TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 24 marzo 2023

Ulivi, streghe e Madonne consolatrici nella Liguria del Cinquecento

 



Un mito moderno: la civiltà degli olivi

Capita spesso di leggere di una millenaria civiltà ligure dell'olivo, addirittura “greca e fenicia”, in realtà siamo in presenza di un mito nato in epoca moderna. Certo, gli ulivi in Liguria ci sono da tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico da sempre. Ma la civiltà di cui vediamo i resti nella rete di muretti a secco che ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea di oliveti che sommergono le nostre vallate, quella no, non è millenaria, i Fenici e i Greci non c'entrano molto. E neppure i Benedettini, così tante volte citati a sproposito.

Quella degli oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che in Liguria si presenta fin dal Quattrocento sotto il segno di un capitale mercantile che cerca nel ritorno alla terra una possibilità di valorizzazione che la crisi del commercio mediterraneo, causata dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e dal controllo turco del Levante, non offre più. Processi ben descritti da Massimo Quaini nel suo studio sulla storia del paesaggio agrario in Liguria, apparso nei primi anni Settanta nella rivista della Società Ligure di Storia Patria.

La nascita dell'olivicultura in Liguria

Sulla base di una grande mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi del Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua. Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande monastero di Bobbio dove l'approvvigionamento d'olio per gli usi liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del Garda.

Perse le colonie d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le grandi famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e dall'altro tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle campagne ponentine totalmente inserita nel più generale processo di riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee così ben studiati da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo diventa “coltura esclusiva”.

Una società, basata sull'uso promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche del mercato. Un processo che non sarà indolore, ne deriverà la disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle vallate. Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi Marittime e Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”.

Il processo di Triora

Emblematico, si diceva, il caso di Triora. Negli anni 1585-1587 una grave carestia colpisce la Valle Argentina, conseguenza diretta del profondo cambiamento avvenuto nella valle nei decenni precedenti. Per evitare tumulti il Parlamento degli Anziani, espressione del notabilato triorese, imputa ciò che accade all'azione malefica delle streghe. A ottobre i due vicari mandati ad indagare dal vescovo di Albenga fanno apprestare le carceri e fanno arrestare una ventina di donne. Tutte sottoposte a tortura, confessano e denunciano altre donne, alcune di buona famiglia. A questo punto, spaventato dagli sviluppi non previsti, nel gennaio 1588 lo stesso Consiglio degli Anziani invia al governo della Repubblica di Genova una dura protesta contro gli inquisitori denunciando i labili indizi, la ferocia delle torture che hanno causato la morte di due donne, l'elevato numero delle donne incarcerate.

Il 21 gennaio il vicario vescovile manda un lungo rapporto a Genova: si difende dall'accusa di aver ecceduto nelle torture, dichiara che la morte delle due donne (una sotto tortura, l'altra per suicidio) era opera del diavolo, infine sostiene che “tutte nel loro primo exame senza altra minaccia di tormenti hanno confessato di aver fatto quella scellerata professione nelle mani del diavolo”

La tortura – continua il rapporto - durava solo un quarto d'ora, al massimo un'ora, il fuoco ai piedi dato solo a tre o quattro delle più irriducibili e “con misura”, a tre si dette la veglia per “Il dubbio che havevamo che quelle tali non havessero nell'altre sorte di tormenti qualche maleficio di taciturnità”

Ai primi maggio 1588 il padre inquisitore di Genova si reca personalmente a Triora. Interroga le donne che ritrattano (tutte meno una) le confessioni rese e denunciano la violenza delle torture subite.

L' 8 giugno arriva un commissario straordinario governativo che allarga le indagini, arresta alcune donne, le sottopone alla tortura del fuoco, ne individua infine quattro di Andagna che accusa di aver causato la morte e la malattia di fanciulli e bestiame, tempeste e grandine con distruzione delle vigne, oltre all'uccisione di due adulti, uno a Savona e l'altro a Finale.

Nuove denunce (una ventina) si aggiungono a Badalucco, Montalto ligure, Porto Maurizio e a Sanremo. Una donna, certa Luchina di Badalucco, muore sotto tortura. Significativo il verbale dell'accaduto steso dal Commissario Scribani:

et havendola ieri sera a 22 ore fatta porre al tormento del cavalletto se ne è morta, cosa certo che mi ha alterato assai et fatto restar molto stupido perchè essendo che in Triola delle donne assai più vecchie di lei et per quanto si poteva scorgere di più debole complessione sono state nel medesimo tormento chi 32 hore continue e chi 25 senza avere riportato pericolo di vita... io ho gran sospetto che da lei stessa si sia fatta qualche fattura col mezzo del diavolo per non havere causa...”

Il 22 luglio 1588 sempre lo Scribani condanna a morte le 4 donne di Andagna, citando contro la tesi difensiva che si tratti di sogni e illusioni, l'autorità del Malleus maleficarum, il testo guida degli inquisitori domenicani.

Di fronte a questi nuovi fatti le autorità locali si appellano di nuovo a Genova, facendo notare come il commissario non ha distinto tra delitti comuni e quello di “stregheria” riservato all'Inquisizione. Intanto cresce il numero delle condanne. Tre donne sono condannate a morte a Badalucco, Castelvittorio e Baiardo.

La protesta delle autorità locali determina la nascita di un conflitto di competenza tra magistratura civile e Inquisizione. In attesa di decidere a chi spetta l'onere del processo, nell'ottobre le donne arrestate sono trasferite a Genova.

Nel frattempo la pratica viene trasferita a Roma per un parere del Santo Uffizio. Il governo genovese vuole liberarsi da una causa diventata troppo ingombrante. Ma Roma prende tempo e così nel febbraio 1589 la Repubblica Serenissima preme sulla Congregazione della Fede a Roma perché, si legge, “dette fattucchiere si vanno consumando... che già tre di loro sono morte”

A maggio nuova pressione del governo genovese per accelerare la causa, visto che altre due donne sono morte nel frattempo.

Finalmente il 28 agosto si annuncia da Roma il termine della causa. Il Commissario genovese Scribani viene scomunicato per “essersi ingerito nelle cose pertinenti alla Sancta Inquisizione contro la disposizione de' sacri canoni”. Di fatto il processo viene sospeso. Misteriosa resta la sorte delle donne detenute a Genova. Nessun documento ne parla più. Qualcuno degli storici che si sono occupati della vicenda le da per morte, altri per liberate.

Un santuario in ogni vallata

Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni, all'abolizione dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con campagne di devozione e il richiamo alla fede.

Uno dopo l'altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una cinquantina tra cui quello di Savona, costruito dopo l'apparizione del 1536 e presto diventato, fino alla costruzione nell'Ottocento del santuario di Lourdes, il principale centro di devozione mariana della cristianità.

Valle dopo valle l'arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia. Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare.

Ulivi e pastori transumanti

Ma non muta solo il paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta l'atteggiamento verso i pastori transumanti, signori delle vie di crinale, questi si rappresentanti la vera civiltà millenaria della Liguria di Ponente, di cui si regolamenta in modo sempre più restrittivo il passaggio. Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis” causato dalle pecore e dalle capre.

Dopo secoli di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba” secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime che al tema della transumanza ha dedicato un libro bellissimo. Transumanza che comunque continuò fino ai primi anni del Novecento, spingendosi le greggi in inverno dalla terra brigasca alla costa in particolare nella zona di Bordighera e fino sulle pendici del Monte Mao fra Spotorno e Vado Ligure

Epilogo

Quello dell'olio fu un mercato in espansione per almeno due secoli. Nel giro di cinquant’anni, tra il Settecento e l’Ottocento, solo nella Valle di Oneglia vennero impiantate 250.000 nuove piante di olivo, destinate soprattutto ad alimentare la crescente produzione industriale di saponi nell'area di Marsiglia. Una vita felice tutto sommato breve, chè già dagli ultimi anni del Settecento il mercato è in crisi e fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno rigoglio, che precorre nelle argomentazioni molte tesi degli attuali critici di una economia fondata sulla monocultura in molte aree del Sud del mondo.

Ma quella della crisi della “civiltà degli ulivi”, per citare Boine che vi dedicò il suo scritto più famoso, come si suol dire, è un'altra storia che merita una trattazione specifica.


Giorgio Amico