltre a una ricca galleria fotografica dell’evento e un’interessante selezione dei 1028 commenti scritti sul libro dei visitatori.

IL DOCUMENTARIO “GLI ANNI DEL 68. VOCI E CARTE DALL’ARCHIVIO DEI MOVIMENTI”

Regia di Giuliano Galletta, riprese e montaggio Marino Carmelo, riprese aggiuntive e foto Adel Oberto, Circolo 36° fotogramma, Piero Pastorino, Adriano Silingardi, Iose Varlese. Produzione Associazione per un Archivio dei movimenti, via Giovanni Torti 35, 16143 Genova. Durata 81 minuti.

https://www.youtube.com/watch?v=wcEZRLUcmgc&feature=share


domenica 18 febbraio 2018

Dante, viaggiatore in Liguria




Martedì, 20 febbraio 2018, alle 15.15 presso la Sala Polivalente (Biblioteca) di Quiliano nell'ambito dell'anno accademico 2017-2018 dell'UniSabazia

Settimo incontro del corso “Donne, maghi, poeti e marinai: aspetti insoliti della Liguria di Ponente”

Dante, viaggiatore in Liguria
Conversazione a cura di Giorgio Amico


Ahi genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

(Inferno, canto XXIII)

mercoledì 14 febbraio 2018

martedì 13 febbraio 2018

Guido Seborga 1990-2018



Laura Hess

Perchè non svanisca la memoria

Il 13 Febbraio 1990 moriva mio padre il ribelle, il giornalista, il letterato, il poeta, il pittore e lo voglio ricordare insieme a coloro che hanno conosciuto l'uomo e il suo messaggio di impegno e libertà.



“…riposare in pace
Con me stesso e gli uomini
La pace che fu rotta nella nostra adolescenza
Ma il ricordo spezzato è ancora forte nell'animo
E rinasce come il senso violento della morte
Che l'uomo crudele ha inferto all'uomo povero
Ma ora parlo anche dell'altra morte
Ora parlo della nostra morte umana
Parlo amici dell'ultima estrema libertà
Quella che spero non tradirà mai
Quella che adoro nel mio silenzio
Quella che ammiro nell'ultima luce
Quella che indovino nell'ombra spessa
Quella amici che offre all'uomo verità
E finalmente riposare in pace
Trovata l’estrema libertà”

(da: Se avessi una Canzone 1964)



I gatti preferiscono le donne. 14 artiste e i loro gatti





14 artiste e i loro gatti

Luciana Bertorelli, Laura Cepponi, Cecilia Cossetta, Giovanna Crescini,
Mihaela d’Amaro, Lia Franzia, Laura Macchia, Ingrid Mijich, Enrica Noceto,
Maria Carla Rossi, Laura Scappatura, Cristina Sosio, Rita Spirito, Elisa Traverso

lunedì 12 febbraio 2018

Il '68 in ritardo delle femministe genovesi



Un libro ripercorre le storie delle protagoniste di quegli anni

Donatella Alfonso

Il '68 in ritardo delle femministe genovesi

Francesca Dagnino, una delle fondatrici del piccolissimo “nucleo femminista” del manifesto genovese, racconta così la scoperta dell’essere donne e di quella che sarà la stagione del femminismo. Siamo già nel 1972, il ’68 delle donne arriva con maggior lentezza: ma arriva. Ed è stato un processo collettivo, come collettivi erano la scoperta della propria femminilità, il rifiuto del patriarcato e delle imposizioni, l’apertura a nuovi stili di vita in cui essere protagoniste. E collettivo è il libro curato da Silvia Neonato, giornalista e femminista genovese, “La ragazza che ero, la riconosco. Schegge di autobiografie femministe” ( Iacobelli editore) che sarà presentato mercoledì 14 alle 16.45 alla Biblioteca Universitaria.

Un ritratto collettivo, quindi: firmato da Maria Alacevich, Marta Baiardi, Rossana Cirillo, Maria Pia Conte, Marina Olivari, Giulia Richebuono, Giovanna Sissa. In copertina, una bella donna, ragazza di ieri per capelli bianchi, di oggi per il sorriso; Genova è lo sfondo delle gru del porto, lei, appoggiata a un’Ape rossa, ha un libro in mano. «Lei è una di noi e rappresenta la dinamicità, l’anticonformismo dell’andare su un’Ape, ad esempio.

Il titolo è tratto da un verso di Wyslawa Szymborska, e ci è sembrato appropriato — spiega Silvia neonato — Genova c’è profondamente, in queste testimonianze; anzi, vorrei dire che è stata forse la città in cui il movimento femminista è stato più interclassista che in altre realtà. Il Collettivo, dove sono girate almeno 400 donne, non è stato un luogo di ragazze borghesi e universitarie ».

« Nel Collettivo femminista trovavo un clima diverso, aperto, mi pareva ci fosse posto per tutto, questo scambio tra donne mi pareva che rendesse tutto possibile. Sì, io avrei potuto essere e fare qualunque cosa, il mio io si allargava senza trovare confini » , scrive Maria Pia Conte, allora studentessa di Medicina, poi psicoanalista e impegnata nell’ascolto alle donne in difficoltà. « In pochi anni ero passata dalla mia vecchia scuola di suore delle elementari — dalla gelida mentalità pre Concilio vaticano II — a uno spumeggiante ginnasio in pieno ‘ 68. Vivevo a cavallo fra gli amici scelti ancora da mia madre e l’universo in ebollizione del mio liceo classico, lo stesso di Fabrizio De André » , racconta Giovanna Sissa, studentessa di fisica e poi ricercatrice ed esperta di nuove tecnologie.

E ancora: « Noi ragazze non potevamo andare a scuola in pantaloni, ma portavamo minigonne vertiginose, l’importante era avere le calze, in qualunque stagione. Era d’obbligo la gonna, anche nei campi scout o nei giri in moto. Finché dopo una nevicata nell’inverno del 1970, siamo andate a scuola in pantaloni e nessuno è più riuscito a impedirci di indossarli: ora potevamo finalmente sederci al primo banco, senza temere gli sguardi di alcuni professori. Ho sempre odiato chi mi diceva cosa dovevo o cosa non potevo mettermi addosso: la libertà era certamente senza grembiule». Niente grembiule, i pantaloni come conquista.

Ma ben altre ne sarebbero arrivate, di conquiste, come capire il sesso, e parlarne. Scrive Giulia Richebuono, una vita da assistente sociale in fabbrica ma anche con le donne per l’applicazione della legge 194, quella sull’aborto, uno dei temi fondamentali delle donne negli anni Settanta. « Anch’io ho partecipato al gruppo di autocoscienza ed è così che ho cominciato a capirmi nella mia sessualità. Non c’era giudizio da parte delle altre. Ho cominciato a capire quanto ero repressa e sconosciuta a me stessa nelle mie fantasie e nella mia realtà sessuale. Buona parte delle mie pulsioni erano rimaste soffocate e sconosciute».

Ma prima di arrivare a questa consapevolezza bisogna farne di strada, come conferma l’esperienza di Marta Baiardi, che viene da una famiglia operaia, poi docente e storica: «Al liceo anch’io sono seria, forse solo repressa penso ora, ma sono serissima. Fino a vent’anni convivo con una sessualità asfittica. Il mio corpo è chiuso e imbozzolato, dall’accurata educazione ricevuta dalle donne di casa.

Il messaggio è chiarissimo: se vuoi essere autorevole, brava, importante e rispettata, devi fare come noi, la sessualità deve stare in fondo o meglio stare fuori dalla tua vita, la sessualità rende fragili, toglie potere, Puoi frequentare le sedi politiche degli estremisti, vai pure, distribuire i volantini all’alba, fare i picchetti davanti a scuola, vai pure. Stai nel Gos di Sampierdarena, diventi un’attivista degli studenti medi di Potere Operaio (solo la sera perché a giorno non ti fanno uscire) va bene. Puoi parlare in assemblea, anzi, devi, sennò cosa ci vai a fare, la scemetta? Ma le vasche in via Cantore, no, quelle sono per ragazze poco serie che vogliono ‘mettersi in vetrina’». Ne hanno fatto di strada, le ragazze.

« Pensavo — conclude Silvia Neonato — che quelle donne hanno viaggiato dal Canada al Pakistan, dalla Svizzera all’Australia e questo è veramente un taglio con il passato: le nostre madri andavano al massimo a Novi Ligure o a Venezia… ».

La Repubblica – 11 febbraio 2018

Pescatori di corallo liguri in Tunisia. Storia avventurosa dei Tabarchini



Martedì, 13 febbraio 2018, alle 15.15 presso la Sala Polivalente (Biblioteca) di Quiliano nell'ambito dell'anno accademico 2017-2018 dell'UniSabazia
Sesto incontro del corso “Donne, maghi, poeti e marinai: aspetti insoliti della Liguria di Ponente”

Pescatori di corallo liguri in Tunisia. Storia avventurosa dei Tabarchini
Conversazione a cura di Giorgio Amico


sabato 10 febbraio 2018

Sandro Ricaldone, L'avant-garde se rend pas



Finalmente disponibile l'ultimo lavoro di Sandro Ricaldone. Lo aspettavamo da tempo. Ne parleremo diffusamente in un prossimo futuro. Per ora ci limitiamo a qualche breve annotazione sull'opera e sull'autore.

Come spiega lo stesso autore nella Nota al testo, «la prima parte del volume è dedicata al movimento lettrista e alla sua diaspora (Poesia Sonora; Nouveau Réalisme). Fa seguito un nucleo di testi sul Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista (M.I.B.I.) e, marginalmente, sull’Internazionale Situazionista e sulle sue radici. Concludono la raccolta alcuni scritti che esaminano la vicenda di Fluxus. Il titolo riprende quello attribuito da Asger Jorn alla più celebre delle sue “Modifications”, realizzata nel 1962».

     Asger Jorn, L'avant-garde se rend pas (1962)

Sandro Ricaldone è nato nel 1951 a Genova, dove vive e lavora. Studioso delle avanguardie della seconda metà del XX Secolo (Cobra, Lettrismo, M.I.B.I., Fluxus), negli anni ’80 ha curato la pubblicazione di «Ocra», rivista dedicata a questo ambito. Ha organizzato e presentato mostre in Europa e negli Stati Uniti, fra le quali possono essere citate manifestazioni dedicate ad Hans Richter, Isou, Lemaître, Wolman, Dufrêne, Jorn, Simondo, Gallizio, Jacqueline De Jong e ad artisti Fluxus. Fra le sue pubblicazioni Dalla lettera al paradiso. Scritti sul Lettrismo e l’Internazionale Lettrista (Ocra press 2000), la La force de l'instabilité. L’aventure incomplète du Bauhaus Imaginiste nel volume collettivo Figures du Nèant (Art of this Century, 2005), Lettrismo e situazionismo (Edizioni Peccolo, Livorno 2006) e Piero Simondo: l’immagine imprevista (Il Canneto, 2011).



giovedì 8 febbraio 2018

Difendere le Alpi, sostenere le comunità locali



Il territorio di Pigna è uno dei più belli e incontaminati della Liguria. Oggi il progetto di una diga sul Rio Carne ne minaccia gli equilibri.
Le nostre Alpi vanno difese.
Le comunità, gli uomini e le donne delle vallate sono un presidio contro ogni tipo di speculazione.
L'informazione è la prima arma in questa battaglia.

mercoledì 7 febbraio 2018

Le origini dell'alpinismo in Liguria



Riceviamo e volentieri riprendiamo


Fulvio Scotto

In questo periodo l’amico Euro Montagna ha pubblicato la seconda edizione, riveduta ed ampliata, di un gran libro:

Le origini dell'alpinismo in Liguria

scritto insieme allo scomparso Giulio Gamberoni e uscito in prima edizione nel 2012.

Per questa seconda edizione Euro si è avvalso della determinante collaborazione di Gianluigi Baraldi.
Si tratta di una raccolta delle biografie dei maggiori alpinisti liguri dai pionieri dell’800 fino a quelli dell’epoca moderna antecedente la seconda guerra mondiale, precedute da una esaustiva introduzione storica. In totale una novantina di personaggi che vanno da Lorenzo Pareto, Arturo Issel, Emilio Questa, Lorenzo Bozano e tutti gli altri fino ai fratelli François e Romeo Salesi.
Opera enciclopedica di 320 pagine immancabile nella libreria di ogni alpinista delle Alpi sud occidentali.
Il costo, veramente irrisorio, è di 10 euro. Il volume è attualmente reperibile presso le sezioni CAI di Genova Bolzaneto, di Cuneo e di Rapallo. Diversamente si può contattare direttamente l’autore.
Il volume, che esce nel 70° anniversario della Sezione del CAI di Bolzaneto, ha il patrocinio del CAI Sezione Ligure e del Club Alpino Accademico Italiano.

Euro Montagna, alpinista "Accademico del CAI", può essere considerato la memoria storica dell’alpinismo ligure, sia per quanto riguarda le Alpi che per l’Appennino, fino alle Apuane comprese (ciò per dire che ha descritto ogni montagna, ogni colle e ogni vallone dal Colle della Maddalena alle Alpi Apuane in Toscana!). A lui va il grande merito di aver saputo documentare tutto questo attraverso un’infinità di scritti, articoli, monografie ecc, primi fra tutti i prestigiosi volumi della enciclopedica collana Guida dei Monti d’Italia CAI-TCI.

Alpi Liguri con Lorenzo Montaldo nel 1981
Alpi Marittime, volume uno (1984) e volume due (1990), sempre col Montaldo e con Francesco Salesi.
Alpi Apuane del 1979, coautori Angelo Nerli e Attilio Sabbadini.



martedì 6 febbraio 2018

La ragazza che ero, la riconosco




Mercoledì 14 febbraio
dalle ore 16:45 alle ore 19:00

Biblioteca Universitaria Di Genova
Via Balbi 40, 16126 Genova

La biblioteca in collaborazione con il Circolo di Scrittura Autobiografica Elisabeth Bing di Genova è lieta d'invitare alla presentazione del libro

La Ragazza che ero, la riconosco. Schegge di autobiografie femministe
Maria Alacevich, Marta Baiardi, Rossana Cirillo, Maria Pia Conte, Silvia Neonato, Marina Olivari, Giulia Richebuono, Giovanna Sissa

a cura di Silvia Neonato con i contributi di Elvira Boselli e Francesca Dagnino
(Pavona di Albano Laziale, Iacobellieditore, 2017)

Intervengono
Oriana Cartaregia
Luca Borzani
Donatella Alfonso
Marta Baiardi

ONZO DIALOGANTE: Maschere in Palma di Filippo Biagioli / Maschere tradizionali da Nepal e Oceania




ONZO DIALOGANTE: Maschere in Palma di Filippo Biagioli / Maschere tradizionali da Nepal e Oceania


Proseguono i dialoghi tra opere d’arte nella Casa degli Artisti di Onzo, presso i locali della ex Canonica in via Capitolo 8. Dall’11 al 25 febbraio saranno esposte Maschere in legno di palma realizzate dall’artista toscano Filippo Biagioli in un dialogo con antiche maschere tradizionali provenienti da Oceania e Nepal.

La mostra è visitabile su appuntamento chiamando il n. 3348559850, scrivendo a fondazionetribaleglobale@gmail.com o a https://www.facebook.com/tribaleglobale/ ed è corredata da un catalogo con schede e testi in italiano e in inglese scaricabile gratuitamente cliccando su




L'uomo è poco se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità. ( Oscar Wilde )


“L’esposizione parte da questo celebre aforisma “- dice Giuliano Arnaldi, curatore della mostra per Fondazione Tribaleglobale - “ La maschera, in ogni cultura, rivela un se interiore profondo e in qualche modo “altro”, una intima appartenenza a qualcosa di più grande. Da sempre essa svolge una funzione di transfer, libera l’essere umano dalla sua condizione contingente e gli consente una libertà inimmaginabile per il comune mortale.

Non dobbiamo dimenticare le origini antiche e serissime di ciò che noi chiamiamo Carnevale: la storia stessa delle diverse Maschere della Commedia dell’Arte più conosciute merita una lettura più approfondita. In questa esposizione il dialogo avviene però tra una serie di opere realizzate da Biagioli in un materiale “difficile” come il legno di palma e maschere in altre fibre vegetali provenienti prevalentemente da Nepal e Papua Nuova Guinea, usate in riti legati prevalentemente alla agricoltura. Le caratterizzano materiali impegnativi come fibre vegetali, metalli, terracotta, funghi..e sterco di Yak..ma anche in questo caso il risultato sorprende..”

lunedì 5 febbraio 2018

Chantar l'uvèrn a Pragelato




Sabato 10 febbraio
Pragelato - Borgata Rivet
Velhot
Spettacolo teatral-musicale
ore 21.00 - Museo del costume


Una serata di vecchie fiabe e racconti recitati in lingua e alternati a canti e musiche della tradizione franco provenzale e occitana.



Chantar l'uvèrn

Il 1 dicembre, a Salbertrand, ha preso il via l’undicesima edizione della rassegna “Chantar l'uvèrn - da Natale a Pasqua frammenti di lingua e cultura occitana, francoprovenzale e francese”: una stagione culturale che intende valorizzare creazioni originali, nel periodo invernale con l’obiettivo di promuovere attraverso un’animazione territoriale composta da eventi musicali, teatrali, antropologici, documentaristici ed ambientali la lingua e la cultura occitana, francoprovenzale e francese di cui i territori sono portatori.

Una rassegna culturale che spazia in 32 Comuni - comuni delle Aree Protette delle Alpi Cozie e comuni di area occitana, francoprovenzale e francese della Valle di Susa e della Val Sangone in rete per il progetto Legge 482/99: Avigliana, Bardonecchia, Bussoleno, Caprie, Cesana Torinese, Chianocco, Chiomonte, Coazze, Condove, Exilles, Fenestrelle, Giaglione, Giaveno, Mattie, Meana di Susa, Mompantero, Moncenisio, Novalesa, Oulx, Pragelato, Roure, Rubiana, Salbertrand, San Giorio, Sant’Antonino di Susa, Sauze di Cesana, Sauze d’Oulx, Susa, Usseaux, Vaie, Valgioie, Villar Focchiardo.

La Rassegna è curata dall’Ente di gestione delle aree protette delle Alpi Cozie e dalla Chambra d’oc in collaborazione con la Città Metropolitana di Torino, il Centro Documentazione Memoria Orale di Giaglione, l’Ecomuseo Colombano Romean e il Consorzio Forestale Alta Valle Susa.

Chantar l'uvèrn nasce nel 2006, all’interno del progetto celebrativo della lingua occitana, denominato Occitan lenga Olimpica e cresce negli anni grazie all’impegno di una rete di enti e associazioni che ci credono fermamente.

Fino al mese di marzo, si susseguirà un alternarsi e incrociarsi di iniziative che ci piace sottolineare traggono la loro forza dai territori e dalle persone che li abitano. Artisti, cineasti, documentaristi, antropologi, operatori culturali delle valli occitane e francoprovenzali della Regione Piemonte entrano in scena con le loro creazioni originali e le portano nei paesi, grandi o piccoli che siano, dal piccolo e sperduto Ferrera Moncenisio a Susa… e lo fanno nel periodo più scomodo e disagevole, l’inverno che corrisponde al momento in cui la gente del luogo ha un po’ più di tempo da dedicare a se stessa.

Il calendario delle proposte dettagliate di “Chantar l’uvèrn - da Natale a Pasqua 2017-2018: frammenti di lingua e cultura occitana, francoprovenzale e francese” che ci accompagnerà per tutta la stagione invernale sui siti






sabato 3 febbraio 2018

Pirati barbareschi e Madonne miracolose



Martedì, 6 febbraio 2018, alle 15.15 presso la Sala Polivalente (Biblioteca) di Quiliano nell'ambito dell'anno accademico 2017-2018 dell'UniSabazia
Quinto incontro del corso “Donne, maghi, poeti e marinai: aspetti insoliti della Liguria di Ponente”

Pirati barbareschi e Madonne miracolose
Conversazione a cura di Giorgio Amico





Creazione e anarchia



Nel suo ultimo libro Giorgio Agamben elabora i fondamenti di una sorta di archeologia filosofica che ricostruisce la genealogia dei rapporti fra cultura e potere.

Antonio Gnoli

L'enigma di Agamben tra logos e potere

Nel nuovo libro di Giorgio Agamben — Creazione e anarchia (edito da Neri Pozza) — troviamo questa frase: «Nella filosofia come nell'arte non possiamo concludere un'opera, possiamo solo abbandonarla». Qui "abbandono" crediamo va inteso come rinuncia a un potere concettuale, a una forma di dominio esclusivo che è poi quello che nel corso dei secoli ha tentato di imporre la filosofia. È possibile una tale forma di rinuncia? Lo è a patto che si riscoprano una serie di concetti che nella nostra storia hanno avuto un ruolo minore.

Termini come "povertà", "resistenza", "inoperosità", "debito" servono ad Agamben per forzare il dispositivo utilitarista e calcolante del pensiero contemporaneo. Da questo punto di vista, Creazione e anarchia ricorre costantemente all'interrogazione, pratica che la filosofia da Socrate in poi ha spesso adottato e che il '900 ha messo in crisi per l'incapacità (o impossibilità) di trovare un fondamento alle proprie risposte. Come conservare dunque la forza maieutica del domandare?

Le domande che Agamben formula nei suoi cinque saggi (Che cos'è un'opera d'arte? Che cos'è l'atto del creare? Che cos'è il contemporaneo? Che cos'è un comando? Che cos'è una religione, in particolare il cristianesimo, al tempo del capitalismo?) non esigono risposte definitive come quelle che cercavano Platone e Aristotele. Esse richiedono un diverso tipo di impegno che somiglia allo scavo archeologico.

«L'archeologia è la sola via d'accesso al presente», ci dice l'autore. Archeologia viene da arché e significa tanto "origine", "principio", quanto "comando", "ordine". La figura dell'arconte, nel mondo politico dell'antica Grecia, era quella di chi essendo primo era altresì investito del ruolo del comando. Ricostruendo la genealogia del comando, Agamben mostra come l'ontologia occidentale presenti fin dall'inizio un duplice volto. Da un lato, essa è logos, cioè discorso logico e assertivo; dall'altro, riflette la natura del comando. A quest'ultimo appartengono la religione e il diritto; mentre la filosofia ricorre soprattutto al logos. Se il logos è argomentazione persuasiva, cioè ragione, il comando si esprime nella potenza vera, cioè nella forza.

Ma fino a che punto è lecito che la potenza dispieghi interamente la sua forza? La teologia medievale provò a stabilire il significato da dare all'onnipotenza divina. L'assioma "Dio può fare tutto" conteneva un lato scandaloso, perché in quel tutto si celava anche la possibilità di mentire e di fare il male. Si giunse dunque alla conclusione che occorresse qualche dispositivo capace di imbrigliare il lato oscuro della forza.

La disputa fu molto accesa e la soluzione venne trovata nell'idea che Dio non può fare che ciò che ha deciso di fare. Anche l'onnipotenza divina doveva sottostare al principio di non contraddizione - cioè alla struttura del logos - se si voleva porre un limite al caos e alla ingovernabilità del mondo. La nascita della teologia politica ha qui una delle sue più chiare giustificazioni: come governare il mondo e al tempo stesso imbrigliare la potenza di chi ne detiene la forza?

Fu un interrogativo al quale la democrazia, da Montesquieu in poi, ha cercato una risposta convincente. Ma senza riuscirci o riuscendoci soltanto in parte. Mai come in questo momento, fa notare Agamben, l'ontologia del comando ha soppiantato l'ontologia del logos. È come se, per usare il linguaggio degli psicoanalisti ci sia il "ritorno del represso". Il discorso della forza che sembrava essere stato relegato a un uso secondario impone, dunque, i suoi "argomenti".

Religione, magia, diritto, conclude Agamben, respinti per lungo tempo nell'ombra, governano segretamente il funzionamento delle nostre società che si vogliono laiche e secolarizzate

La Repubblica – 4 gennaio 2018

Isaak Babel' e la Pietrogrado del 1918



Pubblicati gli articoli che Isaac Babel' pubblicò nel 1918 sul giornale di Gorkij, vicino ai bolscevichi ma critico degli atteggiamenti intolleranti e dispotici che già si manifestavano nei primi mesi della rivoluzione. Ne esce un quadro drammatico, ma umanissimo di un paese in tempesta e un'attenzione compassionevole verso gli ultimi che Babel aveva preso da Cechov. Autore soprattutto di racconti, Babel fu ridotto al silenzio in epoca staliniana e poi fucilato come spia trotskista.

Riccardo De Gennaro

Babel’, macabro e pietas a Pietrogrado dopo la Rivoluzione

«E’ ormai assolutamente chiaro che lei, caro signore, non sa proprio niente, ma riesce a indovinare molte cose. Sarà bene, quindi, che se ne vada un po’ tra la gente». Queste le parole con le quali l’autorevole e celebrato Maksim Gor’kij congedò il giovane Isaak Babel’ dopo due ore di colloquio, «due ore indimenticabili – scrisse poi Babel’ – che decisero il mio destino di scrittore».

Era il 1917, Babel’ si arruola volontario nell’esercito russo e viene assegnato a una divisione di artiglieria che opera sul fronte rumeno. L’anno successivo, colpito dalla malaria, fa ritorno a Odessa, la sua città. Una volta guarito, parte per Kiev e, attraverso un viaggio avventuroso, raggiunge Pietrogrado, dove incontra nuovamente Gor’kij, il quale lo manda, appunto, «tra la gente» e gli offre una collaborazione al suo giornale,Vita nuova, che è su posizioni mensceviche.

Babel’ produce diciassette articoli giornalistici sulla vita quotidiana a Pietrogrado e gli effetti della rivoluzione, raccolti ora in un volumetto sotto il titolo Cronache dell’anno 1918 (Skira «Nota d’autore», pp. 91, € 13,00), unitamente a tre altre corrispondenze uscite su rivista (gli stessi articoli sono stati pubblicati trentotto anni fa da Garzanti nella raccolta Il sangue e l’inchiostro, un volume ormai introvabile).

Cronache è la definizione esatta. Che cosa fa Babel’? Prende a girare per la città, entra negli uffici pubblici, nelle carceri, nei pronto soccorso, nelle assemblee dei disoccupati, va al Commissariato per l’assistenza sociale o all’Ospizio per soldati ciechi e racconta, esclusivamente, senza commenti né retorica, ciò che vede: «Sulla targhetta è scritto: ‘Ospizio per soldati ciechi’. Ho suonato all’alta porta di quercia. Nessuno ha risposto. La porta era aperta. Sono entrato ed ecco quello che ho visto».



Il suo stile è asciutto, essenziale, fotografico, come si conviene alla rivista del suo «maestro». Sarà poi con L’Armata a cavallo e i Racconti di Odessa che Babel’ lo arricchirà di metafore, caricandolo di lirismo (per la prima volta, tre anni dopo, con «Il re», che aprirà il ciclo dei racconti odessiti).

Anche in queste cronache, tuttavia, c’è molto di quello che caratterizzerà il Babel’ più maturo, come l’orientamento al documentarismo, il ricorso alla lingua parlata, l’amore per il macabro, la pietas.

Nel ’18 Babel’ è ancora una «creatura» di Gor’kij, un attento e curioso osservatore della società e delle sue dinamiche, uno spirito anticlericale e antibolscevico allo stesso tempo.

«Oggi non esiste più ciò che un tempo si chiamava mattatoio di Pietrogrado. Nel cortile del macello non viene più portato un solo bue, un solo vitello», scrive Babel’ in una delle prime cronache. Ci trova solo cavalli e i loro macellatori, i tatari, perché «i nostri macellatori rimasti senza lavoro non hanno ancora potuto decidersi di abbattere i cavalli. Non ci riescono, gliene manca il cuore». Prima della rivoluzione si macellavano trenta-quaranta cavalli al giorno, ora ne arrivano quotidianamente cinque o seicento. I tatari pagano bene un cavallo, ma il boom della macellazione equina è dovuto alla mancanza di foraggio. Successivamente, a un pronto soccorso, Babel’ scopre che non ci sono ambulanze. Qui manca la benzina.

C’è un libro, uno solo: il registro dei rifiuti, ovvero l’elenco di tutti coloro che non si sono potuti soccorrere. Nella clinica dei bambini nati prematuramente, le nutrici sono poche (cinque per trenta lattanti) e hanno sempre meno latte, «un ulteriore, quasi impercettibile segno della nostra agonia».

La Casa della Maternità, invece, funziona ed è un’idea straordinaria, sottolinea Babel’. «Le donne – spiega – entreranno nel Palazzo all’ottavo mese di gravidanza. Trascorreranno l’ultimo mese e mezzo prima del parto in condizioni di tranquillità, sazietà, moderato lavoro. Non dovranno pagare niente. Mettere al mondo dei bambini è un tributo allo Stato». Si tratta di un’idea che «va realizzata fino in fondo» perché «prima o poi la rivoluzione va fatta».


Ed è questa la rivoluzione che Babel’ concepisce. Scrive: «Imbracciare il fucile e mettersi a sparare gli uni contro gli altri a volte può non essere uno sbaglio. Ma non è ancora una rivoluzione. Chissà forse non è affatto la rivoluzione».

Babel’ fu fucilato il 27 gennaio 1940 dopo un processo i cui capi di accusa erano tre: spionaggio, terrorismo e trockismo. Le sue ceneri furono tumulate in una fossa comune insieme a quelle del grande regista teatrale Vsevolod Mejerchol’d. Dove siano non si sa ancora oggi.

Durante il processo, tipico dell’epoca staliniana, ma in questo caso preceduto da una lunga istruttoria, Babel’ – che invano chiese fossero sentiti alcuni suoi amici, tra i quali Ehrenburg e Voronskij – proclamò: «Non sono colpevole. Non sono stato una spia. Non ho mai commesso reati contro l’Unione sovietica. Nelle mie deposizioni mi sono dichiarato colpevole. Ho accusato me stesso e altre persone perché costretto». Sembra di leggere un suo racconto.

Il Manifesto/Alias – 14 gennaio 2018

Lia Levi, come trasformare il ricordo in memoria




"Con la scomparsa degli ultimi testimoni, è l’elaborazione creativa a restare viva. Una cosa è il ricordo, un’altra è la memoria, che è elaborazione del ricordo. I fatti hanno bisogno di essere metabolizzati ed è lunga, ci si perde in vari strati. La coscienza è stratificazione. In più la realtà per manifestarsi ha bisogno dell’immaginazione, altrimenti rimane un fatto raccontato. La letteratura universalizza questi fatti". (Lia Levi, intervista a Il Fatto)

Mercoledì 7 febbraio ore 18 Libreria Ubik:
incontro con la scrittrice
LIA LEVI
e presentazione del libro
“Questa sera è già domani”
(Editore E/O)
Introduce Renata Barberis
A cura di ANED Associazione ex deportati e libreria Ubik


Una vicenda di disperazione e coraggio realmente accaduta, ma completamente reinventata, che attraverso il filtro delle misteriose pieghe dell’anima ci riporta a un tragico recente passato. Nel 1938 si riuniscono 32 Paesi per affrontare il problema degli ebrei in fuga da Germania e Austria. Molte belle parole ma in pratica nessuno li vuole. Una sorprendente analogia con il dramma dei rifugiati ai nostri giorni. Nello stesso anno 1938 vengono promulgate in Italia le infami Leggi Razziali. Come e con quali spinte interiori il singolo uomo reagisce ai colpi nefasti della Storia? Ci sarà qualcuno disposto a ribellarsi di fronte ai tanti spietati sbarramenti?

In questo nuovo emozionante romanzo che ha come protagonista una famiglia ebraica di Genova negli anni delle leggi razziali, Lia Levi torna ad affrontare con particolare tensione narrativa i temi ancora brucianti di un nostro tragico passato…

Scrittrice e giornalista, Lia Levi è autrice di molti libri per adulti e ragazzi per i quali ha ricevuto diversi premi. Di famiglia piemontese, si è trasferita a Roma da bambina, dove vive ancora oggi.

venerdì 2 febbraio 2018

Ežov, il carnefice usa e getta strumento e vittima di Stalin




Una biografia del funzionario che guidò l’apparato terroristico negli anni delle purghe e venne poi eliminato dal dittatore sovietico. Fu a sua volta condannato a morte con prove false, ma la Russia oggi ha rifiutato di riabilitarlo.


Sergio Romano

Ežov, il carnefice usa e getta strumento e vittima di Stalin


Uno storico americano racconta che Stalin, nel 1942, ricevette un grande regista, Sergej Ejzenštejn, e un grande attore, Nikolaj Cerkasov, che avevano appena terminato la prima parte di un film sullo zar Ivan il Terribile. Secondo le memorie di Cerkasov, il meraviglioso georgiano (come fu chiamato da Lenin) cominciò a riflettere sulla storia russa. Disse che Ivan il Terribile era stato un grande sovrano progressista, deciso a battersi per il bene e l’unità del Paese. Ma aggiunse che anche Ivan, purtroppo, non era stato «perfetto». Non aveva liquidato un numero sufficiente di oppositori (nei dieci anni della repressione le vittime furono «soltanto» quattromila). Aveva lasciato sopravvivere parecchi boiari che si sarebbero conteso il potere dopo la sua morte e avrebbero aperto le porte della Russia alle invasioni straniere.

Vi era in quelle parole un evidente autocompiacimento. Stalin infatti non aveva commesso lo stesso errore. In una trentina di mesi, pochi anni prima, il regime aveva fucilato più di 700 mila persone e ne aveva inviate altrettante in campi di detenzione dove il freddo, la fame e i lavori forzati avevano fatto a gara con i plotoni d’esecuzione per realizzare una delle più grandi «purghe» della storia umana.

Non vi sarebbe riuscito, tuttavia, se non avesse potuto contare sul migliore dei collaboratori possibili. Era un bolscevico della prima ora che aveva fatto soltanto studi elementari, era stato apprendista di sartoria ed elettrotecnico, aveva vestito l’uniforme dell’esercito zarista sino al 1917 e combattuto nell’Armata rossa durante la guerra civile. Ma aveva anche grandi capacità organizzative e aveva fatto una brillante carriera politica, sino a diventare, nel 1934, membro del Comitato centrale del Partito comunista dell’Urss. Si chiamava Nikolaj Ežov ed è passato alla storia con il discutibile merito di avere dato il suo nome a un intero periodo di storia sovietica, detto appunto Ežovscina.

Grazie all’apertura degli archivi di Mosca uno studioso russo, Aleksej Pavljukov, ne ha scrupolosamente ricostruito la vita e le gesta in una lunga biografia intitolata Le fonctionnaire de la Grande Terreur: Nikolaï Iejov (il nome del protagonista secondo la grafia francese), che è stata pubblicata in Francia nel 2017 dalle Éditions Gallimard.



Stalin era convinto di essere circondato da concorrenti ambiziosi — Grigorij Zinovev, Lev Trotsky, Nikolaj Bukharin — pronti a cospirare nell’ombra, anche con l’aiuto di potenze straniere, e che ciascuno di essi potesse contare su un grande seguito di complici, nascosti nella enorme macchina del partito. I venti di guerra che soffiavano nella seconda metà degli anni Trenta lo convinsero che i suoi nemici avrebbero approfittato di un conflitto per colpirlo alle spalle. Giustificò le sue ossessioni con la teoria del «nemico permanente»: in un rapporto al plenum del Comitato centrale sostenne che i successi del regime, anziché avvicinare la fine della lotta di classe, l’avrebbero resa ancora più aspra e violenta. Quanto più il regime avesse realizzato i suoi obiettivi, tanto più i suoi nemici avrebbero moltiplicato gli sforzi per abbatterlo.

Il disegno di Stalin prese corpo nel 1934, quando il primo segretario del Partito comunista di Leningrado, Sergej Kirov, fu ucciso da un giovane comunista nello Smolnyi (il «collegio zarista delle fanciulle», dove Lenin, nel novembre 1917, aveva preso la parola di fronte al Congresso panrusso dei soviet per annunciare la «prima rivoluzione socialista mondiale»). Non sapremo mai, probabilmente, quali fossero le reali motivazioni dell’assassino (qualcuno sospettò che il mandante fosse Stalin, ansioso di eliminare un potenziale concorrente). Sappiamo tuttavia che da quel momento il leader sovietico non si limitò a promuovere indagini. Il suo obiettivo era la sistematica eliminazione di tutti i suoi nemici, reali o presunti.

Anche Lenin nel 1918 era stato protagonista di una prima ondata di Terrore. Ma fra quello di Lenin e quello di Stalin, corre una importante differenza. Mentre il primo voleva eliminare chi avrebbe, a suo giudizio, ostacolato e sabotato il cammino dello Stato rivoluzionario, Stalin voleva sbarazzarsi di tutti coloro che, dall’interno del partito, avrebbero cercato di strappargli il potere. Mentre le vittime della Ceka di Lenin appartenevano alla nobiltà, alla borghesia, al clero e all’immenso mondo rurale della Russia zarista, le vittime di Stalin furono i suoi compagni di partito.


Al ministero degli Interni e alla polizia segreta ordinò di cercare i colpevoli fra gli amici di Zinoviev e Trotsky. E quando constatò che molti cekisti non condividevano i suoi sospetti, si servì sempre più frequentemente di Ežov, che nel settembre del 1936 sottopose al Politburo una risoluzione in cui era scritto, tra l’altro: «Occorre farla finita con le canaglie trotskiste-zinovieviste». Scrisse anche che sarebbe stato necessario «fucilare non meno di mille persone e condannare gli altri a otto o dieci anni di detenzione». Stalin approvò il testo, ma cancellò le cifre. Non voleva legarsi le mani fissando un numero che sarebbe stato, come sappiamo, immensamente superiore.

Per assecondare la sua strategia, Ežov, nella sua veste di ministro degli Interni, costruì una macchina perfetta in cui le vittime producevano vittime. Gli interrogatori, a cui spesso partecipava personalmente, erano sedute di tortura. Picchiati a sangue dai loro aguzzini, gli accusati cedevano, confessavano reati che non avevano commesso e cercavano di salvare la propria vita, o di regolare vecchi conti, trascinando con sé tutti coloro che Ežov voleva coinvolgere. Ogni confessione generava altri imputati e altre confessioni.

Sospettoso, diffidente e implacabilmente logico, Stalin non si limitò a eliminare i «nemici». Per cancellare le tracce più compromettenti di questo assassinio di massa e stroncare sul nascere le ambizioni di chi avrebbe potuto aspirare al potere, eliminò anche coloro che avevano obbedito ai suoi ordini, fra cui lo stesso ministro degli Interni. Come tutti quelli che lo avevano preceduto sul banco degli imputati, anche Ežov finì per confessare ciò che non aveva fatto. Le sue ultime parole nell’aula del tribunale furono: «Una sola cosa vi chiedo: fucilatemi tranquillamente senza farmi soffrire. Dite a Stalin che muoio con il suo nome sulle labbra». Evidentemente il comunismo non fu soltanto un progetto politico. Fu anche una fede religiosa e, come in tutte le religioni, cominciò a morire solo quando i fedeli smisero di credere.

Come scrive Pavljukov, nel «caso Ežov» vi è anche un interessante poscritto. Nel 1995, la figlia adottiva del ministro, Natalia Kajutina, indirizzò una lettera alla procura generale della Federazione russa per chiedere la riabilitazione del padre. Le confessioni gli erano state strappate con la tortura e nessuna delle accuse per cui era stato condannato aveva il benché minimo fondamento. Dopo avere lungamente esaminato tutti gli aspetti della questione, i magistrati della procura mandarono gli atti al Collegio militare della Corte Suprema dove i giudici ricordarono anzitutto che la legge sulla riabilitazione serviva a indennizzare moralmente le vittime della repressione. Ežov, pur essendo vittima, era stato anche e soprattutto persecutore e non poteva quindi essere riabilitato. Sotto un profilo strettamente giuridico la decisione del collegio poteva essere contestata. Sotto un profilo storico e morale era impeccabile.

Il Corriere della sera – 21 gennaio 2018

giovedì 1 febbraio 2018

Se il golpe di Cesare assomiglia al patto del Nazzareno



Uno storico ricostruisce il “golpe” con cui Giulio Cesare si impadronì della Repubblica romana. Ne esce l'immagine di una società in crisi, dove la spregiudicatezza regna sovrana e le questioni pubbliche si regolano all'interno dei palazzi privati. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.

Carlo Franco

Quel dado tratto da Cesare: storia e anatomia di un istante

Che cosa è accaduto davvero verso l’11 gennaio del 49 a.C. sulla sponda di un torrente in Romagna? Un autorevole politico e militare che passa un confine con le proprie truppe, che si mette contro la legalità, che forse pronuncia parole poi divenute famose, vista l’eccezionalità del momento. Molti hanno parlato di Cesare e del giorno in cui passò il Rubicone. Su questo evento cruciale torna a ragionare Luca Fezzi, docente di storia romana a Padova, per illuminare dettagli e per chiarire contesti (Il dado è tratto Cesare e la resa di Roma, Laterza «i Robinson / Letture», pp. 375, € 22,00).

C’è dell’altro infatti, oltre la famosa frase attribuita al protagonista per esprimere l’incertezza del passo da compiere. Il sottotitolo mette utilmente sulla via: al centro dell’indagine stanno la scelta di Pompeo di abbandonare Roma e la successiva «resa» della città all’esercito di Cesare. L’azione sul Rubicone fornisce un «fermo immagine». A partire da quelle ore fatali il libro racconta l’agonia della res publica romana. Il gesto dirompente di Cesare è lo snodo del libro: lo si esamina come punto di arrivo di una lunga crisi, analizzata negli antefatti e delineata nel seguito.

L’operazione ricorda quella di Javier Cercas per un momento chiave della storia di Spagna: Fezzi ci propone la «anatomia di un istante», disegnando il contesto, gli attori, gli sviluppi. E iniziando dalle fonti: come d’uso negli studi sul mondo antico, ogni notizia è valutata attentamente. Dei Commentarii di Cesare (che del passaggio del Rubicone non parlano) si osserva che sono «ideologicamente orientati e spesso fattualmente menzogneri»: obiettivi per i quali giova appunto anche la reticenza. E poi le lettere di Cicerone, preziosissime per i dettagli e perché restituiscono la percezione contemporanea di eventi ancora in continua evoluzione. Cicerone, che non era ingenuo né incompetente, fu spesso in difficoltà nel comprendere quanto gli accadeva intorno.

Dal passaggio del Rubicone derivò una guerra civile, durata fino al marzo del 45 a.C. Il libro ne evoca con molto dettaglio le radici, inquadrandole da lontano. Un complicato intreccio di relazioni personali, interessi, denaro, scandali, omicidi politici, ambizione e corruzione aveva investito la politica romana almeno dall’inizio del secolo. Forti turbolenze e crisi conclamate (note quelle scatenate in modi diversi da Catilina, poi da Clodio) schiantarono l’oligarchia senatoria. Cruenti conflitti condussero al governo di singoli capi, poi alla dittatura, infine all’impero.



Ben prima dell’illegale gesto di Cesare, le istituzioni romane avevano subito negli anni, sotto i colpi della lotta politica, gravi stravolgimenti. Anche la massa popolare era stata coinvolta, non certo da spettatrice, nelle lotte tra fazioni. Fezzi mette in adeguata luce i rovinosi personalismi dei protagonisti politici. Le ascese dei Cesari, piccoli o grandi, suscitano sempre diffidenza, perché sono minacciose, in ogni epoca. E per quanto Cesare non sia un personaggio «simpatico», è però difficile aver rimpianto per la res publica che egli voleva dominare: rimpianto per il mondo degli aristocratici senza scrupoli e dei demagoghi spregiudicati, dei manovratori di masse popolari e di eserciti. Il mondo che appunto fu sconfitto dal «dittatore democratico», e poi liquidato dalla «rivoluzione» augustea.

Cesare entrò a Roma, «città aperta», a fine marzo del 49, dopo aver occupato le Marche, ed essersi spinto fino a Brindisi. A metà gennaio, pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità, Pompeo aveva ordinato ai senatori e ai consoli di abbandonare la città. «Atto inaudito sino a quel momento», scrisse Cesare. Fu infatti una scelta senza precedenti. Altre crisi avevano portato armi (anche romane) alle porte della città: ma sempre Roma era stata difesa. Invece Pompeo e i suoi avevano addirittura abbandonato l’Italia, e lasciato la città nel caos, in sgomenta e preoccupata attesa (e questo evoca un altro abbandono: settembre 1943…).

La scelta compromise la legittimità della fazione pompeiana. Esempi del passato furono scomodati per demonizzare gli avversari (calava un nuovo Annibale, minacciavano ancora Roma i Galli invasori) e per legittimare la ritirata (anche gli ateniesi lasciarono la città di fronte ai persiani, e vinsero; e secondo un detto greco, la città sono gli uomini, non le mura). Dallo storico greco Cassio Dione si ricava la spiegazione più credibile di quel fatto incredibile: l’avanzata di Cesare in Italia (in aree di lealtà pompeiana!) era stata incontenibile. Pompeo temeva che anche Roma, di fronte a un assalto (un assedio?) avrebbe aperto le porte all’avversario. Quella resa sarebbe stata fatale. Di fatto, Pompeo risparmiò a Roma e all’Italia la violenza della guerra, che fu combattuta duramente in Spagna e in Africa.

Il racconto sobrio di Fezzi presenta i protagonisti della guerra civile romana in modo equilibrato, con rigorosa analisi, senza enfasi o moralismi (e anche senza le taglienti sententiae alla Syme, che talora finiscono per concedere troppo all’effetto). Il giudizio storico o politico è fermo: non vengono proposti né eroi esaltanti, né mostri detestabili. Il libro non ispira favore verso le due parti in lotta: il lettore si fa però un proprio giudizio. Fezzi mostra bene quanto dominassero confusione, incertezza e opportunismo.

    Rimini, Cippo di Cesare

Il console emerito Cicerone ebbe in quei mesi delle inquietanti (e pur umane) doppiezze e debolezze. Dopo essersi lusingato perché «tutti e due» lo volevano dalla propria parte, dopo molti tentennamenti e una lunga neutralità, si schierò con Pompeo. Partecipò con poco entusiasmo alle operazioni di guerra, e si tirò indietro subito dopo la sconfitta di Farsalo, nell’agosto del 48. Si dispose ad aspettare il perdono di Cesare, che puntualmente gli venne accordato.

Tempo dopo, Cicerone ebbe ospite in villa proprio Cesare, e ne scrisse per lettera all’amico Attico, nel dicembre 45: «Che dire? Abbiamo mostrato che siamo uomini di mondo. Ma non è un ospite a cui diresti “Caro, torna anche domani”. Una volta basta. Niente di serious nella conversazione, molto literary criticism. Ma lo sai? Se l’è passata, la cosa è stata gradevole. Ha detto che si fermerà un giorno a Pozzuoli e uno a Baia. Eccoti il resoconto di una visita anzi billeting piuttosto sgradita, ma non fastidiosa». Queste righe vivaci, in cui al latino si alterna il greco, mostrano il sollievo per un impegno finito (alloggiare la scorta di Cesare), e per un test superato, Difficile cogliervi lo spirito del «repubblicano» che festeggerà, mesi dopo, il pugnale di Bruto; o l’anelito del paladino della libertà all’attacco di Antonio; o la pensosità del martire ucciso dagli scherani dei triumviri…

Il fatto politico mette in ombra i quesiti giuridici (quanto fosse giustificabile Cesare, quanto i suoi avversari, etc.). Non esce bene però nemmeno la victa causa (come avrebbe detto poi il «repubblicano» poeta Lucano), ossia la scelta che si rivelerà perdente di Pompeo. Se avesse vinto lui, non sarebbero venuti tempi piacevoli: qualcuno lo vide come un Silla «più subdolo, ma non migliore». E poi contavano anche i generali, i luogotenenti intorno al leader (la vera forza di Cesare, e di Bonaparte).

Troppi e gravi furono i cedimenti e i tradimenti degli ufficiali pompeiani, quelli che potevano fermare la marcia del nemico in Italia, e non lo fecero. Uomini che, stando a una famosa pagina cesariana, prima della battaglia decisiva litigarono sulle cariche da spartire dopo la vittoria: erano andati in guerra, dice Cesare, portandosi appresso l’argenteria… Davvero, non defensoribus istis si poteva salvare lo Stato. Anche per questo il dado lanciato da Cesare col passare il Rubicone fu vincente.

Il Manifesto/Alias – 21 gennaio 2018