TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 30 dicembre 2024

Per un bilancio dell'esperienza operaista

 



Nel 1988 nei numeri 1 e 2 della rivista “Progetto Memoria” apparve un primo tentativo di bilancio dell'esperienza operaista, considerata la più autentica espressione politica del movimento di lotta degli anni Sessanta e Settanta. Una analisi lucidamente critica che riproponiamo facendola precedere da una breve scheda informativa della rivista.

Il quaderno può essere letto (e scaricato) dal sito www.academia.edu

domenica 29 dicembre 2024

Martinezismo, willermozismo, martinismo e massoneria


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Questo scritto di Papus è stato pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1899, col titolo originale: "Martinezisme, Willermozisme, Martinisme et Maçonnerie" e rappresenta uno dei migliori esempi della deriva occultistica di settori della Massoneria, francese e non solo,manifestatasi alla fine del XIX secolo in reazione alla cultura positivistica allora in pieno sviluppo. Nonostante il suo carattere largamente “immaginifico”, il testo è ancora oggi considerato fondamentale da molti cultori di questa forma di esoterismo, tanto che ne esistono, a stampa e online, innumerevoli versioni nelle principali lingue. A differenza di costoro, per noi il testo ha invece valore esclusivamente storico, di testimonianza preziosa di un'epoca e di una cultura e come tale lo proponiamo.

Il quaderno è consultabile (e scaricabile) sul sito www.academia.edu

giovedì 19 dicembre 2024

Lotta Continua e la lotta nelle carceri

 

Contenente il reprint dell'opuscolo del 1972.

Liberamente scaricabile dal sito www. academia.edu

mercoledì 18 dicembre 2024

Salinari, L'anima nell'uovo di legno

 










Raffaele K. Salinari

L'anima nell'uovo di legno


Nella Berlino dei primi anni del «secolo breve» il piccolo Walter Benjamin comincia la sua esplorazione dell’ambiente circostante, cominciando ovviamente dalla casa. L’immaginazione infantile del filosofo dei Passages si sofferma su alcuni oggetti di uso comune che, nella sua fantasia, diventano veri e propri specchi del caos primigenio. Sono figure che ritroveremo nelle intuizioni folgoranti della sua filosofia, la scaturigine che Rilke aveva poetizzato nei famosi versi delle Elegie: «Non pensiate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia». E allora, mentre la madre ricama all’uncinetto un centrino, egli ferma la sua attenzione più che sul disegno compiuto, sulla dinamica sottile del suo farsi, sull’intreccio di trama ed ordito che, sul rovescio della tela, tramano la figura enigmatica che appare ad ogni punto sul risvolto e nella quale egli si perde come in un labirinto di sensazioni e rimandi. Il risvolto sulla tela diventa così la metafora del ri-tratto umano, il perché esso riesca così a far emergere l’essenza dell’anima. I fili si intrecciano come i nodi d’amore in un tempio latomistico evocando storie antiche. Tutto questo armeggiare materno ha nel cestino da lavoro il suo centro occulto, il suo Sancta Sanctorum insondabile: gli oggetti che contiene non sono certo «solo» per cucire o tagliare, sono strumenti magici, con uno scopo esoterico, noto solo alla potenza iniziatica materna che li maneggia così naturalmente. E tra questi, tanto arcano e potente da non essere nemmeno nominato esplicitamente, come il nome segreto di Dio, c’è l’uovo di legno.

Uovo e matrioska

Molti tra noi avranno avuto la stessa esperienza infantile di Benjamin, trovando nel cestino dei rammendi l’uovo di legno. Naturalmente lo abbiamo subito associato all’uovo nel frigorifero o a quello di Pasqua; ci siamo dunque chiesti a cosa potesse servire questo strano uovo fatto di legno. Forse i più diretti lo hanno domandato alla mamma o alla nonna, o forse anche a quei padri che frugavano maldestri, quasi furtivi, in cerca di qualcosa nel cestino. Altri invece hanno atteso pazientemente che l’oggetto misterioso venisse tirato fuori ed utilizzato. E così, in un modo o in un altro, abbiamo scoperto che serviva, ed ancora serve, a rammendare ad esempio le calze, dato che la sua forma particolare riesce ad adattare la stoffa al lavoro di restauro. Non è certo il caso qui di entrare nell’indefinito simbolismo dell’uovo, evocato come principio ordinatore in tutte le cosmogonie antiche, come quelle orfiche, come pure nell’iconografia religiosa.

Facciamo solo due esempi, riassunti, se così possiamo dire, da altrettanti quadri: per la religione cattolica è nota la Pala di Montefeltro di Piero della Francesca (1472-1474), per la sensibilità più laicamente moderna proponiamo il Geopolitico che osserva la nascita dell’uomo nuovo (1943) o più semplicemente L’aurora (1948) di Salvador Dalì. Per il pittore spagnolo in particolare l’uovo era una vera e propria epitome della sua visione pittorica paranoico-critica, riflesso di se stesso come creatore e creatura, basti ricordarlo nella famosa foto in cui è ritratto in posizione fetale come un embrione. La potenza simbolica dell’uovo era tale che la sua ultima dimora di Port Lligat era merlata di uova nelle quali il pittore voleva trasferire la propria anima. Vedremo come il desiderio di rinascita di Dalì verrà in qualche modo fissato all’interno di un’altra forma-uovo.

Tornando al principio della forma-uovo come adatta a rammendare un tessuto, essa trova una sua somma espressione artistica, sottilmente inquietante come si conviene a questo strumento eterotopico, nella matrioska russa. Ora, questo oggetto, o meglio questa serie di oggetti, ha una storia diremmo essoterica, visibile, ed una nascosta, esoterica: un lato in evidenza ed uno occulto dunque, com’è nella natura di tutto ciò che richiama le ripetizioni e le serie. A questo proposito è nota l’avversione di Borges per gli specchi, e qualcosa d’altro, poiché moltiplicavano l’essere umano. È esperienza comune la sensazione, al tempo stesso di meraviglia e di sottile ansia, che giunge quando ci si guarda tra due specchi che riflettono all’infinito la nostra immagine. Mutatis mutandis ciò è applicabile anche alla Matrioska data la successione di bamboline una dentro l’altra.

E allora la prima matrioska ufficiale risale alla fine dell’800, ad opera del facoltoso industriale russo e mecenate Savva Mamontov (1841–1918), fondatore del circolo artistico di Abramcevo. Torneremo tra poco su questo sodalizio artistico poiché l’idea della matrioska nasce proprio dalle leggende slavofile e dalle ascendenze sciamaniche che lo ispiravano.

Mamontov, infatti, aveva allestito il circolo nella propria tenuta di campagna riunendo attorno a sé pittori e artigiani dell’arte tradizionale dei contadini russi. Il suo intento era quello di far rifiorire e sviluppare questo genere artistico, e in questo era supportato dal fratello Anatolij, anch’egli imprenditore, editore e collezionista di opere d’arte.

Tra le varie sue attività vi era anche quella di collezionista di giocattoli: in particolare, all’origine dell’idea della matrioska ci fu una scultura che veniva dall’isola giapponese di Honshu, che raffigurava un personaggio della tradizione buddista, il vecchio saggio Fukurokuju, o lo stesso Budda storico Siddharta. Ma l’interessante era che questa scultura conteneva al suo interno altre quattro figurine del personaggio. A questo punto la storia comincia ad assomigliare realmente alla matrioska stessa: i giapponesi dell’isola sostenevano, infatti, che la prima di quelle figure fosse stata creata da un monaco russo convertito al buddismo, mentre l’idea delle figurine una dentro l’altra sarebbe derivata dalla tradizione delle cosiddette scatole cinesi.

La prima matrioska era composta da otto pezzi e venne costruita ai primi del Novecento dall’intagliatore Vasilij Petrovic Zvezdokin e colorata dall’illustratore di libri per l’infanzia Sergej Maljutin, che dipinse la bambola con il vestito tradizionale locale: camicia variegata, grembiule rosso e foulard legato sotto il mento. Poi vi inserì tante versioni più piccole della stessa. Si può considerare quindi la matrioska come una figura materna, da cui il nome, ed in particolare un riferimento alla fertilità. E infatti, secondo questa interpretazione folklorica, le otto piccole bambole che in origine componevano la prima matrioska rappresentavano, in ordine di grandezza, la madre, una ragazza, un ragazzo, una bambina, fino all’ultima figura, quella di un neonato in fasce, o appena nato. Questa è, di fatto, l’unica figura che non si può ulteriormente aprire, rappresenta dunque l’essenza irriducibile del complesso di bambole: il suo arcano. Vediamo perché.

Bambina di neve

Abbiamo detto che la matrioska nasce all’interno del cenacolo di artisti e scrittori Abramcevo. In particolare l’illustratore Maljutin, che colorò per primo le fattezze dell’oggetto, oltre a volergli dare un aspetto popolare, tenne in conto una storia tradizionale russa che si perde nel folklore siberiano, e dunque in un ambiente culturale e cultuale molto vicino a quello degli sciamani. Parliamo di Sneguročka la bambina di neve. Questa viene descritta come una bella ragazza dai capelli biondi a treccia, che porta un vestito azzurro bordato di pelliccia. Ci sono diverse versioni della fiaba: secondo alcune, Snegurocka era la figlia della Primavera e dell’Inverno. Faceva la sua apparizione in pieno d’inverno, per poi fare ritorno nel lontano nord durante l’estate. A lei era impedito di amare: in questo caso, al fuoco della passione, il suo corpo si sarebbe sciolto come neve al sole.

Un’altra versione racconta che Snegurocka era la figlia di una coppia che non riuscivano ad avere figli e, per questo motivo, avevano deciso di chiedere ad uno sciamano di aiutarli facendogli una figlia di neve. Un giorno, Snegurocka, andò in un bosco con altre ragazze per raccogliere dei fiori; le ragazze accesero poi un falò attorno al quale si misero a ballare; lo fece anche Snegurocka, che però si sciolse diventando una nuvola. I genitori, per ricordarla, si fecero fare dallo sciamano una bambola con le fattezze della bambina, in cui conservare la nuvola come fosse la sua anima.

Un’altra leggenda racconta che Snegurocka era la figlia della Fata Primavera e del Vecchio Inverno e che Jarilo, il Sole, che la Fata Primavera aveva rifiutato come compagno, l’aveva condannata a morire se mai si fosse innamorata di qualche ragazzo; per questo motivo veniva tenuta segregata dalla madre. Un giorno però Snegurocka vide un ragazzo che costruiva una statua di neve attorno alla quale il giovane si metteva a mimare una danza di corteggiamento. Riconoscendosi nelle fattezze della statua la ragazza esce dal suo nascondiglio e si mostra al giovane che subito se ne innamora, ricambiato: questo sentimento però costa la vita a Snegurocka, che si scioglie colpita da un raggio di sole. L’amante, spezzato dal dolore, decide di togliersi la vita, gettandosi in un lago. E così le due figure diventano altrettante sculture di ghiaccio che vengono costruite ogni inverno dai ragazzi e dalle ragazze del villaggio per farli rivivere il loro amore attraverso le statue di neve.

Da queste favole traspare come il motivo comune sia quello della morte e della sua feticizzazione attraverso la costruzione di un contenitore dell’anima. Il feticcio, in ogni cultura arcaica, è appunto un contenitore di spiriti o entità sottili di varia natura. Nella tradizione sciamanica, in particolare, lo sciamano si serve di tutta una serie di feticci antropomorfi, fitomorfi o zoomorfi per evocarne il potere relativo. Vedremo adesso come queste fiabe siano dunque una ennesima narrazione di pratiche tradizionali che servivano in qualche modo a preservare il ricordo dei bambini morti e come la loro progressiva trasformazione in semplici giocattoli non abbia eliminato del tutto, ma solo velato, il potere che deriva da oggetti che una volta erano concepiti per contenere l’essenza immortale di qualcuno.

Kokeshi o matrioska

Ora, appare chiaro come la matrioska, non fosse altro che per la totale mancanza di una controparte maschile, sia anche una rappresentazione di quelle antiche civiltà matriarcali in cui la donna esercitava una vera e propria potestas, cioè un potere costituito sull’autorevolezza nata dalla capacità non solo di ricreare la vita ma anche di curarla. Peter Sloterdijk, nel suo saggio sull’iperpolitica Sulla stessa barca, parla dei tempi letteralmente preistorici, da ciò anche il suo neologismo «paleopolitica», organizzati intorno al binomio madre-bambino come assicurazione per l’orda di una vita futura. In sintesi l’orda era una gigantesca incubatrice che, dice l’autore, avvolgeva la sfera in cui madri e bambini «ripetevano il mistero dell’uomo». Il filosofo di Sfere sostiene che poi le cosiddette civiltà avanzate, quelle della Storia, abbiano progressivamente distolto l’attenzione dalla riproduzione umana, per focalizzarsi sull‘uso dell’essere umano, così frantumando la centralità dell’unità madre-bambino che aveva dominato i primordi dell’uomo. Da questo si capisce come nello spazio paleopolitico sussistesse un matriarcato che si affermava attraverso la potenza dell’amore materno. Ma a questo punto entra in gioco l’origine del mitologema che accomuna la favola della bambina di neve alla matrioska e spiega, soprattutto, l’origine inquietante delle statuette giapponesi che furono prese ad esempio per la sua nascita. Tutto questo, ci dice ancora Sloterdijk, viene riportato attraverso una storia che sua nonna raccontava alla poetessa giapponese Yoko Tawada.

«Molto tempo fa, quando gli uomini soffrivano ancora di una sconfinata povertà nei loro villaggi, poteva succedere talvolta che le donne uccidessero subito dopo la nascita i loro figli, i quali altrimenti sarebbero morti di fame. Per ogni bambino ucciso veniva prodotta una kokeshi, che significa «far-sparire-bambini», affinché gli uomini non dimenticassero che erano sopravvissuti alle spese di questi bambini». Sloterdjik ci dice, a questo punto, che la poetessa collegava questa storia alla supposizione che la matrioska fosse una replica della kokeshi giapponese.

La kokeshi, in effetti, ha delle somiglianze notevoli con la matrioska, almeno esternamente. Realizzata in legno, ha un semplice busto cilindrico e una testa sferica che ricorda, ancora una volta, sia quella della matrioska, sia quella dell’uovo per rammendare. Anche le bambole kokeshi, come le matrioske, sono prive di braccia e gambe.

Ora, la cosa interessante è che esistono diversi significati di questa parola a seconda dei caratteri con i quali se ne scrive il nome: secondo la scrittura convenzionale in hiragana, il termine significherebbe semplicemente bambola (keshi) di legno (ki) o piccole (ko) bambole (keshi). Per arrivare a questa scrittura ed alla sua etimologia fu addirittura convocata la Kokeshi National Convention nell’agosto del 1939, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Questa collocazione temporale è significativa del clima culturale giapponese del tempo poiché ci si voleva affrancare da una visione arcaica della nazione anche cancellando alcuni riferimenti tradizionali. Infatti, il cambio di caratteri della scrittura, serviva a sostituire l’originale parola scritta in caratteri ateji, che significava piccoli papaveri. Qui è evidente il riferimento all’oblio, alla morte. Nella iconografia mitologica i gemelli Hypnos e Thanatos si distinguevano perché il sonno aveva in mano dei papaveri che poi passava al fratello nel momento della morte; il quadro di John William Waterhouse (1874) ce ne dà una visione sublime.

Ma, ciò che a noi interessa, è che il nome kokeshi scritto in kanji, altra scrittura giapponese, significhi appunto «eliminazione del bambino», facendo dell’uso originario delle bambole dei veri e propri feticci dedicati dalle madri ai propri bambini uccisi volontariamente dopo la nascita, come riferisce Yoko Tawada nel suo libro Dove comincia l’Europa. Anche se questa interpretazione viene oggi ufficialmente rigettata, le prime bambole kokeshi furono in realtà realizzate dagli artigiani del legno, i cosiddetti Kiji-shi, sul finire del Periodo Edo (1600-1868), quando l’infanticidio era pratica relativamente comune nelle comunità povere.

Ecco, allora, che il cerchio delle analogie si chiude. Forse la sottile inquietudine, il perturbante, che la matrioska evoca, al di là del suo aspetto bonario e colorato, risiede proprio nella sua origine, e che anche per queste ascendenze arcane Walter Benjamin, guardando incantato il lavoro sul rammendo attorno all’uovo di legno, sia stato affascinato, come in un gioco di specchi che riflettono, nell’amore e nella morte, l’antico potere materno delle origini.


Il Manifesto/Alias – 30 novembre 2021

martedì 17 dicembre 2024

martedì 10 dicembre 2024

Il cammino nell'arte

 


mercoledì 4 dicembre 2024

In cammino nella Prima Zona Liguria


 

martedì 3 dicembre 2024

mercoledì 27 novembre 2024

D'Autunno Francesco


 

venerdì 22 novembre 2024

Potere Operaio n.1 (1969)

 


A metà settembre del 1969, nel pieno della più grande stagione di lotte operaie del dopoguerra, usciva il primo numero del settimanale “Potere Operaio”. Il giornale, espressione dell'omonimo gruppo politico, si poneva in diretta continuità con l'esperienza della rivista “La Classe” uscita nei mesi precedenti. Ne proponiamo i principali articoli in cui si fissava la linea politico-strategica del gruppo a partire da un punto fermo: la lotta operaia non doveva essere vista in un'ottica meramente contrattuale, ma come lotta immediatamente politica contro il potere del capitale e del suo Stato. Il linguaggio è molto duro, come duri erano quei tempi.

Nell'articolo Per una direzione politica delle lotte leggiamo:

Sappiamo anche che i tempi del contrattacco padronale saranno quelli dell'attacco operaio. Ma quello che ora soprattutto vogliamo sottolineare non sono tanto i contenuti specifici del suo contrattacco quanto la forma in cui questo verrà portato: la forma della violenza statale. Lo stato in prima persona scenderà nella lotta a tutelare contro gli operai gli interessi dei padroni, mascherati dietro la mistificazione dell'interesse generale, del bene di tutti, delle necessità oggettive dello «sviluppo». Lo stato fa questo, deve fare questo perché esso è «la direzione politica» della classe dei capitalisti”.

Lette oggi, a distanza di tanti anni, queste frasi sembreranno probabilmente a molti una tipica manifestazione di quel massimalismo parolaio che la vulgata dei vincitori, eredi del PCI berlingueriano compresi, associa da sempre alla pratica politica dei gruppi della muova sinistra. Tre mesi dopo, il 12 dicembre, la strage di Piazza Fontana e subito dopo l'assassinio di Giuseppe Pinelli avrebbero dimostrato che non di vuota retorica si trattava, ma di una lucidissima visione politica.


Il quaderno è liberamente consultabile sul sito www.academia.edu


lunedì 18 novembre 2024

Metropoli- Reprint del n.1 (1979)

 



Metropoli è stata una rivista politica dell'area larga della Autonomia Operaia, fondata, tra gli altri, da Franco Piperno e Oreste Scalzone. La rivista ha una lunga gestazione.

Alcuni dei redattori della rivista (Scalzone, Piperno, Lauso Zagato) furono arrestati in seguito all'operazione "7 aprile", ancora prima cioè che il numero arrivasse in edicola. Due giorni dopo la sua apparizione, la rivista fu subito sequestrata e mandati di cattura furono poi spiccati contro altri suoi redattori. Il secondo numero apparve solo un anno dopo, nell'aprile del 1980.

Progettata per essere un mensile, solo a partire dal numero 3, apparso nel febbraio del 1981, la rivista esce con regolarità bimestrale fino al dicembre dello stesso anno, quando appare il numero 7, l'ultimo.


Il quaderno, consultabile sul sito www.academia.edu, propone il reprint del primo numero con il famoso fumetto sul caso Moro che  portò al sequestro della rivista e all'arresto di alcuni suoi redattori.


domenica 10 novembre 2024

Il circolo culturale Piero Calamandrei


 

venerdì 1 novembre 2024

Dove tutto è iniziato

 





Mia nonna materna, Rosa Giribaldi, orgogliosamente portorina (era nata alla fine dell'Ottocento nel cuore del Parasio), allora giovane operaia socialista, si fece scattare questa foto nel 1915 alla partenza di mio nonno, Giuseppe Carli, per il fronte.

Un pegno d'amore, una promessa per la vita.

Mio nonno la portò con sé nelle trincee del Monte Pasubio, dove cadde il fiore della gioventù del Ponente ligure, e poi la conservò gelosamente per tutta la vita. Dal 1980 la custodisco io con altrettanta cura, perché senza il loro amore, simboleggiato da questa foto, io non ci sarei, né ci sarebbe mio figlio, né i miei nipoti.



Scienza e società




In una società come l'attuale, tanto complessa e articolata, dove i diritti di cittadinanza sono erosi, se non radicalmente rimessi in discussione da una crisi economica di lungo periodo e da un vero e proprio default delle forme e degli ambiti della rappresentanza, la scienza, o meglio una corretta informazione scientifica può fungere da argine al processo, che appare in atto in tutto l'Occidente, di marginalizzazione della volontà popolare? Detto altrimenti, una più puntuale comprensione del dato scientifico, può davvero migliorarci la vita e renderci cittadini più consapevoli al momento delle scelte (vedi referendum sul nucleare e i beni comuni, dibattito sulle staminali o la procreazione assistita, ecc)?


Il testo è scaricabile da: www.academia.edu

mercoledì 30 ottobre 2024

Lungo le vie del sale. Fra Liguria e Piemonte a dorso di mulo


 Scaricabile dal sito www.academia.edu

giovedì 17 ottobre 2024

Tina Modotti da scoprire

 


Laris Massari

Tina Modotti

Tina Modotti è stata una donna fuori dal comune, capace di abbracciare una vita in cui arte, politica e amore s’intrecciavano in un equilibrio instabile ma affascinante. Il suo percorso si snoda attraverso i continenti, e tra rivoluzioni e passioni, lasciandosi dietro un’eredità profonda quanto difficile da decifrare. Nata nel 1896 a Udine, in una famiglia di umili origini, fin dalla giovane età dimostra una curiosità irrequieta per il mondo oltre i confini del Friuli. La terra in cui cresce è multilingue, multiculturale, e ciò plasma in lei un’apertura mentale che la porterà ben presto a lasciare l’Italia per cercare la propria strada all’estero.

È negli Stati Uniti, a San Francisco, che Tina inizia a scolpire la propria identità. Lavorando come operaia, vive la durezza della vita degli immigrati, ed è proprio tale contesto che l’avvicina ai circoli culturali e artistici della città. Nonostante le difficoltà economiche, sono il suo fascino e il suo talento innato che la portano presto a calcare i palcoscenici teatrali, e ben presto si apre davanti a lei il mondo del cinema muto, all’epoca in pieno sviluppo. Hollywood l’accoglie con favore e Tina potrebbe facilmente costruirsi una carriera luminosa, per la sua bellezza mediterranea e la capacità di adattarsi ai ruoli del nascente cinema statunitense. Il suo volto, pervaso da un’intensa malinconia, emerge nel panorama hollywoodiano, incarnando il tipo di bellezza enigmatica e misteriosa che il cinema muto sapeva esaltare. Ma la sua personalità complessa emerge fin da allora, provocando in lei insoddisfazione verso la superficialità del mondo dello spettacolo. Il suo spirito ribelle e la sua sete di conoscenza la spingono a esplorare nuovi orizzonti, sul piano artistico e sul piano umano.

Il suo incontro con il fotografo Edward Weston (1886-1958) segna una svolta fondamentale. La fotografia diventa per lei non solo un mezzo di espressione artistica, ma anche uno strumento per dare voce alle proprie convinzioni politiche e sociali. Weston è il suo maestro, il suo amante - era già sposata con «Robo», il pittore e poeta Roubaix de l’Abrie Richey (1890-1922) - senza che Tina rimanga mai nell’ombra: assorbe con intensità gli insegnamenti tecnici, sviluppando però un proprio stile fotografico, che riflette la sua visione profonda della vita e del mondo. L’intimità con Weston, pur intensa, non oscura la sua voglia d’indipendenza. È una donna che non teme di esporre la propria sensualità, né di rompere con le convenzioni dell’epoca. In un momento storico in cui la figura femminile era ancora strettamente legata a ruoli tradizionali, Tina sfida tali norme con audacia: lo fa nella vita privata così come nell’arte.

È in Messico, inizio degli anni ’20, che Tina trova la propria autentica dimensione. In una terra sconvolta dalle ferite ancora aperte della Rivoluzione, s’immerge totalmente nel fervore politico e sociale che pervade il Paese. La sua arte, fino a quel momento caratterizzata da una ricerca estetica di tipo formale, si trasforma in un potente strumento di lotta. Attraverso le sue fotografie Tina documenta la realtà delle classi più povere - operai, contadini e braccianti - diventando una testimone attiva di un cambiamento sociale in atto. Le sue immagini, intrise di umanità, sono al tempo stesso opere d’arte e manifesti politici, capaci di suscitare emozioni e riflessione.

Nel contesto messicano incontra Julio Antonio Mella (1903-1929), rivoluzionario cubano, con cui condivide una profonda passione amorosa, oltre al comune impegno politico. Mella rappresenta per Tina l’incarnazione dell’eroe rivoluzionario: giovane, carismatico, devoto alla causa socialista. La loro storia, breve e tragica, è un turbine in cui si fondono amore, passione e politica. La morte prematura di Mella, ucciso da mani sospette, lascia in lei una ferita che non si rimarginerà mai del tutto. Di lì in poi Tina s’immerge sempre più nel mondo della politica, avvicinandosi al movimento «comunista» d’obbedienza moscovita e diventando una figura di riferimento per il Soccorso rosso internazionale. 

Con la sua fede negli ideali rivoluzionari, Tina si ritrova a navigare nelle acque torbide del presunto comunismo staliniano, legata a personaggi ambigui e manovrata da forze più grandi di lei. La ex attrice ed ex fotografa cede al mito della Grande Madre sovietica, come tante altre tragiche figure animate originariamente da sincero spirito comunista. La relazione con Vittorio Vidali (1900-1983), altra figura enigmatica della sua vita, la trascina ancora più a fondo nel mondo del Comintern. Un uomo che lei forse un giorno scoprirà essere, con forti probabilità, uno dei complici nell’omicidio del suo amato Mella. La tragedia nella tragedia…

Parte per la Spagna, si unisce alla lotta contro il fascismo nella Guerra civile. Anche qui, fra le trincee e le macerie, l’ideale rivoluzionario sembra logorarsi sotto il peso del tradimento con cui le principali forze politiche repubblicane soffocano la Rivoluzione spagnola.

Con il tempo, tuttavia, Tina inizia a intuire e poi forse a comprendere le ombre del mondo stalinista cui si è legata. Nonostante la sua adesione sincera agli ideali comunisti, le brutalità e i compromessi che osserva dall’interno del sistema la turbano profondamente. L’illusione di una rivoluzione pura, in grado di cambiare radicalmente le sorti dell’umanità, inizia a sgretolarsi di fronte all’azione reale del movimento, del quale lei riesce finalmente a vedere anche gli aspetti criminali. Nonostante ciò, non cessa di lottare, e alcuni elementi della sua biografia dimostrano che negli ultimi anni di vita il suo impegno assume una forma più consapevole, critica, anche se non è dato sapere fino a che punto lo sia.

Il Patto Hitler-Stalin (agosto 1939) è il colpo finale. La donna che aveva dedicato la vita alla lotta per la libertà e per gli ideali di una società socialista, comincia a rendersi conto che il sistema in cui aveva creduto sta tradendo gli stessi ideali che le erano stati cari. Raro esempio nel mondo del comunismo staliniano (rarissimo tra i comunisti italiani, come mostra più avanti il testo di R. Massari), Tina non approva il Patto scellerato da cui ebbe inizio la Seconda guerra mondiale. È un atto di profonda coerenza morale, un rifiuto di piegarsi alla logica spietata della politica. E proprio qui, nel suo ultimo atto di ribellione, Tina ritrova se stessa. Intuisce la portata devastante di un’ideologia che sacrifica l’individuo in nome di un’astrazione: non più l’artista manipolata, non più la rivoluzionaria sacrificata sull’altare di una causa che si è trasformata in tirannia, bensì una donna che ha scelto di restare fedele alla propria umanità, sino alla fine.

In tale contesto essa si riscatta, recuperando la grandezza del suo essere artista e rivoluzionaria, ma anche donna capace di vedere oltre le illusioni politiche del proprio tempo. Forse anche per questo la sua morte improvvisa a 45 anni - in circostanze molto simili a quelle in cui morirà Victor Serge (1890-1947) nella stessa Città del Messico, pochi anni dopo di lei - ha lasciato molto più di un semplice sospetto sulle circostanze in cui avvenne. E cioè che i sicari staliniani si siano voluti liberare di una donna che sapeva troppo, una testimone scomoda soprattutto dei molti assassinî di antifranchisti compiuti nella Spagna repubblicana. 

Tina è stata, e rimane, un simbolo di coerenza, passione e lotta. È stata una fotografa talentuosa, una musa, una militante politica, una donna libera (anche sessualmente) in un’epoca che non perdonava tale libertà soprattutto alle donne. Non è stata indenne dalle colpe e miserie della sua epoca, e soprattutto del suo movimento di appartenenza: ha amato, ha sbagliato, è stata certamente complice più o meno consapevole dei crimini del Soccorso rosso internazionale, senza mai perdere la fede, però, nella possibilità di un mondo migliore. È stata disposta sino in fondo a confrontarsi con i propri limiti e le proprie contraddizioni: in queste imperfezioni risiede la sua grandezza.

Tina è una figura viva, che ci parla ancora della lotta per rimanere coerenti con se stessi, in un mondo che spesso ci chiede di essere altro. Oggi, guardando alla sua vita, non possiamo fare a meno di chiederci cosa significhi essere donne e uomini in una realtà in continuo cambiamento, una realtà che a volte ci tradisce, ma che ci offre sempre la possibilità di riscatto.

Cosa c’insegna, allora, la sua storia? Che vivere con integrità e coerenza gli ideali dai quali si è animati, non è mai facile, che la purezza ideale è fragile. Con la sua breve e tormentata esistenza - donna, artista e ribelle - Tina ha dimostrato che non c’è nulla di più rivoluzionario dell’essere sino in fondo, pienamente e ostinatamente, umani.

Che dire di Tina come artista? La si può valorizzare anche in un contesto contemporaneo? Oppure il suo lascito è inesorabilmente segnato dal tempo in cui visse e dai contesti politici in cui operò (fondamentalmente il Messico postrivoluzionario)?

Il concetto di arte va espandendosi. All’artista del nostro tempo non è necessariamente richiesto di mettere in atto un talento per ottenere il successo. La capacità espressiva si trasforma in un’interpretazione preconfezionata e veicolata per lo spettatore. Il messaggio dell’opera è divenuto fondamentale, più della sua forma espressiva, affinché essa possa definirsi «arte».

Ebbene, Tina non si considerava e non voleva che la si considerasse un’artista, né riteneva che la sua fotografia fosse arte, essendo fondamentalmente interessata al messaggio che le immagini ritratte dalle sue foto trasmettevano. Le sue opere grondano di messaggi ed è evidente che questo intento era prevalente per lei: era anche un suo limite, allo stesso tempo.

Eppure, ai miei occhi  - sicuramente condizionati dall’artificialità degli sviluppi che la fotografia odierna sta vivendo - il suo modo di raffigurare la realtà meriterebbe il titolo di «artistico», o perlomeno di pionieristico avvio di un percorso artistico (quello del realismo fotografico, antisala dell’iperrealismo). Nel non considerarsi un’artista lei stava forse eccedendo in modestia (dote rara per i tempi correnti), ma io sarei portato a pensare che in fondo non avesse ragione.

E questo perché Tina esercitava l’arte della fotografia, nel senso che sapeva replicare la realtà con grande maestria, utilizzando i procedimenti più avanzati della tecnica fotografica dell’epoca sua: una delle più grandi fotografe dell’inizio del XX secolo, com’è spesso considerata. Basti osservare la differenza tra le sue fotografie e quelle di Edward Weston per capire che c’è modo e modo di catturare un momento del reale.

Quest’antologia rappresenta un omaggio a una figura complessa e affascinante, il cui nome è rimasto a lungo avvolto dal silenzio. A partire dagli anni ’70 e ’80 del Novecento, ricerche pionieristiche di studiosi italiani - come Riccardo Toffoletti e Pino Cacucci - hanno contribuito alla sua riscoperta, ciascuno a suo modo: Toffoletti con la ricostruzione del suo itinerario fotografico, Cacucci con la ricostruzione della vita di Tina esposta con la sua prosa avvincente. È grazie a loro, e ad altri studiosi e artisti, che l’opera e la vita di Tina hanno trovato nuovo spazio nel panorama editoriale e culturale. Un fenomeno che ha portato alla realizzazione di numerose mostre in tutto il mondo.

In particolare, va segnalata la bella esposizione al Palazzo Roverella di Rovigo (sett. 2023-genn. 2024), curata da Riccardo Costantini (n. 1981). Ho avuto il piacere di visitarla ed è lì che è nata l’idea di questo libro. Davanti a quelle immagini ho provato un forte senso di coinvolgimento nel mondo ideale di Tina, trovandomi immerso in un percorso di forte valenza emotiva, che intreccia la sua arte, la sua lotta e il suo destino.

L’antologia qui presentata è costruita seguendo criteri vòlti a esplorare soprattutto l’epopea politica di Tina Modotti, vale a dire un aspetto centrale troppo spesso trascurato nelle analisi a lei dedicate. Sono stati inclusi materiali in gran parte sconosciuti, e la scelta degli autori ha mirato a dar voce a figure che, come Dante Corneli, Pino Cacucci, Pino Bertelli e Roberto Massari, condividono una prospettiva fortemente antistalinista, contribuendo a una riflessione più completa e critica della sua esperienza di vita. L’aver dato voce, poi, a vari eminenti studiosi non italiani, è stata una scelta mirata a contestualizzare la vicenda di Tina in un quadro internazionale. Una tale selezione mira a far emergere oltre all’artista e alla fotografa di talento, anche la donna che ha vissuto intensamente e in modo contraddittorio le grandi trasformazioni del suo tempo.

L’antologia, con i suoi contributi inediti e l’approfondimento della dimensione politica, vuole dunque essere un tributo alla scoperta o riscoperta di una donna straordinaria, il cui lascito ci parla sicuramente del passato, in gran misura del presente e, perché no?, fors’anche del nostro futuro…


venerdì 11 ottobre 2024

Ciao, Tino

 


Ciao, Tino

E così se ne è andato anche Tino Gaggero. Compagno di lavoro e amico fraterno. Uso volutamente il termine "compagno", nel suo senso profondo di cumpanis, persona con cui si condivide il pane, perchè esprime perfettamente il suo modo di approcciarsi agli altri, fossero i suoi allievi, i colleghi o i genitori.

Tino accoglieva tutti con il sorriso, una garbata ironia e un'aria disincantata che non lasciava indifferente chi lo incontrava. Vero educatore, sapeva infondere fiducia ai ragazzi, farli sentire apprezzati e amati.

Siamo stati amici dal primo incontro nel 1990 quando assunsi la direzione della scuola "Della Rovere". Aveva un modo di sorridere, strizzando gli occhi, che immediatamente ti metteva in contatto non coll'insegnante, ma con l'uomo.

In dieci anni di lavoro insieme sono state tante le occasioni in cui mi sono rivolto a lui per un parere. Perché Tino, capiva le persone, sapeva valutarle e i suoi consigli erano preziosi.

Ma il meglio di sè lo dava nell'attività di ceramista, Lo era per vocazione, lo faceva con amore. Lo scoprivi visitando la sua bottega, dall'entusiasmo quasi infantile con cui ti mostrava i pezzi e te ne spiegava la lavorazione.

Non credo si sia mai considerato un artista, ma un artigiano si, e bravo. Uno dei pochi a coltivare ancora con maestria l'arte antica della terra e del fuoco.

Non ci vedevamo da qualche anno, ma l'amicizia restava profonda. Una amicizia fra uomini che avevano condiviso esperienze, gioie, difficoltà. "Compagni" appunto.

Un grande abbraccio Tino, dovunque tu sia ora.


lunedì 7 ottobre 2024

Chi sono gli amici di Hamas in Italia



Il 7 ottobre segna un anno da quando Hamas ha invaso le difese di confine nel sud di Israele, attaccato obiettivi militari, preso ostaggi – per lo più civili – ed è tornato alle sue basi.

Questo l'inizio del delirante comunicato con cui un sedicente Partito comunista dei lavoratori rivendica il pogrom antisemita di Hamas.
Evidentemente per questi "comunisti rivoluzionari" erano obiettivi militari i bambini, gli anziani, le donne trucidati in modo orribile nelle case dei kibbutz invasi, i ragazzi e le ragazze uccisi a centinaia mentre partecipavano a un concerto, le centinaia di ragazze violentate o gli ostaggi esibiti come trofei nelle strade di Gaza.

Ma se è così, se ogni ebreo è in quanto tale un obiettivo militare, con che coerenza definire genocidio la risposta militare di Israele a Gaza?

In realtà, ciò che li anima è una avversione totale all'Occidente e a tutto ciò che questo rappresenta. Per questo oggi sono sostenitori di Hamas, come lo furono del terrorismo islamico ai tempi della guerra in Iraq, quando il loro leader, allora ancora in Rifondazione, coniò lo slogan "Uno, cento, mille Nassyria" presentando come una azione rivoluzionaria la strage dei soldati italiani in missione di pace, o quando, dopo l'11 settembre, dichiararono il loro pieno appoggio ai Talebani afghani.

Una gruppettino insignificante, si dirà, che esaspera i toni per far vedere che esiste e reclutare qualche militante nell'ala estrema del movimento pro Palestina. Certo, ma sufficiente a rendere sempre più impronunciabile la parola comunismo e ad alimentare l'antisemitismo ancora ben presente fra noi.

In ricordo delle vittime del terrorismo palestinese in Israele e in Italia

 In ricordo delle vittime del massacro del 7 ottobre 2024 e di quelle del terrorismo palestinese in Italia. 






domenica 6 ottobre 2024

Mai credere ai numeri

 


Nel 2011 lo “scienziato cognitivo”, così si autodefiniva, Steven Pinker pubblicò un saggio, di grandissimo successo, dal titolo “The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined”. Poi pubblicato nel 2016 da Mondadori con il titolo:“Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l'epoca più pacifica della storia”.

Nel saggio, che ebbe diffusione mondiale, l'autore sosteneva che la violenza nel mondo era diminuita in modo significativo, tanto da far pensare che l'umanità vivesse ormai nella fase più pacifica di tutta la sua storia. Il suo non voleva essere un auspicio, né una ipotesi, ma un dato assolutamente certo, fondato su una quantità di dati che dimostravano, a suo parere, un massiccio calo della violenza in tutte le sue forme, dalla guerra al miglioramento del trattamento dei bambini e delle donne.

Un progresso dovuto alla maggiore alfabetizzazione e allo sviluppo dei mezzi di comunicazione che permettendo una migliore conoscenza reciproca dei singoli e dei popoli aveva provocato la tendenza a una risoluzione razionale dei problemi sia nei rapporti individuali che internazionali e dunque al rifiuto della violenza.

A distanza di pochi anni possiamo tranquillamente dire che mai un libro è stato tanto rapidamente e clamorosamente smentito, a dimostrazione che in una società come la nostra fondata sul feticcio della oggettività dei numeri, con un uso acconcio delle statistiche si può dimostrare qualunque tesi.

giovedì 3 ottobre 2024

I Brignone signori del corallo

 





mercoledì 25 settembre 2024

 


martedì 10 settembre 2024

Grande arte in piccoli borghi, un'alchimia affascinante

 Viviamo in tempi di mostre-spettacolo e di turismo culturale di massa, dove l'importante è poter dire "l'ho vista", con lo stesso spirito del bimbo che parla ai compagni delle sue figurine.

Ma l'incontro con l'arte può anche essere occasione di scoperta del territorio. Grande arte in piccoli borghi, un'alchimia affascinante.





lunedì 9 settembre 2024

Come indiani sulle colline

 


Tra il 1975 e il 1978 trasmise a Savona RS 102. Questo è un abbozzo di storia di quell'esperienza pensato per una pubblicazione collettiva.

Il testo è consultabile e scaricabile dal sito www.academia.edu

venerdì 30 agosto 2024

mercoledì 21 agosto 2024

Quanto è utile Orwell a capire la politica di Putin (Ucraina compresa)

 


Quanto può essere ancora utile l'opera letteraria di George Orwell per capire la Russia di oggi e la politica di Putin, invasione dell'Ucraina compresa? Noi crediamo ancora molto. Ce lo ha confermato la lettura di questo saggio, uscito l'anno scorso a cura di una prestigiosa casa editrice britannica e scritta da una autorevole studiosa russa che dall'inizio degli anni Novanta vive e lavora nel Regno Unito. Ne consigliamo la lettura, anche se purtroppo il libro non è stato tradotto, proponendone l'introduzione.

G.A.

Leggendo Orwell in Russia e Gran Bretagna

"È sicuro tenere questo libro a casa durante la notte?" - mi chiese mia madre, quando a Leningrado, a metà degli anni Settanta, i miei amici mi avevano dato una copia del proibito 1984 per un paio di giorni e lo stavamo leggendo entrambi. La sua esperienza le aveva insegnato che perquisizioni e arresti "avvenivano invariabilmente di notte" e, sebbene fosse l'epoca di Brežnev piuttosto che di Stalin, la spaventosa somiglianza della vita cupa e crudele in Oceania con la nostra era schiacciante. "Come faceva a saperlo?" ci chiedevamo. La stessa domanda è stata posta da numerosi altri lettori che hanno avuto la fortuna di mettere le mani sull'ultimo romanzo di Orwell nell'Unione Sovietica e in tutta l'Europa orientale tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Ottanta.

Poi, con la perestrojka di Gorbachev, le cose iniziarono a cambiare, i libri non furono più vietati, ma, sfortunatamente, dopo settant'anni di governo comunista, la vera trasformazione si rivelò troppo difficile per la Russia: non riuscì a eliminare il totalitarismo dal suo sistema. Sotto Putin divenne ovvio che Orwell era di nuovo rilevante. "Come faceva a saperlo?", si chiedevano i nuovi lettori nel 2022, trovando difficile credere che lo stato russo nella sua sinistra assurdità avesse improvvisamente lanciato una guerra brutale, che stava uccidendo migliaia di persone e radendo al suolo città fiorenti, ma non era consentito chiamarla guerra. Quando Putin riportò indietro l'orologio, divenne chiaro che non solo gli slogan dell'Oceania, ma quasi tutte le altre caratteristiche totalitarie identificate da Orwell tornarono più o meno nella stessa forma in cui le aveva descritte.

È sempre sembrato un miracolo a coloro che si trovavano dalla parte sbagliata della cortina di ferro che uno scrittore straniero riuscisse a "trasmettere pienamente cosa significhi un regime totalitario in termini di individui che vi vivono" e a farlo in modo tale che questi non solo accettassero completamente l'autenticità della sua descrizione, ma si meravigliassero della sua capacità di dire loro cose che sentivano, ma che non sempre riuscivano ad articolare. Sembra un miracolo oggi che le osservazioni di Orwell del 1948 si siano dimostrate accurate non solo nel 1984, ma anche nel 2022.

Questo libro fu originariamente concepito come un tentativo di esplorare la natura di questo miracolo. Orwell non parlava né leggeva il russo, né mise mai piede in Unione Sovietica, ma non riusciva a smettere di pensare al paese, poiché era sgomento per la sua cupa traiettoria dalla rivoluzione contro una autocrazia alla creazione di una nuova autocrazia. L'impatto di 1984 fu raggiunto, come Orwell aveva sperato, dalla fusione di politica e arte: dalla sua miscela unica di profonde intuizioni sociologiche su un regime totalitario (qui era, senza dubbio, influenzato dalla sua amicizia con il sociologo ormai quasi dimenticato Franz Borkenau, un pioniere della teoria del totalitarismo) e dalla sua immaginazione letteraria che gli consentì di mettersi nei panni di coloro che avevano vissuto il regime in prima persona. "Sentiva la tragedia russa come se fosse la sua", scrisse Victoria Chalikova, la prima studiosa di Orwell in Russia, notando la sua "capacità di immergersi completamente nel ruolo di una vittima riflessiva e consapevole del terrore politico".

Eppure non fu solo la compassione per le vittime del totalitarismo a spingere Orwell a scriverne. Nonostante la sua preoccupazione per la Russia, evidente non solo nella sua narrativa ma anche nei suoi saggi, nella sua rubrica sul Tribune, nei suoi diari e nella corrispondenza, la sua preoccupazione principale era per il suo paese. Orwell vide con notevole chiarezza il pericolo che il sistema sovietico e i suoi "agenti pubblicitari", come chiamava sprezzantemente i comunisti britannici, rappresentavano per la Gran Bretagna. "Non ho alcun desiderio di interferire con il regime sovietico, anche se potessi", scrisse nel 1945. "Semplicemente non voglio che i suoi metodi e le sue abitudini di pensiero vengano imitati qui". Tutti i suoi scritti politici, il suo giornalismo, la sua "favola", il suo ultimo romanzo, deliberatamente ambientato a Londra, sono indirizzati ai suoi compatrioti, all'intellighenzia britannica di sinistra che, con poche eccezioni, era infatuata del "mito russo". "È innanzitutto necessario far vedere alla gente il regime russo per quello che è realmente", scrisse nella stessa lettera, aggiungendo con sorprendente modestia tra parentesi "(vale a dire quello che penso che sia)".

In effetti, La fattoria degli animali e 1984 contribuirono a smascherare il regime sovietico. Ma subito dopo il crollo dell'Unione Sovietica nel 1991, la comprensione del messaggio di Orwell iniziò a svanire, non dagli studi su Orwell, che si sono sviluppati e ampliati, ma dalla politica contemporanea e di conseguenza dalla più generale visione culturale. Poiché il 1991 fu l'anno in cui mi trasferii a Londra, potei vedere quanto rapidamente i media britannici iniziarono a trattare la visione politica di Orwell come obsoleta.Il pericolo del totalitarismo divenne sempre più vago e obsoleto nella mente delle persone e nel ventunesimo secolo. L’ultimo romanzo di Orwell fu sempre più letto come un avvertimento contro la tecnologia piuttosto che contro il sistema politico che la sosteneva.

Nel 2013, quando nel Regno Unito fu celebrato il 110° anniversario di Orwell, la parola “totalitarismo” sembrava essere completamente caduta in disuso. Numerosi tributi elogiarono la prosa limpida dello scrittore, la sua denuncia dell’imperialismo britannico e la sua condanna della disuguaglianza sociale. Fu elogiato per la sua precoce consapevolezza dei problemi ambientali, per la sua sfacciata celebrazione del carattere nazionale inglese e persino della cucina inglese. Non c'era quasi una parola sui media sul principale obiettivo degli ultimi dodici anni della sua vita: mettere in guardia contro l'attrattiva di un regime basato sulle menzogne. I politici semplicemente non ne erano più interessati.

Questa era un'illusione, e anche Orwell aveva messo in guardia contro di essa, solo che il suo consiglio era stato quasi completamente ignorato.

"Per quanto ne so, al momento della pubblicazione del mio libro la mia visione del regime sovietico potrebbe essere quella generalmente accettata. Ma a cosa servirebbe di per sé? Scambiare un'ortodossia con un'altra non è necessariamente un progresso. Il nemico è la mente del grammofono, che si sia o meno d'accordo con il disco che si sta ascoltando in quel momento".(Orwell, "La libertà di stampa", in The Complete Works of George Orwell, a cura di Peter Davison, 20 voll. (Londra: Secker & Warburg, 1998), Vol. XVII, 259)

Nei trent'anni e passa in cui ho vissuto in Gran Bretagna ho avuto molte opportunità di osservare il lavoro della "mente del grammofono" e le apparizioni di nuove ortodossie, a volte sospettosamente simili a quelle vecchie.

Ho assistito alla creazione del nuovo "mito russo". Qui si credeva ampiamente che, dopo aver detto addio al passato sovietico, la Russia fosse diventata quasi da un giorno all'altro una democrazia capitalista come tutte le altre, forse con le sue peculiarità, ma almeno la sua "ideologia", così si sosteneva, non differiva da quella degli altri tanto quanto era stato per il comunismo. Né l'estrema brutalità delle sue due guerre cecene, né la sua guerra in Georgia nel 2008, l'annessione della Crimea e l'invasione del Donbass nel 2014, gli assassinii di giornalisti e oppositori politici in patria e all'estero, le leggi repressive contro la società civile, né la corruzione, che si è spostata oltre i confini e ha colpito politici e commentatori occidentali, sono stati in grado di infrangere questa immagine radiosa. Se ai tempi di Orwell il mito era creato e sostenuto dall'ingenuo idealismo e dall'ignoranza della sinistra, ora era un'incredibile mancanza di giudizio politico, unita a un'avidità sfrenata, a spingere gruppi e individui di ogni tendenza ad accaparrarsi i finanziamenti generosamente offerti dalle autorità russe – insieme, naturalmente, all’abile propaganda e alla profonda infiltrazione della Russia.

Da nuova arrivata, sono rimasto anche stupita nello scoprire che coloro che in Occidente, come Orwell, simpatizzavano con le persone che vivevano sotto il totalitarismo sovietico e cercavano di aiutarle, sia attirando l'attenzione sulla loro situazione, sia trasmettendo e inviando libri al "blocco sovietico", venivano definiti con disprezzo "cold warriors" - ed era ovvio che Orwell si era sottratto a questo soprannome dispregiativo solo perché morì all'inizio del 1950. E in seguito, quando si discuteva della "Guerra fredda", spesso mi sembrava che oratori e scrittori non vedessero alcuna differenza tra la posizione delle democrazie occidentali, che, con tutti i loro numerosi difetti, cercavano ancora di difendere i valori liberali, e l'aggressivo impero sovietico, una minaccia sia per i propri cittadini che per quelli di altri paesi. Inoltre, coloro che tentavano di criticare ciò che avveniva nella Russia di Eltsin e Putin venivano regolarmente rimproverati di riportare in auge gli "atteggiamenti della Guerra fredda", come se dire qualcosa di disapprovante nei confronti del Cremlino fosse necessariamente offensivo e sbagliato.

Nel febbraio 2022, la Russia ha avviato una guerra criminale su vasta scala in Europa e ha utilizzato il ricatto nucleare per impedire a chiunque di interferire. È iniziata una nuova era e non sappiamo ancora come finirà. Una cosa è, tuttavia, chiara: questi sviluppi disastrosi sono stati, purtroppo, resi possibili dal rifiuto ostinato di "vedere il regime russo per quello che è realmente".

Spero che questo libro susciti la curiosità di coloro che hanno un interesse per Orwell, che potrebbero apprezzare un punto di vista russo su di lui, e di coloro che hanno un interesse per la Russia, che potrebbero essere stimolati dall'opportunità di guardarla attraverso gli occhi di Orwell. Nella prima parte del libro, esploro le circostanze che hanno determinato l'atteggiamento di Orwell nei confronti dell'URSS prima che andasse in Spagna alla fine del 1936 (capitoli 1 e 2); esamino i cambiamenti che la guerra civile spagnola portò alla sua percezione del comunismo sovietico (capitolo 3) e considero cosa lo aiutò ad ampliare e affinare la sua comprensione della Russia al suo ritorno (capitoli 4 e 5). La seconda parte descrive i tentativi di Orwell di combattere il totalitarismo non solo scrivendone, ma anche attraverso l'attivismo sociale (capitolo 6); il suo atteggiamento controverso nei confronti del socialismo (capitolo 7); i tentativi disperati ma falliti delle autorità sovietiche di impedire che i libri di Orwell entrassero nel paese e lo sforzo profuso per resistere a questi tentativi (capitolo 8); e infine, i tratti che rendono l'Oceania di Orwell così simile all'Unione Sovietica (capitolo 9) e alla Russia contemporanea (capitolo 10)


George Orwell and Russia
Masha Karp
Bloomsbury Adademic
London 2023

(Traduzione nostra)

mercoledì 14 agosto 2024

Società segrete e Prima Internazionale

 


Le società segrete, esteriormente di forma massonica, hanno svolto un ruolo decisivo nella formazione della Prima Internazionale. La lotta tra i membri e gli alleati di queste società (fra cui gli italiani Mazzini e Garibaldi) da una parte, e Karl Marx e i suoi sostenitori dall'altra, ha costituito la vita interiore dell'Internazionale nei suoi primi anni e alla fine è stata responsabile della sua fine.

Il saggio, fondamentale per la conoscenza dell'attività settaria nella Francia e Inghilterra di metà Ottocento, appare per la prima volta in traduzione italiana ed è liberamente scaricabile dal sito www.academia.edu

domenica 4 agosto 2024

Ma Parigi è davvero romantica come un pissoir ingorgato?

 


Oggi il supplemento culturale di Repubblica dedica l'apertura a Truman Capote nella ricorrenza dei sessant'anni dalla tragica morte. Nonostante il titolo "Colazione da Truman", non tanto demenziale (che sarebbe stato almeno un merito) quanto banale che campeggia in prima pagina, il fascicolo ospita un intrigante articolo di Natalia Aspesi incentrato soprattutto sul rovinoso declino dello scrittore successivo alla pubblicazione del suo libro "Preghiere esaudite" in cui Capote metteva crudelmente alla berlina, mettendone in piazza vizi e segreti inconfessabili, l'élite intellettuale di New York. Una colpa che non gli fu mai perdonata e che gli costò una sorta di damnatio memoriae e l'esclusione definitiva da quel mondo.

Recuperato nel loculo dei libri a suo tempo comprati e mai letti, il libro che non è un capolavoro, ma merita comunque, se non altro per la ferocia gelida  della scrittura che porta un po' di aria fresca in una giornata afosa, contiene perle affascinanti. Fra le tante una crudelissima descrizione di Parigi di cui in questi giorni , fra pugili dalla sessualità discussa e grandeur macroniana andata a male (vedi la Senna inquinata),  si parla tanto, a proposito e a sproposito.


"Se penso a Parigi, mi sembra romantica come un pissoir ingorgato, allettante come un nudo strangolato che galleggia nella Senna. I ricordi sono limpidi e azzurri, come scene che affiorano tra le languide cancellature di un tergicristallo; e mi vedo saltare da una pozzanghera all’altra, perché è sempre inverno e piove; o se no seduto da solo a sfogliare «Time» sulla terrazza deserta dei Deux Magots, perché è sempre anche una domenica pomeriggio d’agosto. Mi vedo svegliarmi in camere d’albergo non riscaldate, camere deformate e ondeggianti nei postumi di una sbornia di Pernod. Attraversare la città, passare i ponti, percorrere il deserto corridoio fiancheggiato da vetrine che collega i due ingressi dell’Hôtel Ritz, aspettare nel bar del Ritz una faccia d’americano danaroso, scroccare bibite lì e poi al Boeuf-sur-le Toit e alla Brasserie Lipp e poi sudare sino all’alba in qualche localaccio stipato di puttane, reso eccitante dai negri e azzurrato da Gauloises bleu; e svegliarmi di nuovo in una camera inclinata e oscillante con cadaverica esuberanza. Certo la mia vita non era quella di un normale indigeno; ma neanche i francesi riescono a sopportare la Francia. O meglio, adorano il loro paese, ma disprezzano i propri compatrioti – incapaci come sono di perdonarsi i loro comuni peccati: la diffidenza, la spilorceria, l’invidia, la grettezza generale".

martedì 30 luglio 2024

Lascerem la Testafochi...

 


Sembra ieri, ma sono giusto in questi giorni cinquant'anni che finivo il servizio militare e ritonavo alla vira civile dopo quasi due anni passati in divisa, prima come assaltatore e poi (titolo di studio obblige) come magazziniere di battaglione.

Quattordici mesi alla Testafochi (oggi demolita per far spazio ai moderni edifici dell' Università) , un niente paragonato ai miei 75 anni, ma sufficienti per innamorarmi di Aosta e sentirmi per sempre valdostano d'adozione, parte di quel mondo e di quella città.. Tanto che ancora oggi Aosta resta per me un luogo del cuore.

Più che Savona, città in decadenza e senza identità, in cui vivo dal 1962 ma sempre più da straniero, da meteco, come i Greci chiamavano gli estranei allo spirito della polis..

Certo, come sempre, il ricordo degli anni giovanili attenua le contraddizioni e tende a mettere in risalto solo gli aspetti positivi legati alla vitalità della giovinezza.

In realtà, furono mesi duri in una caserma dura, ma questo non attenua il mio amore per Aosta, anche se la sera del congedo, ubriaco perso, saltellavo seminudo in camerata con altri venti invasati cantando.


E' finita
E' finita per davvero
Lascerem la branda e il telo
Lascerem la Testafochi
Per chiavare come pochi...

Avevo venticinque anni e gli ormoni andavano a mille.
Oggi di quel periodo resta il ricordo
e qualche amicizia che ha resitito agli anni (vero Bobo?)
e l'immagine di un giovane che guardava con occhi critici ma fiduciosi all'avvenire.
Un giovane che, nonostante il mezzo secolo passato, ancora vive dentro di me.
Accanto al bambino curioso e vivace che sono stato.
Un giovane e un bimbo che nei momenti critici escono fuori.
Mi guardano seri e mi ricordano chi sono veramente.
E mi impediscono così  di affogare nella opacità del presente.



venerdì 12 luglio 2024

Antifascismo come lotta di classe

 


Riprendiamo la premessa a un libro uscito all'inizio degli ormai lontani anni Settanta. Un documento di oltre cinquant'anni fa ma sempre molto attuale. Con una differenza fondamentale. Allora la coscienza politica e sociale era viva e suscitava una voglia diffusa di approfondimento e confronto, di cui questo libro, contenente gli atti di un convegno delle forze della nuova sinistra è testimonianza. Oggi ci si limita a ripetere slogan usurati dal tempo, pensando che basti cantare "Bella ciao" per fare i conti con il fascismo.

In questo secondo quaderno di «Unità Proletaria» vengono pubblicati gli atti del convegno che il quindicinale del PdUP organizzò lo scorso anno (9 e 10 giugno 1973) a Firenze, sul tema Per un nuovo antifascismo militante —L'involuzione autoritaria oggi in Italia.

L'idea di organizzare un momento collettivo di riflessione su questa problematica era partita da un gruppo di compagni, e particolarmente da Luciano Della Mea, in seguito ad un dibattito, apertosi sulle colonne del giornale, e al quale avevano partecipato alcuni comandanti partigiani.

Fortunato Avanzati, il famoso «Viro», comandante della brigata «Spartaco Lavagnini» si era fatto portatore di una proposta precisa: rivitalizzare L'ANPI con l'ingresso delle nuove generazioni, toglierla dal clima decrepito delle mere celebrazioni, ridare slancio all'azione antifascista, conferendole un carattere militante di vigilanza e di controinformazione.

Da poco erano stati assassinati Mario Lupo, un giovane di Parma, dai fascisti e Franco Serantini, un altro giovane pisano, dalla polizia; da pochi anni l'iniziativa fascista aveva ripreso vigore e baldanza, con la complicità dello Stato e della DC in primo luogo.

In più si veniva già profilando una crisi economica di dimensioni internazionali che acutizzava il contrasto di classe e lasciava prevedere l'intensificazione dello scontro sociale.

D'altra parte la sinistra si presentava divisa e incerta di fronte all'attacco reazionario, la stessa unità sindacale conosceva i suoi momenti più difficili.

In questo contesto maturava, dentro il PdUP e fuori di esso, l'esigenza di ripensare le esperienze sin lì compiute, elaborare nuove proposte, costruire i presupposti per una unità antifascista fondata su una chiara visione di classe.

Il convegno, organizzato dalla redazione di UP insieme con îl comitato regionale toscano di coordinamento del PdUP, ha avuto dal compagno Della Mea (che poi, per malattia, non poté partecipare direttamente ai lavori) un insostituibile contributo sia per il documento preparatorio sia per la collaborazione nello stendere la relazione introduttiva insieme con il compagno Frolli.

La partecipazione di molte centinaia di militanti, la presenza di varie forze della sinistra (Lotta Continua, PCI, PSI, Manifesto, Movimento Studentesco, Acli, PCd'I m-l), di rappresentanti delle organizzazioni partigiane., e quindi il livello qualitativo degli interventi hanno fornito gli elementi principali per il successo del convegno, di cui in questo quaderno riportiamo larga parte del dibattito.