Raffaele
K. Salinari
L'anima
nell'uovo di legno
Nella Berlino dei primi
anni del «secolo breve» il piccolo Walter Benjamin comincia la sua
esplorazione dell’ambiente circostante, cominciando ovviamente
dalla casa. L’immaginazione infantile del filosofo dei Passages si
sofferma su alcuni oggetti di uso comune che, nella sua fantasia,
diventano veri e propri specchi del caos primigenio. Sono figure che
ritroveremo nelle intuizioni folgoranti della sua filosofia, la
scaturigine che Rilke aveva poetizzato nei famosi versi delle Elegie:
«Non pensiate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia».
E allora, mentre la madre ricama all’uncinetto un centrino, egli
ferma la sua attenzione più che sul disegno compiuto, sulla dinamica
sottile del suo farsi, sull’intreccio di trama ed ordito che, sul
rovescio della tela, tramano la figura enigmatica che appare ad ogni
punto sul risvolto e nella quale egli si perde come in un labirinto
di sensazioni e rimandi. Il risvolto sulla tela diventa così la
metafora del ri-tratto umano, il perché esso riesca così a far
emergere l’essenza dell’anima. I fili si intrecciano come i nodi
d’amore in un tempio latomistico evocando storie antiche. Tutto
questo armeggiare materno ha nel cestino da lavoro il suo centro
occulto, il suo Sancta Sanctorum insondabile: gli oggetti che
contiene non sono certo «solo» per cucire o tagliare, sono
strumenti magici, con uno scopo esoterico, noto solo alla potenza
iniziatica materna che li maneggia così naturalmente. E tra questi,
tanto arcano e potente da non essere nemmeno nominato esplicitamente,
come il nome segreto di Dio, c’è l’uovo di legno.
Uovo e matrioska
Molti tra noi avranno
avuto la stessa esperienza infantile di Benjamin, trovando nel
cestino dei rammendi l’uovo di legno. Naturalmente lo abbiamo
subito associato all’uovo nel frigorifero o a quello di Pasqua; ci
siamo dunque chiesti a cosa potesse servire questo strano uovo fatto
di legno. Forse i più diretti lo hanno domandato alla mamma o alla
nonna, o forse anche a quei padri che frugavano maldestri, quasi
furtivi, in cerca di qualcosa nel cestino. Altri invece hanno atteso
pazientemente che l’oggetto misterioso venisse tirato fuori ed
utilizzato. E così, in un modo o in un altro, abbiamo scoperto che
serviva, ed ancora serve, a rammendare ad esempio le calze, dato che
la sua forma particolare riesce ad adattare la stoffa al lavoro di
restauro. Non è certo il caso qui di entrare nell’indefinito
simbolismo dell’uovo, evocato come principio ordinatore in tutte le
cosmogonie antiche, come quelle orfiche, come pure nell’iconografia
religiosa.
Facciamo solo due esempi,
riassunti, se così possiamo dire, da altrettanti quadri: per la
religione cattolica è nota la Pala di Montefeltro di Piero
della Francesca (1472-1474), per la sensibilità più laicamente
moderna proponiamo il Geopolitico che osserva la nascita
dell’uomo nuovo (1943) o più semplicemente L’aurora (1948)
di Salvador Dalì. Per il pittore spagnolo in particolare l’uovo
era una vera e propria epitome della sua visione pittorica
paranoico-critica, riflesso di se stesso come creatore e creatura,
basti ricordarlo nella famosa foto in cui è ritratto in posizione
fetale come un embrione. La potenza simbolica dell’uovo era tale
che la sua ultima dimora di Port Lligat era merlata di uova nelle
quali il pittore voleva trasferire la propria anima. Vedremo come il
desiderio di rinascita di Dalì verrà in qualche modo fissato
all’interno di un’altra forma-uovo.
Tornando al principio
della forma-uovo come adatta a rammendare un tessuto, essa trova una
sua somma espressione artistica, sottilmente inquietante come si
conviene a questo strumento eterotopico, nella matrioska russa. Ora,
questo oggetto, o meglio questa serie di oggetti, ha una storia
diremmo essoterica, visibile, ed una nascosta, esoterica: un lato in
evidenza ed uno occulto dunque, com’è nella natura di tutto ciò
che richiama le ripetizioni e le serie. A questo proposito è nota
l’avversione di Borges per gli specchi, e qualcosa d’altro,
poiché moltiplicavano l’essere umano. È esperienza comune la
sensazione, al tempo stesso di meraviglia e di sottile ansia, che
giunge quando ci si guarda tra due specchi che riflettono
all’infinito la nostra immagine. Mutatis mutandis ciò è
applicabile anche alla Matrioska data la successione di bamboline una
dentro l’altra.
E allora la prima
matrioska ufficiale risale alla fine dell’800, ad opera del
facoltoso industriale russo e mecenate Savva Mamontov (1841–1918),
fondatore del circolo artistico di Abramcevo. Torneremo tra poco su
questo sodalizio artistico poiché l’idea della matrioska nasce
proprio dalle leggende slavofile e dalle ascendenze sciamaniche che
lo ispiravano.
Mamontov, infatti, aveva
allestito il circolo nella propria tenuta di campagna riunendo
attorno a sé pittori e artigiani dell’arte tradizionale dei
contadini russi. Il suo intento era quello di far rifiorire e
sviluppare questo genere artistico, e in questo era supportato dal
fratello Anatolij, anch’egli imprenditore, editore e collezionista
di opere d’arte.
Tra le varie sue attività
vi era anche quella di collezionista di giocattoli: in particolare,
all’origine dell’idea della matrioska ci fu una scultura che
veniva dall’isola giapponese di Honshu, che raffigurava un
personaggio della tradizione buddista, il vecchio saggio Fukurokuju,
o lo stesso Budda storico Siddharta. Ma l’interessante era che
questa scultura conteneva al suo interno altre quattro figurine del
personaggio. A questo punto la storia comincia ad assomigliare
realmente alla matrioska stessa: i giapponesi dell’isola
sostenevano, infatti, che la prima di quelle figure fosse stata
creata da un monaco russo convertito al buddismo, mentre l’idea
delle figurine una dentro l’altra sarebbe derivata dalla tradizione
delle cosiddette scatole cinesi.
La prima matrioska era
composta da otto pezzi e venne costruita ai primi del Novecento
dall’intagliatore Vasilij Petrovic Zvezdokin e colorata
dall’illustratore di libri per l’infanzia Sergej Maljutin, che
dipinse la bambola con il vestito tradizionale locale: camicia
variegata, grembiule rosso e foulard legato sotto il mento. Poi vi
inserì tante versioni più piccole della stessa. Si può considerare
quindi la matrioska come una figura materna, da cui il nome, ed in
particolare un riferimento alla fertilità. E infatti, secondo questa
interpretazione folklorica, le otto piccole bambole che in origine
componevano la prima matrioska rappresentavano, in ordine di
grandezza, la madre, una ragazza, un ragazzo, una bambina, fino
all’ultima figura, quella di un neonato in fasce, o appena nato.
Questa è, di fatto, l’unica figura che non si può ulteriormente
aprire, rappresenta dunque l’essenza irriducibile del complesso di
bambole: il suo arcano. Vediamo perché.
Bambina di neve
Abbiamo detto che la
matrioska nasce all’interno del cenacolo di artisti e scrittori
Abramcevo. In particolare l’illustratore Maljutin, che colorò per
primo le fattezze dell’oggetto, oltre a volergli dare un aspetto
popolare, tenne in conto una storia tradizionale russa che si perde
nel folklore siberiano, e dunque in un ambiente culturale e cultuale
molto vicino a quello degli sciamani. Parliamo di Sneguročka la
bambina di neve. Questa viene descritta come una bella ragazza dai
capelli biondi a treccia, che porta un vestito azzurro bordato di
pelliccia. Ci sono diverse versioni della fiaba: secondo alcune,
Snegurocka era la figlia della Primavera e dell’Inverno. Faceva la
sua apparizione in pieno d’inverno, per poi fare ritorno nel
lontano nord durante l’estate. A lei era impedito di amare: in
questo caso, al fuoco della passione, il suo corpo si sarebbe sciolto
come neve al sole.
Un’altra versione
racconta che Snegurocka era la figlia di una coppia che non
riuscivano ad avere figli e, per questo motivo, avevano deciso di
chiedere ad uno sciamano di aiutarli facendogli una figlia di neve.
Un giorno, Snegurocka, andò in un bosco con altre ragazze per
raccogliere dei fiori; le ragazze accesero poi un falò attorno al
quale si misero a ballare; lo fece anche Snegurocka, che però si
sciolse diventando una nuvola. I genitori, per ricordarla, si fecero
fare dallo sciamano una bambola con le fattezze della bambina, in cui
conservare la nuvola come fosse la sua anima.
Un’altra leggenda
racconta che Snegurocka era la figlia della Fata Primavera e del
Vecchio Inverno e che Jarilo, il Sole, che la Fata Primavera aveva
rifiutato come compagno, l’aveva condannata a morire se mai si
fosse innamorata di qualche ragazzo; per questo motivo veniva tenuta
segregata dalla madre. Un giorno però Snegurocka vide un ragazzo che
costruiva una statua di neve attorno alla quale il giovane si metteva
a mimare una danza di corteggiamento. Riconoscendosi nelle fattezze
della statua la ragazza esce dal suo nascondiglio e si mostra al
giovane che subito se ne innamora, ricambiato: questo sentimento però
costa la vita a Snegurocka, che si scioglie colpita da un raggio di
sole. L’amante, spezzato dal dolore, decide di togliersi la vita,
gettandosi in un lago. E così le due figure diventano altrettante
sculture di ghiaccio che vengono costruite ogni inverno dai ragazzi e
dalle ragazze del villaggio per farli rivivere il loro amore
attraverso le statue di neve.
Da queste favole traspare
come il motivo comune sia quello della morte e della sua
feticizzazione attraverso la costruzione di un contenitore
dell’anima. Il feticcio, in ogni cultura arcaica, è appunto un
contenitore di spiriti o entità sottili di varia natura. Nella
tradizione sciamanica, in particolare, lo sciamano si serve di tutta
una serie di feticci antropomorfi, fitomorfi o zoomorfi per evocarne
il potere relativo. Vedremo adesso come queste fiabe siano dunque una
ennesima narrazione di pratiche tradizionali che servivano in qualche
modo a preservare il ricordo dei bambini morti e come la loro
progressiva trasformazione in semplici giocattoli non abbia eliminato
del tutto, ma solo velato, il potere che deriva da oggetti che una
volta erano concepiti per contenere l’essenza immortale di
qualcuno.
Kokeshi o matrioska
Ora, appare chiaro
come la matrioska, non fosse altro che per la totale mancanza di una
controparte maschile, sia anche una rappresentazione di quelle
antiche civiltà matriarcali in cui la donna esercitava una vera e
propria potestas, cioè un potere costituito sull’autorevolezza
nata dalla capacità non solo di ricreare la vita ma anche di
curarla. Peter Sloterdijk, nel suo saggio sull’iperpolitica Sulla
stessa barca, parla dei tempi letteralmente preistorici, da ciò
anche il suo neologismo «paleopolitica», organizzati intorno al
binomio madre-bambino come assicurazione per l’orda di una vita
futura. In sintesi l’orda era una gigantesca incubatrice che, dice
l’autore, avvolgeva la sfera in cui madri e bambini «ripetevano il
mistero dell’uomo». Il filosofo di Sfere sostiene che poi le
cosiddette civiltà avanzate, quelle della Storia, abbiano
progressivamente distolto l’attenzione dalla riproduzione umana,
per focalizzarsi sull‘uso dell’essere umano, così frantumando la
centralità dell’unità madre-bambino che aveva dominato i primordi
dell’uomo. Da questo si capisce come nello spazio paleopolitico
sussistesse un matriarcato che si affermava attraverso la potenza
dell’amore materno. Ma a questo punto entra in gioco l’origine
del mitologema che accomuna la favola della bambina di neve alla
matrioska e spiega, soprattutto, l’origine inquietante delle
statuette giapponesi che furono prese ad esempio per la sua nascita.
Tutto questo, ci dice ancora Sloterdijk, viene riportato attraverso
una storia che sua nonna raccontava alla poetessa giapponese Yoko
Tawada.
«Molto tempo fa, quando
gli uomini soffrivano ancora di una sconfinata povertà nei loro
villaggi, poteva succedere talvolta che le donne uccidessero subito
dopo la nascita i loro figli, i quali altrimenti sarebbero morti di
fame. Per ogni bambino ucciso veniva prodotta una kokeshi, che
significa «far-sparire-bambini», affinché gli uomini non
dimenticassero che erano sopravvissuti alle spese di questi bambini».
Sloterdjik ci dice, a questo punto, che la poetessa collegava questa
storia alla supposizione che la matrioska fosse una replica della
kokeshi giapponese.
La kokeshi, in effetti,
ha delle somiglianze notevoli con la matrioska, almeno esternamente.
Realizzata in legno, ha un semplice busto cilindrico e una testa
sferica che ricorda, ancora una volta, sia quella della matrioska,
sia quella dell’uovo per rammendare. Anche le bambole kokeshi, come
le matrioske, sono prive di braccia e gambe.
Ora, la cosa interessante
è che esistono diversi significati di questa parola a seconda dei
caratteri con i quali se ne scrive il nome: secondo la scrittura
convenzionale in hiragana, il termine significherebbe semplicemente
bambola (keshi) di legno (ki) o piccole (ko) bambole (keshi). Per
arrivare a questa scrittura ed alla sua etimologia fu addirittura
convocata la Kokeshi National Convention nell’agosto del 1939, poco
prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Questa
collocazione temporale è significativa del clima culturale
giapponese del tempo poiché ci si voleva affrancare da una visione
arcaica della nazione anche cancellando alcuni riferimenti
tradizionali. Infatti, il cambio di caratteri della scrittura,
serviva a sostituire l’originale parola scritta in caratteri ateji,
che significava piccoli papaveri. Qui è evidente il riferimento
all’oblio, alla morte. Nella iconografia mitologica i gemelli
Hypnos e Thanatos si distinguevano perché il sonno aveva in mano dei
papaveri che poi passava al fratello nel momento della morte; il
quadro di John William Waterhouse (1874) ce ne dà una visione
sublime.
Ma, ciò che a noi
interessa, è che il nome kokeshi scritto in kanji, altra scrittura
giapponese, significhi appunto «eliminazione del bambino», facendo
dell’uso originario delle bambole dei veri e propri feticci
dedicati dalle madri ai propri bambini uccisi volontariamente dopo la
nascita, come riferisce Yoko Tawada nel suo libro Dove comincia
l’Europa. Anche se questa interpretazione viene oggi ufficialmente
rigettata, le prime bambole kokeshi furono in realtà realizzate
dagli artigiani del legno, i cosiddetti Kiji-shi, sul finire del
Periodo Edo (1600-1868), quando l’infanticidio era pratica
relativamente comune nelle comunità povere.
Ecco, allora, che il
cerchio delle analogie si chiude. Forse la sottile inquietudine, il
perturbante, che la matrioska evoca, al di là del suo aspetto
bonario e colorato, risiede proprio nella sua origine, e che anche
per queste ascendenze arcane Walter Benjamin, guardando incantato il
lavoro sul rammendo attorno all’uovo di legno, sia stato
affascinato, come in un gioco di specchi che riflettono, nell’amore
e nella morte, l’antico potere materno delle origini.
Il Manifesto/Alias – 30
novembre 2021