TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 19 agosto 2011

Gianluca Paciucci, Erose forze d'Eros



Nell'ambito della rassegna di incontri con gli autori Un libro per l’estate, organizzata dalla Libreria Cento Fiori con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Finale Ligure,

sabato 20 agosto ore 21.00
piazzale Buraggi, Finale Ligure (SV)


verrà presentata la raccolta di versi

EROSE FORZE D'EROS

di Gianluca Paciucci

Roma, Infinito editore, 2009


Sarà presente l'autore che leggerà alcuni dei testi, accompagnato da Adriana Giacchetti alle percussioni e al canto.


Erose forze d'eros è una raccolta di versi concepiti e nati a Sarajevo, in uno dei cuori della multiforme e ferita Europa: di questa ferita portano il segno della spossatezza (che è l'esatto contrario della rassegnazione).

In attesa del momento in cui la verità abbandonerà il campo dei vincitori (Simone Weil), questi versi si aprono alla forza di tutti coloro che “la vittoria contestano e cercano di sabotare”.


mercoledì 17 agosto 2011

Laura Macchia, Dipinti e pensieri ceramici


venerdì 12 agosto 2011

Arnaut Daniel, poeta occitano



Giorgio Amico

Arnaut Daniel, poeta occitano



Ci sono poche notizie su Arnaut Daniel. Probabilmente nato verso il 1150 -1160 a Riberac , in Dordogna, proveniva da una famiglia della piccola nobiltà. "Fo gentils hom", si legge nella cronaca che parla di lui, e come molti dei figli cadetti destinato alla carriera ecclesiastica. Studiò dunque il latino e le lettere, ma in seguito a vicende che non conosciamo si dedicò interamente alla poesia, girando per le corti provenzali come trovatore, autore di versi elegantissimi e complessi (" e pres una maniera de trobar en caras rimas, per que soas chansons no son leus ad entendre ni ad aprendre").

Nonostante la fama, fu tra l'altro ospite alla corte di Riccardo Cuor di Leone, ebbe una vita difficile. E' lui stesso a dirlo in quella che è considerata una delle sue più belle composizioni

« Ieu sui Arnautz qu’amas l'aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna. »

(Io sono Arnaldo che raccolgo il vento /E col bue vado a caccia della lepre/E nuoto contro la marea montante)

Da un testo attribuito a un contemporaneo sappiamo che si ridusse in povertà a causa del gioco dei dadi. Da un altro che egli «amet una auta domna de Gascoingna, muiller d’En Guillem de Buovilla» (Amò una nobildonna della Guascogna, moglie di Guillem de Bouville), di cui non si sa nulla.

Inventore della sestina, esercitò una influenza fortissima sulla poesia del Duecento, dai poeti catalani Jordi de Sant Jordi, Andreu Febrer e Cerverí de Girona, a quelli italiani. A partire da Francesco Petrarca e Dante Alighieri.

Per Francesco Petrarca fu il più bravo di tutti, tanto da scrivere:

« Fra tutti il primo Arnaldo Daniello
gran maestro d'amor; ch’alla sua terra
Ancor fa onor col suo dir novo e bello. »

Giudizio ripreso nel secolo scorso da Ezra Pound che lo considerò il vero fondatore della poesia occidentale e tradusse in inglese i suoi versi.

Dante lo ammirò immensamente, tanto da citarlo più volte nel De Vulgari Eloquentia dove si fa spesso riferimento alla sua tecnica compositiva; e da dedicargli una pagina della Divina Commedia, collocandolo nella settima cornice del Purgatorio, quella dei lussuriosi, e per la sua vita e per i suoi versi che hanno cantato l'amore terreno e non quello del Cielo.

E' un altro poeta, Guido Guinizzelli a indicarlo a Dante riferendosi a lui come il migliore dei poeti che hanno scritto in volgare:

« O frate, - disse, - questi ch'io ti cerno
col dito, - e additò un spirto innanzi, -
fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e prose di romanzi
soverchiò tutti: e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi. »

(Purg. XXVI, 115-120)

E, quando Dante gli chiede il suo nome, Arnaut gli risponde in occitano:

« Io mi feci al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch'al suo nome il mio disire
apparecchiava grazioso loco.
El cominciò liberamente a dire:
“Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!”.
Poi s'ascose nel foco che li affina. »

(Purg., XXVI, 136-148)

(“Tanto mi piace la vostra cortese domanda/ che io non mi posso né voglio a voi celare./ Io sono Arnaldo, che piango e vado cantando;/ afflitto vedo la passata follia,/ e lieto vedo, davanti (a me) la gioia che spero./ Ora vi prego, in nome di quel valore che vi guida alla sommità della scala,/ al tempo opportuno vi sovvenga del mio dolore”).

Morì intorno al 1220, forse fattosi monaco. A noi restano 18 composizioni, due delle quali provviste di notazione musicale; tutte, tranne una, di argomento amoroso.




Pagina di un "chansonnier" del XIII secolo riportante una raffigurazione di Arnaut Daniel

Arnaut Daniel

Arietta


Su quest'arietta leggiadra
Compongo versi e li digrosso e piallo,
E saran giusti ed esatti
Quando ci avrò passata su la lima;
Ché Amore istesso leviga ed indora
Il mio canto, ispirato da colei
Che pregio mantiene e governa.

Io bene avanzo ogni giorno e m'affino
Perché servo ed onoro la più bella
Del mondo, ve lo dico apertamente.
Tutto appartengo a lei , dal capo al piede,
E per quanto una gelida aura spiri,
L'amore ch'entro nel cuore mi raggia
Mi tien caldo nel colmo dell'inverno.

Mille messe per questo ascolto ed offro,
Per questo accendo lumi a cera e ad olio:
Perché Dio mi conceda felice esito
Di quella contro cui schermirsi è vano;
E quando miro la sua chioma bionda
E la persona gaia, agile e fresca
Più l'amo che d'aver Luserna in dono.

Tanto l'amo di cuore e la desidero,
Che per troppo desío temo di perderla,
Se perdere si può per molto amare.
Il suo cuore sommerge interamente
Tutto il mio, né s'evapora.
Tanto ha oprato d'usura
Che ora possiede officina e bottega.

Di Roma non vorrei tener l'impero,
Né bramerei esserne fatto papa,
Se non potessi tornare a colei
Per cui il cuore m'arde e mi si spezza
E se non mi ristora dell'affanno
Pur con un bacio, pria dell'anno nuovo,
Me fa morire a sé l'anima danna.

Ma per l'affanno ch'io soffro
Dall'amarla non mi distolgo,
Bench'ella mi costringa a solitudine,
Sì che ne faccio parole per rima.
Più peno, amando, di chi zappa i campi,
Ché punto più di me non amò
Quel di Monclin donna Odierna.

Io sono Arnaldo che raccolgo il vento
E col bue vado a caccia della lepre
E nuoto contro la marea montante.


giovedì 11 agosto 2011

Avanguardia, Deriva, Debord


Girellando sulla rete abbiamo trovato questo articolo su Guy Debord che offre una interpretazione dei rapporti fra avanguardismo artistico e politica ricca di spunti di riflessione.



Barthélémy Schwartz

Avanguardia, Deriva, Debord

Se è vero che il comportamento sociale è legato all'ambiente circostante, bisogna modificare quest'ultimo per intervenire sull'affettività degli individui. Così si costruisce in maniera deliberata una situazione sociale. Ma nel maggio '68 sarà il movimento sociale a creare la situazione, non certo l'avanguardia.

Il surrealismo ha dato una propria configurazione iniziale all’avanguardia artistico-radicale, durante il periodo fra le due guerre: un gruppo radicale, che agisce essenzialmente nel campo della cultura e della vita quotidiana, presentandosi come laboratorio di esperienze radicali nell’ambito del sensibile, a partire dal quale vengono discussi i progetti utopici che, in parte, determineranno la futura società non capitalista.

In questa concezione, secondo cui l’avvenire della società è presumibilmente quello di rispecchiarsi nelle sperimentazioni dell’avanguardia artistico-radicale, la rivoluzione è considerata come un’alleanza di avanguardie: all’avanguardia artistica il campo della cultura e della vita quotidiana; all’avanguardia politica quello della riorganizzazione economica, politica e sociale della società futura. In questa divisione avanguardista dei compiti, l’uguaglianza dei diritti in realtà è già un imbroglio, l’avanguardia artistica è già dipendente dal partito dell’avanguardia politica. Nel 1938, nel manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente redatto con Leon Trotsky, André Breton rivendica a nome dei surrealisti un regime anarchico per la cultura all’interno di un regime centralizzato di produzione: «Se per lo sviluppo delle forze produttive materiali la rivoluzione è tenuta a erigere un regime socialista di pianificazione centralizzata, per la creazione intellettuale essa deve sin dall’inizio stabilire e assicurare un regime anarchico di libertà individuale. Nessuna autorità, nessuna costrizione, neppure la minima traccia di comando! Le diverse associazioni di scienziati e di gruppi collettivi di artisti che lavoreranno per risolvere compiti che non saranno mai stati così grandiosi, possono sorgere e sviluppare un lavoro fecondo unicamente sulla base di una libera amicizia creatrice, senza la minima costrizione dall’esterno» (André Breton, Leon Trotsky, Per un’arte rivoluzionaria indipendente, in Arturo Schwarz, Breton e Trotsky. Storia di un’amicizia, Erre emme, 1997. Per ragioni tattiche, la firma di Trotsky venne sostituita con quella di Diego Rivera).

Ma pensare che la dittatura di un partito preserverà un territorio d’anarchia all’ambito della creazione è un’illusione avanguardista, e il surrealismo in ultima analisi non può rimettersi, su questo punto, che alla buona volontà del partito. Inoltre, questa distinzione tra regime anarchico per gli uni (la libertà senza freni e i compiti grandiosi per scienziati e artisti) e regime centralizzato per gli altri, porta già in nuce tutta una concezione della società futura, e della sua futura divisione del lavoro, che allora i surrealisti non hanno forse percepito come tale, ma che i progetti dell’avanguardia politica già promettevano.

L’avanguardismo artistico-radicale, vissuto sotto una forma caricaturale e grottesca dai lettristi, è presente fin dai primi giorni dell’internazionale situazionista e dà un proprio tono alle attività del collettivo fino ai primi anni ‘60. Durante questo periodo, i situazionisti esplorano i limiti di una posizione avanguardista nella cultura (sistematizzata da Constant e dall’urbanismo unitario), in un’epoca in cui il capitalismo ha ritrovato una crescita economica ed è cambiato nella forma (capitalismo ad economia mista); ma esplorano anche il superamento di questa posizione avanguardista scoprendo le correnti non autoritarie della critica sociale, come Socialisme ou Barbarie (itinerario di Debord, Vaneigem, eccetera). È questo il periodo che viene qui affrontato.

L’urbanismo unitario come progetto avanguardista



«L’arte integrale, di cui si è tanto parlato, non potrebbe realizzarsi che al livello dell’urbanismo».
Guy Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni, 1957. (Trad. italiana El Paso autoproduzioni, 1990)

I situazionisti partono da una critica dell’arte moderna, ma fatta da un punto di vista avanguardista: è a partire dalle conclusioni dell’arte moderna che essi elaborano il proprio progetto. Considerare, come fanno, l’arte moderna come l’esperienza storica del linguaggio poetico che si autodistrugge in quanto mezzo d’espressione e di comunicazione non è vero che dal punto di vista dell’arte moderna. Questa non ha affrontato la questione dell’espressione poetica che nei limiti della forma artistica, in quanto mezzo di espressione all’interno della società capitalista e della sua divisione del lavoro. L’arte moderna non ha in nessun modo esaurito tale questione, le soluzioni che ha potuto sperimentare sono valide solo nella — e per la — società che l’ha prodotta. Da questo punto di vista, la questione dell’espressione è sempre aperta. I momenti migliori dell’arte moderna non sono che surrogati dell’espressione poetica, tutt’al più indicano per difetto ciò che essa avrebbe potuto essere, se non fosse stata parlata da uno ma da tutti, in rapporti sociali diversi da quelli determinati dallo sfruttamento capitalista. In questa prospettiva utopica, sono i surrealisti ad aver tentato, certo con tutti i limiti che comportavano, le esperienze più ricche. Pretendere che l’arte moderna abbia esaurito la questione dell’espressione e che occorra ormai passare ad altro è una scorciatoia da avanguardia.

Il progetto d’arte integrale situazionista, l’urbanismo unitario, è però elaborato a partire da questa critica avanguardista dell’arte moderna. Per i situazionisti, non si tratta più di produrre, a partire da espressioni poetiche individuali di cui l’arte moderna ha mostrato, secondo loro, il fallimento, degli spettacoli passivi — quadri, disegni, sculture...—; ma, al contrario, di costruire aree ambientali in cui gli individui che le attraverseranno possano essere dei «viveurs» (non più spettatori passivi): «Non esiste, per dei rivoluzionari, un possibile ritorno all’indietro. Il mondo dell’espressione, quale che ne sia il contenuto, è già superato» (Il senso di deperimento dell’arte, in "I.S." n.3). Si tratta di riorganizzare lo spazio urbano, a cominciare dall’uso collettivo di tutti i mezzi artistici tradizionali fino a quel momento al servizio del singolo artista, nella prospettiva di un libero intervento delle persone sul proprio ambiente naturale modificato. Ma, nella concezione dell’urbanismo unitario, l’utopia del progetto annuncia già il vizio avanguardista che vi si nasconde, e che ne modificherà l’applicazione: «l’urbanismo unitario è realizzabile soltanto con i mezzi situazionisti» (Alberts, Armando, Constant, Oudejans, Primo proclama della sezione olandese dell’IS, ibid., sottolineatura mia).

Perché spetta all’avanguardia artistica radicale elaborare l’urbanismo unitario, nei suoi abbozzi preparatori ma anche nelle sue ulteriori applicazioni alla società futura. L’idea principale dell’urbanismo unitario è che il comportamento sociale sia legato all’ambiente e allo scenario circostanti, i quali devono essere modificati in senso passionale, in modo da intervenire direttamente sulla affettività degli individui: «La direzione realmente sperimentale dell’attività situazionista è la costituzione, a partire da desideri più o meno nettamente riconosciuti, di un campo di attività temporaneo favorevole per tali desideri. La sua costituzione può portarsi dietro solo la chiarificazione dei desideri primitivi e l’apparizione confusa di nuovi desideri la cui radice materiale sarà proprio la nuova realtà costituita dalle costruzioni situazioniste» (Problemi preliminari alla costruzione di una situazione, in "I.S." n.1, sottolineatura mia). In questa riorganizzazione situazionista dell’ambiente, certamente progettata in una prospettiva utopica, si tratta, in definitiva, di «costruire» in maniera «deliberata» una situazione sociale. Questo aspetto volontarista della teoria dell’urbanismo unitario è già presente nel primo manifesto situazionista, Rapporto sulla costruzione delle situazioni... di Guy Debord: «Lo sviluppo spaziale deve tener conto delle realtà affettive che la città sperimentale va determinando»; [...] «Dobbiamo costruire nuovi ambienti che siano insieme il prodotto e lo strumento di nuovi comportamenti»; [...] «Dobbiamo mettere a punto un intervento ordinato sui fattori complessi di due grandi componenti in perpetua azione reciproca: lo scenario materiale della vita; i comportamenti che esso produce e che lo sconvolgono» (Guy Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni, op. cit.). Il comportamento sociale non viene ancora visto come il prodotto di un rapporto sociale. Nel maggio ‘68, sarà il movimento sociale a creare la situazione, non l’avanguardia.



Come determinare i nuovi comportamenti affettivi che saranno indotti dall’urbanismo unitario?

«La nostra concezione di “situazione costruita” non si limita ad un uso unitario dei mezzi artistici che concorrono a formare un ambiente, per quanto grandi possano essere l’estensione spazio-temporale e la forza di questo ambiente. La situazione è nello stesso tempo un’unità di comportamento nel tempo. È fatta di gesti contenuti nello scenario di un momento. Questi gesti sono il frutto dello scenario e di loro stessi. Producono altre forme di scenario e altri gesti. Come si possono orientare queste forze?» (Problemi preliminari alla costruzione di una situazione, op. cit., sottolineatura mia). I situazionisti si interessano da vicino alle tecniche moderne di condizionamento sociale. Leggono Lo stupro delle folle da parte della propaganda politica di Serghj Ciacotin, «a proposito dei metodi di condizionamento utilizzati su collettività da rivoluzionari e fascisti» (La lotta per il controllo delle nuove tecniche di condizionamento, in "I.S." n.1), e considerano le tecniche di persuasione collettiva come esempi dell’uso repressivo della costruzione d’ambienti. L’arte libera, in avvenire, è per loro un’arte «capace di dominare e impiegare tutte le nuove tecniche di condizionamento» (Constant, Sui nostri mezzi e sulle nostre prospettive, in "I.S." n.2, sottolineatura mia). Il legame che intravedono tra un uso repressivo ed uno utopico di queste tecniche è concorrenziale: «bisogna capire che stiamo per assistere, per partecipare, ad una gara di velocità tra gli artisti liberi e la polizia per sperimentare e sviluppare l’impiego di nuove tecniche di condizionamento» (La lotta per il controllo delle nuove tecniche di condizionamento, in "I.S." n.1). Se i situazionisti immaginano che le proprie sperimentazioni possano in caso di insuccesso contribuire ad un rinnovamento del condizionamento sociale capitalista, essi non vedono ancora che le proiezioni utopiche d’un urbanismo unitario, concepite da un punto di vista avanguardista, possono allo stesso modo preludere a nuove forme di condizionamento sociale adattate, questa volta, alla società futura non capitalista.

Questa preoccupazione di appropriarsi dei mezzi tecnici dell’epoca è costante nei situazionisti. Ma se si tratta di acquisire le tecniche moderne in corso, non si tratta ancora per loro di rimettere in discussione l’esistenza stessa di questi strumenti capitalisti. Anche qui, la critica presenta in nuce la propria concezione della società futura: «Parliamo di artisti liberi, ma non esiste libertà artistica possibile se prima non ci impadroniamo dei mezzi accumulati dal XX secolo, che per noi sono i veri mezzi della produzione artistica e che condannano coloro che ne sono privati a non essere degli artisti di questa epoca» (Ibid., sottolineatura mia). Senza scorgere che tali mezzi non sono altro che quelli prodotti dal capitalismo nel quadro della sua divisione del lavoro, per una finalità sociale da esso determinata. Questa concezione avanguardista dell’urbanismo unitario («campo di esperienza per lo spazio sociale delle città future» (L’urbanismo unitario alla fine degli anni ‘50, "I.S." n.3), percepibile fin dalla costituzione dell’IS, è sistematizzata da Constant, con la specializzazione e l’autoritarismo impliciti che comporta. La teoria dell’urbanismo unitario prevede il libero intervento delle persone sul proprio ambiente come finalità, ma per i situazionisti — «esploratori specializzati del gioco e del tempo libero» (Constant, Il grande gioco futuro in "Potlatch" n.1) — è già stato deciso che l’urbanismo unitario sia «contro la fissazione delle persone in dati punti di una città»; o anche «si contrappone alla fissazione delle città nel tempo» (L’urbanismo unitario alla fine degli anni ‘50, in "I.S." n.3, sottolineature mie). Nella società futura, l’avanguardia si riserva in modo unilaterale l’applicazione del proprio progetto: gli «ambienti saranno modificati regolarmente e deliberatamente, con l’aiuto di tutti i mezzi tecnici da gruppi di creatori specializzati, che saranno dunque situazionisti di professione» (Constant, Un’altra città per un’altra vita, in "I.S." n.3, sottolineatura mia).



È il movimento sociale a far la situazione, non l’avanguardia

Il primo contatto dei situazionisti con Socialisme ou Barbarie avviene, dal punto di vista situazionista, sotto la forma classica dell’avanguardia artistico-radicale. Daniel Blanchard (membro di S ou B col nome di Canjuers) ricorda il suo primo incontro con Guy Debord: «In un ristorante della rue Mouffetard, il 20 luglio 1960, abbiamo messo l’ultima mano a ciò che avremmo voluto vedere come un protocollo d’accordo tra l’avanguardia della cultura e l’avanguardia della rivoluzione proletaria» ( Daniel Blanchard (Canjuers), Debord, nel rumore della cateratta del tempo, in "Rivista storica dell’anarchismo", 1999, sottolineatura mia). Ma, molto presto, gli apporti delle correnti non autoritarie della critica sociale, che hanno fatto scoprire loro i consigli operai apparsi in Ungheria nel 1956, vanno a rimettere in discussione, presso i situazionisti, la concezione avanguardista artistico-radicale. Come insiste giustamente Daniel Blanchard: «Non è a furia di leggere Hegel, il giovane Marx o Lukács che Debord è riuscito a sottrarsi alla maledizione che lo stalinismo e la burocratizzazione delle organizzazioni operaie facevano pesare sul movimento rivoluzionario. Sono gli operai ungheresi insorti e formatisi in Consiglio ad aver levato questa maledizione, almeno per coloro che erano pronti ad intenderli» (Ib). Mentre l’avanguardismo artistico-radicale è legato alle concezioni autoritarie della rivoluzione, ed è ricco soprattutto di futuri progetti di condizionamento sociale e di divisioni in classi, è a partire da una critica fatta da un punto di vista non autoritario che i situazionisti hanno abbandonato i propri sogni di costruttori specializzati d’ambiente. Ormai, per loro, non è più l’avanguardia che preparerà la situazione, ma il movimento sociale, cosa che il maggio ‘68 confermerà. Sul maggio ‘68, più tardi i situazionisti scriveranno giustamente: «Questo movimento era la riscoperta della storia, contemporaneamente collettiva e individuale, il senso dell’intervento possibile sulla storia e il senso dell’avvenimento irreversibile, con la sensazione che “niente sarebbe più stato come prima”; e superata la propria sopravvivenza la gente ripensava con divertimento all’esistenza strana che aveva condotto otto giorni prima» (L’inizio di un’epoca, in "I.S." n.12).




[Da "Diavolo in corpo - Rivista di critica sociale", n. 3, novembre 2000]



lunedì 8 agosto 2011

Un giorno a San Biagio della Cima, cercando Francesco Biamonti


Una giornata nei luoghi biamontiani


Giorgio Amico

Viaggio nella terra di Biamonti



Sono andato a San Biagio della Cima. Dalla costa ci si arriva in pochi minuti, ma è un altro mondo. Lasciata l’Aurelia ai piani di Vallecrosia, si imbocca la vecchia carrozzabile che porta a Perinaldo costeggiando il corso del torrente Verbone lungo una via punteggiata di capannoni industriali segni di una modernità invadente che morde le antiche pietre.Una valle stretta, scavalcata dall’imponente viadotto autostradale che ne accentua il degrado.

Una valle triste, indelebilmente segnata anche nell’opulenza di oggi dall’antica, dignitosa povertà di un tempo. Una valle spoglia, inutilmente abbellita dai borghi medievali di Vallecrosia alta e di San Biagio.

Una terra aspra, sassosa che testimonia del secolare rapporto d’amore e d’odio con l’uomo. Di una feroce fatica del vivere che neppure la morte riesce a pacificare. Una terra di uomini silenziosi, schiacciati fra mare e monti. Aggrappati alla terra come a una speranza. Una terra avara, del colore grigio della pietra e degli ulivi. Una natura arcigna, restia a concedersi, di una bellezza crudele. La terra descritta da Biamonti nei sui libri.

Da San Biagio della Cima il mare non si vede, anche se nei giorni ventosi se ne avverte la presenza e il profumo nell’aria a rappresentare il presagio di un mondo diverso, luccicante in fondo alla valle, dopo l’abitato di Vallecrosia alta, dopo il ponte dell’autostrada.

Biamonti ne parla in uno dei sui ultimi lavori:

“Fra il mio paese e il mare si frappone una rupe, un agglomerato di ciottoli e conchiglie (o piuttosto orme di conchiglie) dall'aspetto arcigno. La vegetazione è di ginestre spinose, quelle che ha utilizzato Sutherland in “Capo di spine” per dare un'idea della crudeltà del mondo, di cisti vellutati e fragili, di qualche ulivo superstite che vive a stento. Di lassù si gode, saltando le orrende costruzioni della nostra costa, di un vasto arco luminoso.”

Da San Biagio si vede solo il cielo. Un cielo tanto azzurro da parere cupo. Un timido annuncio di quel cielo di Provenza che van Gogh tanto amava.

E nel cielo alto riecheggia il suono delle campane delle chiese della valle. Da un campanile all’altro,da un gruppo di case all’altro il suono si ripercuote argentino sulle balze sassose delle colline dirupate per perdersi, infine, fra gli ulivi. Un suono un tempo familiare, ma che oggi racchiude la triste dolcezza delle cose passate. Uno scampanio che sgorga come fiume impetuoso dalle pagine de “L’angelo di Avrigue”:

“Battagliavano con grazia, a ondate; faceva da collegamento la campana minore (stavolta lo era) sempre più lenta, che tutto sembrava finire, invece ricominciavano. Poi suonarono a distesa, a gloria, e vi si unì per un breve lasso di tempo anche la campanella dell’Annunciata”.



E’ un paese strano San Biagio. Un pugno di case abbarbicate alla montagna. Case grige, dai vecchi muri fatte di pietre screpolate. Un borgo silenzioso, stretto attorno alla sua chiesa come le dita di un pugno chiuso solcato dalle linee dei vicoli.

Case di pietra… “qui semblent s’endormir dans un rêve sans fin”. Quanto familiari risuonano in questo contesto i versi di Baudelaire, un poeta che Biamonti amava. Camminando per i vicoli di San Biagio iniziamo a capire il perché. Il segreto ci si disvela ad ogni passo, così come l’animo di Francesco che nascondeva dietro il sorriso di un bimbo il dolore profondo di un’epoca intera.

Un mondo immobile. Dove “l’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dei mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre”.

Un mondo uniforme. Scandito da regole senza tempo. Dove la vita è sempre eguale. Un mondo senza storia che porta su di se il peso dei millenni. Un mondo circolare. Senza fine e senza inizio.

“Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno”.

Un mondo senza speranza. Senza vie di fuga possibili. Uno spazio chiuso, aperto solo verso il mare. E tutto intorno “monti a non finire , grigio chiaro e grigio perla come i vicini monti di Francia”.



Francesco Biamonti è nato e vissuto qui. Tutto qui ci parla di lui. In ogni angolo ritroviamo qualcosa che abbiamo letto nei suoi libri, una pagina che ci ha colpito, una descrizione. Eppure questa realtà resta sfuggente, inafferrabile nella sua più intima sostanza. E ci viene allora da pensare che davvero questa terra, questa piccola valle sia una rappresentazione del mondo grande e terribile con le sue paure e le sue sofferenze, con i suoi uomini e le sue donne. E che Francesco Biamonti descrivendola abbia rappresentato non uno spazio topograficamente definibile, ma un altrove. Quel luogo misterioso che alberga nel profondo del cuore di ciascuno di noi da cui provengono i sogni e gli incubi. Quel luogo perduto ma mai dimenticato, odiato e amato, da cui si fugge e a cui si cerca di tornare, dove tutto è iniziato e dove tutto finirà.

venerdì 5 agosto 2011

Gianluca Paciucci, Inevitabilità della violenza e suo superamento


Alexander Langer

Libia, Afghanistan, Irak, Kossovo, Bosnia.... mai la riflessione sui temi della pace (e della guerra) è stata tanto attuale. Proponiamo questa testo di Gianluca Paciucci che riprende l'intervento tenuto il 23 maggio 2010 a un convegno su Alexander Langer ad Amelia-TR.

Gianluca Paciucci

Inevitabilità della violenza e suo superamento
Simone Weil, Alexander Langer, le guerre “jugoslave” e noi.




“...La forza che uccide è una forma imprecisa e grossolana della forza. Quanto più varia nei suoi metodi e più sorprendente nei suoi effetti è l'altra forza, quella che non uccide; cioè quella che non uccide ancora...” (Simone Weil, in Iliade o il poema della forza, 1940 - 1941).

“...la lingua, come espressione di ogni tipo di linguaggio, non è né reazionaria né progressista; è semplicemente: fascista; poiché il fascismo non è il divieto di dire, ma è la costrizione a dire...” (Roland Barthes, in Lezione, 1977).

“...cosa ci può realmente motivare?...” (Alexander Langer, in “Domande”, 1990).

Come poter “tenere un discorso senza imporlo” è argomento ancora irrisolto, dai tempi di Barthes a oggi: la moltiplicazione degli infiniti “io” si batte e convive con la presunta sparizione del “soggetto”, e si traduce in una serie di convinzioni armate capaci di erigere immediatamente un muro di metafore e di stili aggressivi, anche quando predichiamo la non violenza e il rispetto dell'altro. La non imposizione di un discorso, inoltre, deve però tener conto dell'irrinviabile assunzione di responsabilità di chi “dice”, per evitare che l'assunzione dell'altro/dell'altra nel proprio orizzonte non diventi alibi per melensi ecumenismi o banale condivisione di contenuti minimi, sotto la superficie dei quali si agita la vera vita, ovvero la vita della violenza, della forza e della realtà che preme.

Nel 2005 a ricordare dolorosamente il 10° anniversario della scomparsa di Alexander Langer, eravamo a Sarajevo, con amiche e amici, in un'occasione importante, quegli “Incontri europei del Libro” che il Centre “André Malraux” della capitale bosniaca organizza da diversi anni. Grazie all'Ambasciata d'Italia in Bosnia Erzegovina (allora guidata da persone illuminate) e alla Fondazione Alexander Langer, grazie alle donne e agli uomini che vi lavorano, riuscimmo ad alzare bicchieri di grappa o di succo di frutta per brindare ritualmente alla vita bella di Langer, nel luogo che aveva visto una delle infinite recenti sconfitte della ragione e dell'umano, le “guerre jugoslave” degli anni Novanta del secolo scorso. Langer si era battuto per sconfiggere quella sconfitta, non riuscendoci, anche perché le vie del bene sono nascoste da una fitta vegetazione malata, e la miseria del realismo politico non può che prevalere, nei tempi brevissimi del presente continuo. Miseria della fine dei “socialismi reali”, persino in quella Jugoslavia che una via autonoma era riuscita a percorrere, dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948; miseria del trionfo del “capitalismo reale”, altrettanto venefico e oppressivo, su scala locale e planetaria. Una fine e un trionfo accomunati dall'identità del fine, ovvero il dominio sull'essere umano, la sua infantilizzazione, la sua strumentalizzazione sulla via di efficienze e record da superare in una corsa senza traguardo: il fine è proprio questa assenza di traguardi, di linea d'arrivo, è la meritocrazia, è l'impossibilità della tregua, nella continua tensione imposta dalle convergenti follie di quello che Guy Debord chiamava “leviatano concentrato [il sistema sovietico] e leviatano diffuso [il sistema capitalistico]”, perfettamente fusi nelle costruzioni politiche dell'oggi, come in quella Cina dal 'capitalismo a partito unico', che è il prodotto più inquietante e straordinario degli ultimi anni. “Invenzione della povertà”, potremmo chiamarla servendoci della categoria proposta da Wolfgang Sachs, imposizione dello status di poveri a creare frustrazioni e desideri, sogni che si sa non potranno mai divenire reali ma che tengono miserabilmente in vita masse di vecchi e nuovi poveri con il miraggio di un possibile irraggiungibile standard “occidentale”, norma di vita e pace, su tappeti di cadaveri. Che i due sistemi di prima dell'89, socialismo e capitalismo, fossero nemmeno troppo segretamente alleati lo dimostrano le biografie di tanti sgherri dell'impresentabile socialismo di Stato, divenuti in un batter d'occhio cinici imprenditori, a Danzica come nell'Emilia “rossa”, a salvarsi pelle e privilegi, oppure a reinvestirsi nei nuovi nazionalismi e militarismi assassini, in Russia come nella bella terra degli Slavi del sud.

Si era speso tanto Langer per questa terra, scontrandosi con opposte ottusità e anche scontando la difficoltà dei Paesi dell'Europa del dopo '89 di capire l'implosione di quel mondo, per la quale pure essi avevano lavorato con accanimento. Opposte ottusità: innanzitutto dei Paesi dell'Unione Europea, avidi e ignoranti, con la Germania nell'impresa di una difficile riunificazione; del Vaticano, teso a riguadagnare terre in terra d'ateismo praticato; degli Stati Uniti nell'era Clinton, a sperimentare sul campo la dottrina degli interventi militar-umanitari; dell'Italia in mano a ex fascisti ed ex comunisti, nei vari schieramenti, che sulla cancellazione della storia fondarono e fondano la loro mediocre rispettabilità politica, in revanscismo e/o buonismo; dei nuovi movimenti politici italiani, come la Lega nord, che intrattenne rapporti eccellenti con l'“Hitler dei Balcani”, quel Milošević prima esaltato e solo in ultimo ripudiato, dopo la sconfitta e la morte -nel 2006- di questi; dei comunisti qui in Italia, alcuni dei quali erroneamente videro nel piccolo e criminale satrapo di Belgrado l'erede di Tito; di tanti politici-imprenditori che vollero aprirsi fette importanti di mercato nella popolosa Serbia. Su questo caos e sulle colpe oggettive di una classe politica jugoslava illusa, delusa e/o corrotta, nacque il disastro: opposte tifoserie scesero in campo, e permisero/permettemmo ciò che non sarebbe mai più dovuto succedere, nel cuore dell'Europa, né altrove: guerre, deportazioni, stupri come armi, campi di concentramento, etc. I bosgnacchi (cittadine e cittadini bosniaci di famiglia, di cultura e/o di fede musulmana), in particolare, sono stati vittime di crimini ancora da narrare: gli opposti fascismi si misero in marcia, combattendosi e comprendendosi. Riapparizione potente delle destre estreme, sul naufragio dell' “unità e fratellanza”, slogan titoista. Sangue e suolo, identità e tradizioni, e religioni assassine: pope preti imam a predicare l'odio sgozzatore (le buone e dolci eccezioni sono nel cuore di tutte e di tutti, ma non discolpano il 'dio degli eserciti' all'opera su fronti opposti).


Simone Weil

Bosnia Erzegovina anni Novanta, e Spagna 1936: bivio forte, messo in luce già dal celebre racconto di Ivo Andrić “Lettera del 1920”. Max Levenfeld, figlio di un medico austriaco di famiglia ebrea e di una duchessa triestina, dopo aver abbandonato Sarajevo a causa dell'odio che vi regnava (ma dove non regnava, l'odio, in quegli anni, e oggi...), e aver lavorato come medico in Francia, allo scoppio della Guerra in Spagna si arruola come volontario nell'esercito repubblicano, e muore in un ospedale di guerra in Aragona sotto le bombe fasciste. “Così terminò la vita di un uomo che era fuggito dall'odio”, conclude Andrić. Antifascisti di tutto il mondo si recarono in Spagna a difenderla dalle orde franchiste, spesso trovandovi la morte, a volte anche per mano sedicente amica (la violenza del comunismo staliniano si esercitò con accanimento contro anarchici e comunisti antistalinisti); ma pochissimi antifascisti si recarono a Sarajevo a difendere la Bosnia Erzegovina contro le orde serbo-nazionaliste (il pensiero va a Adriano Sofri, a un gruzzolo di altri e altre, giornalisti coraggiosi, militanti della verità). L'antifascismo profondo di chi difendeva Sarajevo non fu capito dai colpevoli servi di una terminale ideologia internazionalista (i nemici dei nostri nemici capitalisti sono nostri amici, Milošević come Saddam); di una deformata ideologia dell'autodeterminazione dei popoli (elogio delle “piccole patrie” e delle secessioni, “leghismo” che promette ovunque “padroni a casa nostra”); e della trionfante ideologia della “guerra umanitaria”, il tutto condito dall'insopportabile puzza sotto il naso di chi, anti o filoimperialista/antirazzista/pre o postfascista/ex comunista/imprenditore apolitico, etc., ma inguaribilmente “occidentale”, guardava ai fatti di Jugoslavia come a un'ennesima dimostrazione della barbarie di quei popoli, di genti geneticamente e culturalmente votate all'odio reciproco. Erano, e sono, gli anni del “noi non uccidiamo così” , dei bravi italiani nel mondo, integerrimi e generosi, ideologia fondata, ripeto, sulla voluta ignoranza dei crimini perpetrati da italiani in mezzo mondo (Libia, Etiopia, Jugoslavia, etc.) contro i “barbari”, e dei crimini attuali. Questa puzza sotto al naso era ben visibile anche sotto ai nasi di certi altermondialisti con la kefiah, indignati perché in Bosnia non usano la mozzarella di bufala, nella pizza...

E poi l'ideologia umanitaria, devastante. Ne ha scritto benissimo Luca Rastello, in quel formidabile libro che è La guerra in casa : “...L'ideologia umanitaria ha fornito spesso un avallo alla confusione fra carnefici e vittime. Senza togliere valore al coraggio di tanti e alle migliaia di vite salvate dalle carovane bianche, sarebbe forse onesto e utile aprire una futura analisi dell'intervento umanitario in Jugoslavia con la categoria del fallimento. Nessuna delle iniziative di pace ha avuto il valore di interposizione fra le parti in armi. Alla luce di questo fallimento politico (non caritativo), è forse possibile recuperare il valore delle idee di quanti hanno impegnato, rischiato e talvolta perso le loro vite in soccorso delle popolazioni travolte dalla guerra. L'azione umanitaria acquista, credo, tanto più valore quanto più si sgancia dall'ideologia umanitaria, da quell'immaginario nutrito di carità e supplenza che non riconosce la dignità e la responsabilità delle vittime. A volte, uno sguardo innocente è disposto a qualche delitto per preservarsi...” (pag. VII, nella “Premessa”). Non mi scuso per la lunga citazione. Tutto questo fascio di ideologie, perdenti o vincenti, andò a costituire la duplice remora di “superiorità occidentale” (vs barbarie dei popoli slavi) e di “impotenza” che impedì ogni azione e favorì il crimine, condita dalla gioia di mercanti d'armi e di geopolitica. Sarajevo sotto le bombe e il tiro dei cecchini, e il solito dilemma, stavolta non solo dei “pacifisti”: intervento o non intervento (armato, si intende), dinanzi all'orrore estremo? Questo stesso fu il dilemma di Simone Weil dinanzi alla Guerra di Spagna e poi al Secondo conflitto mondiale. Mentre il segretario del Partito Comunista Francese, Maurice Thorez, pur fedele alla politica di non intervento del governo del Fronte Popolare, rivendicava la necessità di togliere l'embargo sulle armi verso i repubblicani spagnoli perché essi potessero “procurarsi liberamente aerei da combattimento, cannoni e munizioni”, Simone Weil nell'inverno 1936-'37 si dice d'accordo con un non intervento assoluto perché questo, “lungi dal ristabilire l'ordine in Spagna, avrebbe incendiato tutta l'Europa”. Inoltre le sue esperienze al fronte spagnolo (brevi, tra l'agosto e il settembre del 1936) la portarono a riflettere, in una lettera del 1938 indirizzata a Georges Bernanos, sulla violenza esercitata dai “giusti”, nel campo repubblicano, e soprattutto su atti di violenza inutile e arbitraria. Dopo aver riportato le vicende di falangisti o presunti tali uccisi, per banale vendetta o per puro divertimento, da miliziani repubblicani e anarchici, Simone Weil scrive: “...Ho avuto l'impressione che quando le autorità temporali e spirituali hanno messo una categoria d'esseri umani fuori da quelli la cui vita ha un prezzo, per l'uomo non c'è niente di più naturale dell'uccidere. Quando si capisce che è possibile uccidere senza rischiare né castighi né rimproveri, si uccide; o almeno si regalano sorrisi d'incoraggiamento a chi uccide. Se forse all'inizio si prova un po' di disgusto, lo si mette a tacere, soffocandolo per paura di dar prova di scarsa virilità. (...) Si parte come volontari, con l'idea del sacrificio, e ci si ritrova in mezzo a una guerra che rassomiglia a una guerra di mercenari, con in più molte crudeltà e, in meno, il senso del rispetto dovuto al nemico...”. Fin qui siamo in un dibattito interno al pacifismo/antifascismo classico, che solo figure come Virginia Woolf contestarono, pur spaventata dagli orrori della guerra, riflettendo a partire da quella che oggi chiamiamo “differenza di genere”, da lei in qualche modo “fondata”; è anche vero che la morte del nipote Julian Bell nella Guerra di Spagna, nel luglio del 1937, la segnò fortemente.


Pablo Picasso, Guernica
E' a ridosso dello scoppio del Secondo conflitto mondiale che le posizioni di Simone Weil mutarono profondamente, e tale cambiamento è visibile nel testo “Riflessioni in vista d'un bilancio” (1939) in cui giunge a una rottura definitiva con il pacifismo: l'analisi del momento storico, la forza smisurata del nemico e la debolezza dello Stato francese, la portano a scrivere che “una certa forma di politica offensiva ci è indispensabile” e che “se non si lotta con tutto il coraggio che si ha per conservare almeno ciò che al momento attuale è ancora in piedi, a maggior ragione si lotta male per quel che vediamo sgretolarsi sotto i nostri piedi”. Ancora più netta sarà in una nota del 1943, con la morte vicina: “Meccanismo indiretto d'un crimine. Il mio errore criminale di prima del 1939 sugli ambienti pacifisti e la loro azione proveniva dall'incapacità causata da troppi anni di spaventoso dolore fisico. Non essendomi possibile seguire da vicino la loro azione né frequentarli e discutere con loro, non mi sono accorta della loro predisposizione al tradimento...”. Parole che non potevano essere più chiare. Qui si chiude, con la constatazione che il pacifismo passivo persino dinanzi a un male estremo sia un male in sé, a due passi dal tradimento -e senza un possibile buon uso del tradimento-, dall'essere una sorta di 'quinta colonna' atta a sabotare lo sforzo bellico antifascista.

Negli anni Novanta, terminato nel 1989 il ciclo apertosi nel 1945, si riproposero drammi e scelte che sembravano appartenere a un passato sepolto, a due passi da casa, alle porte di Trieste e del Friuli Venezia-Giulia, o subito al di là dell'Adriatico. Langer non poteva volgere lo sguardo altrove, e non lo fece, negli ultimi anni della sua vita, con passione e metodo, con dispendio e spreco di sé. Spossate sono già le parole del 4 marzo 1990, alla fine del testo “Domande”: “...Tu che ormai fai il “militante” da oltre 25 anni e che hai attraversato le sperienze del pacifismo, della sinistra cristiana, del '68 (già “da grande”), dell'estremismo degli anni '70, del sindacato, della solidarietà con il Cile e con l'America Latina, col Portogallo, con la Palestina, della nuova sinistra, del localismo, del terzomondismo e dell'ecologia – da dove prendi le energie per 'fare' ancora?” Ma le “guerre jugoslave”, lo chiamano, lo interpellano, come avrebbero dovuto chiamare ed interpellare ciascuna e ciascuno di noi: rispondere a una “vocazione”, si direbbe in ambito religioso o per un mestiere, e Langer rispose, compiendo un cammino di pensiero (e non di solo, e sempre arido, “fare”) che lo avvicina a quello di Simone Weil. La comparatistica storica fa spesso acqua da ogni parte e ci dà poco aiuto di comprensione, eppure in questo caso penso si possa azzardare: Spagna 1936-1939 e Bosnia Erzegovina 1992-1995, lo abbiamo visto, pronunciamento di militari felloni/antipatrioti e golpe contro il proprio governo e la propria gente, per inaugurare fasi di sofferenza brutale e sedersi sul trono dei vincitori, con attorno macerie, esodi, deportazioni, crisi economica, fame. Simili gli eventi, anche se in Spagna i rumori della guerra civile portarono poi a quelli, ancora più assordanti, del Secondo conflitto mondiale, mentre il dramma jugoslavo è finito, dopo l'ultimo atto del Kosovo nel 1999, nello smembramento di uno Stato forte e nella nascita di micro-Stati, alcuni dei quali vittime della propria vittoria .

In Simone Weil abbiamo visto il passaggio dall'iniziale pacifismo radicale a un interventismo altrettanto deciso. Lo stesso accadde a Langer? “Soccorrere tutti” fu il suo primo impegno, “e questo voleva dire molto concretamente ricordarsi ogni volta anche dei serbi; non perché sottovalutasse le responsabilità e i crimini di Milošević o di Mladić, ma per riaffermare che le vittime stavano da tutte le parti e che anche in Serbia le madri dei soldati, le donne in nero, gruppi di intellettuali critici, giornali indipendenti costituivano un importante fronte di opposizione...”, scrive Fabio Levi ; posizione che poi si trasformò in avvicinamento alle ragioni di un intervento armato per creare i presupposti di una pacificazione. Nello scritto “Uso della forza militare internazionale nella ex-Jugoslavia?” che è la trascrizione di un'intervista radiofonica del 6 luglio 1993, dopo esser partito dalla costatazione che già molti interventi armati si stavano svolgendo nelle aree dell'ex Jugoslavia, Langer affronta il tema del titolo, e lo risolve affidandosi alla congiunzione anche, di cui si contano 4 occorrenze in nemmeno due pagine: “...occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche [corsivi nostri] impiegare (...) la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli Stati...”; “...E' dunque altamente tempo di allargare il mandato, la consistenza e l'armamento delle forze dell'ONU nella ex Jugoslavia, includendovi l'ordine -per ora- di far arrivare effettivamente gli aiuti umanitari ai loro destinatari, anche aprendosi la strada con le armi; di far cessare gli assedi alle città, anche bombardando postazioni di armamenti pesanti...”; “...Un intervento militare di questo tipo (...) potrebbe essere anche affidato a forze NATO...”. Siamo sideralmente lontani dall'entusiasmo bellicista di tanti politici e chierici di allora , magari di fresco convertiti, che, spesso a cuor leggero e dopo aver soffiato sul fuoco della crisi jugoslava, si divertirono a chiedere interventi militari a destra e a manca, senza la minima prospettiva di risoluzione delle controversie internazionali con altri mezzi (come ancora recita l'articolo 11 della Costituzione italiana), e soprattutto senza la minima idea di cosa fare nel dopoguerra, in Bosnia Erzegovina, e poi altrove. Langer sembra rendersi conto, sul campo, della dolorosa presenza della violenza del più forte, la quale non può essere spezzata dall'iniziativa autonoma dei popoli, incapaci di “darsi la libertà” per smarrimento ideale e politico, e perché l'ipocrisia europea aveva imposto un embargo sulle armi che danneggiava il più disarmato dei contendenti (l'esercito bosniaco); ma solo da un intervento “esterno” di un'entità sovranazionale: legittimità della resistenza, si sarebbe detto con schemi del marxismo classico, violenta o non violenta a seconda della scelta dei resistenti, ma con l'aggiunta di una entità estranea ai fatti e presunta imparziale (per quanto potessero esserlo l'ambigua ONU di quegli anni o la potente NATO...). Dopo altri due anni di assedi e di stragi, e soprattutto dopo il massacro di Tuzla (25 maggio 1995, 71 giovani morti per un obice lanciato da fascisti serbo-bosniaci) cadono le ultime remore: l'azione armata è irrinviabile, “vòlta non a punire qualcuno 'perché serbo' (o croato, o musulmano), ma ad impedire che la conquista etnica con la forza delle armi torni ad essere legge in Europa” (da L'Alto-Adige, 30 maggio 1995); nel giugno del 1995 ci fu poi la manifestazione di Cannes, con la richiesta di un intervento militare che si schierasse dalla parte degli aggrediti e delle vittime, superando la politica di “sedicente neutralità”, anche sulla spinta delle parole dell'allora sindaco di Tuzla, il laico socialdemocratico Selim Beslagić: “Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici, è impossibile che non vi rendiate conto”. Non “cannoni alla Bosnia Erzegovina” per una resistenza di lunga durata, ma bombardamenti NATO contro le postazioni militari serbo-bosniache (e, almeno in questo caso, non contro i civili) e offensiva croato-musulmana -con un'inspiegabile debolissima resistenza da parte delle truppe di Milošević-, che in pochi giorni effettivamente mettono fine alla guerra e aprono quell'incerto dopoguerra in cui il Paese è ancora oggi.


Virginia Woolf

Rimane una forte sensazione di occasione persa e di svolta non còlta, dopo l'89, se i conflitti si sono acuiti e sono diventati pesantissimi, cronici, in alcune aree, e se l'orologio della storia sembra stia camminando all'indietro, nonostante l'impegno di donne e uomini di pace. E' bastata l'ennesima crisi mondiale connessa agli attentati dell'11 settembre 2001 per chiudere una volta di più l'illusione: nella nuova “guerra al terrore” il nemico è il mondo musulmano, così indistintamente e essenzialisticamente definito, per cui quella parte che tanto ha subìto le violenze delle “guerre jugoslave”, ovvero i bosgnacchi, si trova di nuovo nel campo sbagliato, in quell'islam che è per costituzione criminale e malvagio (la stupida tesi leghista per cui non esiste un islam “moderato” -altro aggettivo stupido...). Sarajevo come fucina di terroristi, e cuneo islamico piantato nel cuore dell'Europa, mentre truppe d'élite serbe, ovvero cristiano-ortodosse, possono essere impiegate nei vari fronti di guerra all'islam. E' anche per questo che è caduto un macigno di silenzio sulle vicende balcaniche degli anni Novanta: applicando a quegli eventi la chiave di lettura dello “scontro di civiltà”, si dovrebbe puntare il dito contro ortodossia e cattolicesimo per la guerra scatenata contro i pacifici musulmani di Bosnia Erzegovina, con corollario di 200.000 morti e distruzione dell'intero tessuto politico-economico della Jugoslavia. Invece non se ne parla più, e la strage di Srebrenica dell' 11 luglio 1995 non scuote le ipersensibili coscienze occidentali pronte a celebrare qualsiasi piccolo evento e i crimini degli altri, ma vili e mute dinanzi a quello che è stato il massacro più spaventoso del dopoguerra in Europa, più di 8.000 morti (maschi musulmani, essenzialmente) nel giro di tre giorni...

Come a cominciare da Virginia Woolf si è assistito alla fine del femminismo classico, che pure avrà una coda importantissima nel femminismo emancipatorio degli anni Sessanta-Settanta, e alla nascita di quello della “differenza”, rafforzato dalle energie fornite dall'emergere di nuovi soggetti nei Paesi del Sud del mondo, indagati e sostenuti dagli “studi culturali”; così in Simone Weil e in Alexander Langer si è assistito alla fine del pacifismo classico, quello del ciclo 1914-1989, per intravedere la nascita di un movimento di tipo politico che si fa carico dei mali del mondo, “nulla al ver detraendo”, e della durezza della storia, e che non si ritrae dinanzi alla necessità di darsi armi per intervenire. Le indagini in corso consistono nel capire se questo embrionale pacifismo “della responsabilità” si sia risolto nel complice realismo di chi si riduce ad approvare le più ignobili porcherie dei nostri governi (ripetute stragi di civili in Afghanistan e in Iraq, torture e relativa/indispensabile esibizione dei corpi torturati, corsa spietata all'accaparramento di materie prime, etc.) in nome di una violenta esportazione della democrazia, e irresponsabilmente disinteressato al dopo: al dopo-Dayton in Bosnia Erzegovina, ad esempio, disastro economico, devastazione delle coscienze, proiettili all'uranio impoverito; al dopo indipendenza del Kosovo/Kosova, con scia di regressi e di crimini, disamore ipernazionalista verso il proprio stesso Paese; al dopo guerre del Golfo, in Afghanistan, in Cecenia, ammesso che di un “dopo” si possa parlare, per questi crimini in corso, cronicizzati, anche sotto forma di ripetute stragi intramusulmane. Oppure se sia in grado di costruire una visione radicalmente alternativa dei rapporti umani, sociali e tra Stati, in grado di sottrarre armi a tutti gli attuali contendenti e nostri carcerieri: al cupo “occidente” delle missioni umanitarie e del modello di vita più vorace che mai sia stato messo in piedi (quotidianamente, oltre che militarmente, vorace, negli stili di vita anche dei suoi più feroci oppositori); al cupo “vicino oriente” dell'integralismo religioso ed economico di certo islam, che produce dittature sanguinarie, fanatismi e l'oppressione dei corpi, soprattutto delle donne ; al cupo “estremo oriente” che unisce le follie del comunismo reale a partito unico, alla violenza del capitalismo reale nella sua fase più aggressiva, quella dell'accumulazione e dell'annullamento dell'individuo. Tutti e tre questi carcerieri covano continue minacce alla pace e all'esistenza di ogni essere vivente: occorre provare a fermarli, prima che gettino via la chiave. A questo tentativo penso ci spingano le parole dell'ultimo Langer. In questo credo risieda la vera “conversione ecologica”, massimalista nel metodo e nei fini.



Gianluca Paciucci è nato a Rieti nel 1960. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato e lavora tra Rieti, Nizza e Ventimiglia; in questa città è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini” dal 1996 al 2001. Dal 2002 al 2006 ha svolto la funzione di Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sarajevo, e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina, come Responsabile dell'Ufficio culturale. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo. Ha pubblicato tre raccolte di versi, Fonte fosca (Rieti, 1990), Omissioni (Banja Luka, 2004), e Erose forze d'eros (Roma, 2009); suoi testi sono usciti nell’ “Almanacco Odradek”. Dal 1998 è redattore del periodico “Guerre&Pace”. Collabora con le case editrici Infinito, Multimedia e con la "Casa della Poesia".

lunedì 1 agosto 2011

Festa della Lavanda