sabato 29 settembre 2018
venerdì 28 settembre 2018
giovedì 27 settembre 2018
ANAMNESI. Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta
ANAMNESI
Beppe
Dellepiane e Giuliano Galletta
a cura di Sandro
Ricaldone
29 settembre/17 ottobre
2018
Da lunedì al sabato
ore 15.00/18.00
Si inaugura sabato 29
settembre (ore 18,30), nello Spazio 21 all'ex ospedale
psichiatrico di Quarto (via Giovanni Maggio 4, Genova), nell’ambito
della VII edizione della manifestazione “Quarto Pianeta”
dal titolo “Insieme”, organizzata dal Coordinamento per Quarto,
la mostra di Beppe Dellepiane e Giuliano
Galletta “Anamnesi”, curata da Sandro Ricaldone.
La parola anamnesi, che
contiene al suo interno le dimensioni della memoria, della malattia e
del sacro, diventa il filo invisibile che unisce il lavoro di due
artisti, Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta,
protagonisti dell'arte genovese degli ultimi cinquant'anni. Non si
poteva quindi immaginare uno spazio più appropriato di quello
dell’ex ospedale psichiatrico il Quarto per questa mostra che
raccoglie una selezione di opere che i due artisti doneranno al Museo
dell’Istituto delle materie e delle forme inconsapevoli, creato dal
loro amico Claudio Costa.
I vocabolari registrano
infatti alla voce anamnesi tre significati diversi. Il primo,
reminiscenza, ricordo; è adoperato soprattutto nell’enunciazione
di un concetto fondamentale della filosofia di Platone, per cui la
conoscenza vera si fonda sull’anamnesi delle idee conosciute
dall’anima in una propria esistenza iperuranica anteriormente al
suo ingresso nel corpo. Il secondo riguarda la storia clinica di un
malato, raccolta dal medico direttamente o indirettamente come
elemento fondamentale per la formulazione della diagnosi; il terzo
significato concerne invece la liturgia cristiana, e definisce la
parte del canone della messa che, immediatamente dopo la
consacrazione, ricorda la passione, risurrezione e ascensione di
Cristo ed è detta anche memoriale.
Beppe Dellepiane e Giuliano Galletta (26.09.2018)
Ecco il testo
introduttivo di Sandro Ricaldone
La plus ou moins grande
qualité plastique n’est jamais que le signe de la plus ou moins
grande obsession de l’artiste par son sujet. (1)
Alberto Giacometti
Nel suo Discours aux
peintres (2) René Crevel, a dispetto della sua militanza
surrealista, esordiva affermando: “Davanti al dipinto più
sconvolgente guardatevi dal gridare al miracolo della generazione
spontanea. Hanno una radice, si aggrappano al quotidiano questi
fugaci convolvoli dell’inconscio che coprono di venature il
labirinto esoterico e segnano certe strade nel più inestricabile dei
labirinti interiori. Possiamo riconoscere l’onnipotenza di questi
fili tesi, senza essere tentati di farne delle linee di frontiera.
L’analisi ha per troppo tempo, troppo impunemente, diviso e
frammentato. Aveva costruito recinti attorno ai più infimi granuli
di stato psichico. Ora, come ha constatato Hegel, lo spirito non è
che una riserva di facoltà”.
Nell’osservare le opere degli artisti dovremmo (dobbiamo) dunque, secondo il poeta francese, ricercare questi “fili tesi”, tentare di comprendere come si leghino al quotidiano e al tempo stesso scavalcare le barriere che occultano gli “stati psichici” in rapporto ai quali si sono delineate, ritrovare il percorso che ha presieduto alla loro creazione.
A mostrarci come l’operare stesso dell’artista consista, in ultima analisi, in una ricognizione intesa a mettere in rapporto gli oggetti sensibili con l’esperienza interiore, in un’anamnesi nel senso più esteso del termine, che include i significati di reminiscenza, diagnosi, evocazione del mistero, viene ora una mostra che, per rimanere in argomento, si potrebbe definire sintomatica e che sin dal titolo si rifà a questo intreccio di motivi.
La propensione per l’immagine simbolica, o forse – si può azzardare, utilizzando con un’espressione bretoniana – per l’“objet à fonctionnement symbolique” è da lunghissimo tempo al centro del lavoro di Beppe Dellepiane. La sedia come raffigurazione del corpo umano, come ritratto e autoritratto, la valigia come cavità primordiale e uterina, la bicicletta dorata come animale in corsa, la croce come articolazione e redenzione del mondo, hanno innervato lungo i decenni la sua ricerca, trasferendosi in prosieguo nel disegno della figura distorta della casa-caverna, della scala-ascesi, del carro-corpo. Negli archetipi obliterati da un’ipermodernità standardizzata, negli accumuli di materiali metamorfici, Dellepiane rammemora una matrice ancestrale, un’attrezzeria liturgica di cui valersi in una cerimonia ad un tempo secolarizzata e mistica; impagina un’inquietudine protesa oltre il limite del sogno e dell’ombra.
Giuliano Galletta innalza, con l’installazione "Traumdeutung", realizzata per l’occasione, una barriera rutilante fra luce e ombra, palesando – con uno scriptum che diviene azione – di aver compreso “come le parole non siano «meri garbati simboli» ma debbano sapere della cosa che dicono” (4). Qui la situazione, che pure rimanda alla prima indagine freudiana, non è “messa in scena dalla parola, ma è la parola stessa” (5), il luogo in cui ciò che la parola indica e nasconde raggiunge la sua emblematica evidenza.
Anche per Galletta il percorso verso la trasparenza del simbolico ha attraversato una lunga gestazione, condotta lungo i meandri di un pensiero costantemente attratto dal perturbante, dall’associazione tra oggetto usuale e alterazione dello sfondo (si veda a esempio l’immagine del grande materasso innestato di steli di garofani, nell’installazione "Mentre dormivo", 1993), dall’indecidibilità ontologica e dall’orrore quotidiano, enunciato nell’opera-frase "In linea di massima l’essenziale è mostruoso" (2006).
L’interazione fra i lavori dei due artisti, ospitati nello spazio 21 dell’ex Ospedale Psichiatrico di Quarto, gestito dall’Istituto per le Materie e le Forme inconsapevoli, si presenta come un teatro di immagini dominato dal simbolo e dalla parola, una situazione di totale immanenza che – per ciò stesso, in modo paradossale – apre una prospettiva di lancinante ulteriorità.
Sandro Ricaldone
Note:
1) ALBERTO GIACOMETTI, "À propos de Jacques Callot", Labyrinthe n. 7, 15 avril 1945, p. 3.
2) RENÉ CREVEL, "Discours aux peintres", revue "Commune", deuxième année, n° 22 (juin 1935). Trad. it. in René Crevel, Scritti d’arte, Medusa, Medusa, Milano 2017, pp. 69 ss.
3) René Crevel, nato a Parigi il 10 agosto 1900, è stato uno scrittore e poeta francese, legato al movimento surrealista. Tra le sue opere principali "Détours" (1925), "La mort difficile" (1926), "Dalí ou l'anti-obscurantisme" (1931), "Le Clavecin de Diderot" (1932), "Les pieds dans le plat" (1933). Muore suicida a Parigi il 18 giugno 1935.
1) ALBERTO GIACOMETTI, "À propos de Jacques Callot", Labyrinthe n. 7, 15 avril 1945, p. 3.
2) RENÉ CREVEL, "Discours aux peintres", revue "Commune", deuxième année, n° 22 (juin 1935). Trad. it. in René Crevel, Scritti d’arte, Medusa, Medusa, Milano 2017, pp. 69 ss.
3) René Crevel, nato a Parigi il 10 agosto 1900, è stato uno scrittore e poeta francese, legato al movimento surrealista. Tra le sue opere principali "Détours" (1925), "La mort difficile" (1926), "Dalí ou l'anti-obscurantisme" (1931), "Le Clavecin de Diderot" (1932), "Les pieds dans le plat" (1933). Muore suicida a Parigi il 18 giugno 1935.
4) L’espressione è
ripresa da MASSIMO CACCIARI, "Hamletica", Adelphi, Milano
2009, p. 77.
5) Ibidem, p. 78.
5) Ibidem, p. 78.
Quarto Pianeta 2018 –
INSIEME
VII Edizione
25/30 settembre 2018
Siamo così arrivati alla
settima edizione. Noi continuiamo a crederci. In una città divisa e
messa alla prova dal crollo del Ponte Morandi proviamo ad andare
avanti e fare la nostra piccola parte. Come ci siamo detti nelle
scorse edizioni ri-generarsi è possibile. In questa edizione
vogliamo mettere l’accento che questo è possibile se lo facciamo
INSIEME. La complessità nella quale siamo immersi chiede tale
modalità di pensiero e di azione. INSIEME per avere la visione più
ampia e inclusiva possibile, INSIEME per mettere a frutto tutte le
energie disponibili e necessarie, INSIEME per remare nella stessa
direzione e con lo stesso ritmo, per il bene comune.
In programma eventi per
tutti, giovani, anziani, operatori socio-sanitari, architetti,
artisti, attivisti, politici, sognatori,….Eventi per ascoltare
musica, dibattiti, conferenze e presentazione di libri, per ballare,
vedere mostre, danza, film e interventi artistici sui muri, per
gustare aperitivi e specialità! Per tutta la durata di
Quarto Pianeta sarà aperto LIBRIamoci a Quarto! Tanti libri per chi
ama la lettura: dall’arte alla poesia, dalla storia alla
gastronomia, dalle fiabe fino ai saggi universitari, donati dalla
Casa Editrice De Ferrari di Genova per la raccolta fondi destinati al
MUSEO DELLE FORME INCONSAPEVOLI fondato da Claudio Costa a sostegno
delle spese di trasferimento nello Spazio 21, le ex cucine
dell’ospedale psichiatrico.
Il traghettatore
Passare un fiume
rappresenta sempre un'avventura alla ricerca di un altrove.
Giorgio Amico
Il traghettatore
Da bambino abitavo in un
piccolo paese di campagna situato lungo la riva di un fiume. Non un
grande fiume, quasi un torrente, ma che diventava grande e impetuoso
negli ultimi chilometri del suo corso, quasi al momento di buttarsi
in mare. Non c'erano ponti allora. Il primo fu costruito solo agli
inizi degli anni Sessanta. Ho ancora da qualche parte una foto
dell'inaugurazione che ritrae anche me allora poco più di un
bambino. Per passare da una riva all'altra si prendeva un traghetto,
una piccola chiatta capace di ospitare una decina di persone, qualche
bicicletta e forse, nel caso, un paio di mucche. Macchine no, allora
ne circolavano poche e comunque non passavano da lì.
Una lunga e robusta fune
d'acciaio univa le due sponde e ad essa era legata la chiatta che
veniva spostata, grazie ad un ingegnoso sistema di carrucole, a forza
di braccia da una sorta di gigante, conosciuto come Panzanera per
l'abbronzatura della pelle e le dimensioni pantagrueliche
dell'addome.
Per me bambino passare il
fiume sul traghetto di Panzanera era un'avventura senza eguali. Per
quanto piccolo avevo già scoperto la magia dei romanzi di Salgari e
i canneti lungo le rive mi facevano immediatamente pensare a uomini
in agguato e tigri feroci pronte al balzo. Pensavo alle paludi del
Bengala e ai crudeli thugs, gli strangolatori dal laccio di seta,
adoratori della sanguinaria dea Kalì. Ma non avevo paura, perché accanto a me c'era mio padre, il maresciallo dei carabinieri del
paese che ogni tanto mi portava con sé nei suoi giri di ispezione.
Fin da piccolo avevo notato, senza ben capirne il perché, il
riguardo timoroso con cui gli altri si rivolgevano a lui, il
silenzio che si creava quando si entrava nelle osterie di campagna.
Come i canti cessassero e i giocatori di carte abbassassero il tono
della voce. E poi quasi immediato il saluto ossequioso del padrone.
Ero un bambino e non potevo sapere nulla dell'effetto che ancora
poteva fare una divisa in un'Italia appena uscita dalla parentesi buia della dittatura e da una
guerra che anche lì aveva visto la ferocia dell'occupazione tedesca. Un paese povero dove la gente si arrangiava come poteva.
Quel silenzio, che si
creava improvviso attorno a noi, mi pareva solo rispetto, mi
inorgogliva, mi faceva sentire importante. Ma sul traghetto era
un'altra cosa. Panzanera non faceva silenzio, ne mostrava un
particolare ossequio, continuare a regnare sulla sua piccola chiatta
indifferente a tutto e a tutti e al suo confronto mio padre quasi
spariva. La cosa un poco mi turbava e ogni volta il fascino di quel
gigante scuro ne usciva ulteriormente accresciuto.
Il tempo è passato, dal
1962 il traghetto è sparito, soppiantato da un ponte moderno che
il fiume si è già portato via più volte. Ma la figura magica del
traghettatore non mi ha mai abbandonato e l'ho ritrovata ogni volta
che la vita mi ha fatto incontrare uomini che, contro venti e maree,
cercavano tenacemente di traghettare altri uomini dalla sponda grigia
del conformismo a quella verdeggiante e misteriosa della libertà, a
vivere, oltre i flutti tumultuosi della vita, avventure degne di
essere ricordate.
Traghettatore è stato il
prof. Locatelli, il mio vecchio insegnante di latino e greco, e Don
Bof, prete, confidente e amico, e Lello De Cicco, che aveva solo tre
anni più di me, ma mi fa fatto scoprire la grande utopia del
comunismo. Traghettatori verso un altrove senza pirati e tigri, ma
non meno meritevole di essere cercato.
mercoledì 26 settembre 2018
"Il Cinema Ritrovato - al Cinema" - stagione 2018/2019
Forse il cinema non
riproduce fedelmente la vita, ma sicuramente aiuta a vivere. Al
Nuovofilmstudio di Savona ancora una grande stagione di film
“ritrovati” e da non perdere.
Nuovofilmstudio e
Cineteca di Bologna presentano
"Il Cinema Ritrovato
- al Cinema" - stagione 2018/2019
Classici che ritrovano il grande schermo, l'incontro vivo con il pubblico di una sala cinematografica: si tratta di film restaurati negli ultimi anni con tecnologia digitale, riportati a uno splendore e a una nitidezza visiva mai raggiunti prima. Una vera e propria stagione di novità che copre l’intero anno. Perché crediamo che, visti in sala, questi tornino a essere nuovi film, pronti a conquistare il pubblico di tutte le generazioni.
Calendario della stagione:
Martedì 25 (18.00) e mercoledì 26 (15.30 - 21.15) settembre
Toro scatenato (Raging
bull)
di Martin Scorsese, con
Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty - USA 1980, 129'
Novembre (date da definire)
Novembre (date da definire)
Il settimo sigillo (Det
sjunde inseglet)
di Ingmar Bergman, con
Max von Sydow, Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot - Svezia 1957,
96’
Dicembre (date da definire)
Dicembre (date da definire)
L’appartamento (The
apartment)
di Billy Wilder, con Jack
Lemmon, Shirley MacLaine, Fred MacMurray - USA 1960, 125'
Gennaio (date da definire)
Gennaio (date da definire)
Gli uccelli (The birds)
di Alfred Hitchcock, con
Tippi Hedren, Rod Taylor, Jessica Tandy - USA 1960, 119’
Febbraio (date da definire)
Febbraio (date da definire)
Ladri di biciclette
di Vittorio De Sica, con
Lamberto Maggiorani, Enzo Stajola, Lianella Carell - Italia 1948,
88’
Marzo (date da definire)
Marzo (date da definire)
Jules et Jim
di François Truffaut,
con Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre - Francia 1961, 110’
giovedì 20 settembre 2018
Un'imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione
Un'imprevedibile
situazione – arte, vino, ribellione: nasce il situazionismo
Luglio 1957. Sulle Alpi
Marittime liguri, nella casa di un pittore e della moglie, arrivano
due intellettuali francesi e un artista inglese che fotografa tutti,
un visionario danese, la figlia di una celebre collezionista d’arte,
un musicista geniale e un farmacista che si è fatto teorico
dell’arte. È l’inizio di quella provocazione artistica che sarà
l’Internazionale Situazionista, una rivoluzione sotterranea che ha
infiammato il Sessantotto e resiste ancora.
28 settembre 2018
dalle 18:00 alle 19:00
Genova Palazzo Ducale
L’autrice Donatella
Alfonso dialoga con Giorgio Amico e Maria Teresa
Carbone.
Organizzatore: Il
Melangolo
giovedì 13 settembre 2018
Platone e la memoria artificiale
L'uso a scuola di computer, tablet o
smartphone aiuta nello studio o no? Una vecchia questione.
Giorgio Amico
Platone e la memoria artificiale
Come ogni anno a
settembre giornali e televisioni si ricordano della scuola. Al tema
evergreen del costo dei libri di testo, si aggiungono quest'anno il
problema delle vaccinazioni e (a causa dello shock emotivo
conseguente al crollo del ponte Morandi) quello della sicurezza dei
locali scolastici spesso fatiscenti e privi della certificazione
sulla sicurezza. Qualcuno si ricorda anche che la scuola è (o
dovrebbe essere) luogo di apprendimento e allora l'inizio delle
lezioni diventa occasione di riflessione sulla didattica. Il tema
dominante da qualche anno è quello dell'uso in classe di computer,
smartphone, tablet. Utili per alcuni, dannosi per altri. Il
principale argomento di chi ne nega l'utilità è che questi
apparecchi invoglino gli studenti alla pigrizia e provochino un calo
delle capacità mnemoniche. Insomma, perchè studiare cose che senza
alcuno sforzo sono recuperabili tramite la tastiera di un qualunque
telefonino?
Sembra un dibattito
legato alla modernità, impensabile anche solo pochi decenni fa, ma
non è così. La questione in realtà è vecchia come il mondo,
quello occidentale per lo meno. Vediamo come si poneva il problema
nell'antica Grecia. Nel Fedro, composto probabilmente fra il 368 e il
363 a.C., Platone racconta il mito egiziano di Teuth, il dio
civilizzatore inventore delle arti e della scrittura. Il progresso
per l'umanità sembra gigantesco, ma non per tutti si tratta
necessariamente di un progresso. Il re di tebe Thamus si permette di
criticare l'opera del dio: incentiverà la pigrizia, sostiene il re,
ora che le cose sono scritte, a portata di mano nei libri, perchè
studiare e conservarne memoria? Ma vediamo il racconto di Platone:
“Ho sentito dunque
raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c'era uno degli antichi
dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il
nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri,
il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della
scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto
l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della
regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano
il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e
disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli
chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le
passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure
no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono
i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su
ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu
alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli
Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è
stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza».
Allora il re rispose:
«Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a
chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per
benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa
scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria,
produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza,
perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante
caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla
memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non
la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento,
crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e
la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di
opinione anziché sapienti».
La somiglianza con il
dibattito attuale è impressionante. I nuovi mezzi (oggi il tablet,
allora la scrittura) sono nocivi perchè stimolano la pigrizia e
riducono la capacità di memorizzare i dati appresi. In realtà la
questione è più complessa. Platone è preoccupato dal fatto che il
sapere scritto (il libro) finisca nelle mani “di chi non ha niente
da spartire con esso”, di chi non ha strumenti per comprenderne il
linguaggio e il significato. E' la preoccupazione dell'insegnante di
oggi: soli davanti ad una tastiera, i ragazzi faticano ad orientarsi,
a comprendere il senso autentico di ciò che leggono, a discernere il
vero dal falso. Il risultato è una grande confusione e il prevalere
di quelle che oggi si chiamano fake news, anche le più inverosimili.
Per tornare al filosofo, quello che trovano i ragazzi sarebbe
“l'apparenza e non la sostanza della sapienza”.
Anche in questo Platone
si rivela nostro contemporaneo. Lasciati a se stessi, ammonisce, i
più non sarebbero in grado di navigare nel mare delle conoscenze.
Due le conseguenze negative: “un ingiusto disprezzo”, cioè il
rifiuto di una cultura che non si riesce a comprendere, o “una
vuota presunzione”, il delirio di onnipotenza di chi, pur non
sapendo nulla, crede di conoscere tutto. Esaltazione dell'ignoranza e
delirio di onnipotenza che vediamo dilagare attorno a noi attraverso
l'uso compulsivo di Facebook o Twitter.
La soluzione? Per Platone
come per gli insegnanti di oggi è una sola: la scuola. Il vero
strumento di comunicazione del sapere ammonisce il filosofo è
l'insegnamento diretto. Come una volta il libro, oggi il PC richiede
questa necessaria mediazione, una sorta di apprendistato, in cui
l'allievo si fornisca con l'aiuto dell'insegnante degli strumenti
necessari alla navigazione, primo fra tutti il senso critico. E
questo può scaturire solo “nel contesto dell'insegnamento”,
insiste Platone, nel contesto della relazione interpersonale
docente-allievo, della classe come ambiente comunicativo-relazionale,
traduciamo noi nel linguaggio sociologico oggi di moda.
Impostato così, il
problema dell'uso dei nuovi mezzi trova allora soluzione. La memoria
artificiale del computer, come fu una volta per il libro, diventa
strumento utilissimo, un mezzo, scrive Platone, “per aiutare la
memoria di coloro che già sanno”. Di più e di meglio crediamo non
si possa dire.
mercoledì 12 settembre 2018
Resistere sulle scogliere di marmo
Giorgio Amico
Resistere sulle
scogliere di marmo
Nel 1939, dopo la “notte
dei cristalli”, che segnò l'inizio in Germania della persecuzione
violenta degli ebrei, Ernst Jünger
pubblica “Sulle scogliere di marmo” in cui denuncia l'irrompere
nella società delle potenze demoniache dell'irrazionale e della
violenza. Poi ci sarà il diluvio di sangue della guerra e l'orrore
senza fine della shoah. Un libro a suo modo profetico, a
dimostrazione di quanto la letteratura può interpretare (e persino
precorrere) la storia. Ne riprendiamo una paginetta che suona
sinistramente attuale.
“Non per caso infatti e
non per un'avventura il vecchio era uscito dalla oscurità del bosco
con il suo popolo di lemuri e aveva principiato ad agire. Gentaglia
di tal sorta era stata un tempo dispersa come i ladri fuggono, e il
suo rafforzarsi sembrava ora essere segno di un profondo mutamento
avvenuto nell'ordine morale, nella sanità e persino nella salute
religiosa del popolo. In questo ambito occorreva intervenire, ed
erano quindi necessari ordinatori e nuovi teologi, cui il male fosse
noto nelle sue apparenze e nelle sue radici; e solamente allora
avrebbe giovato il taglio delle spade consacrate, a guisa di un
fulmine nelle tenebre. Per queste ragioni dovevano i singoli vivere con
chiarità e forza d'animo anche maggiore, secondo una disciplina più
severa, testimoni di una nuova legittimità”.
(Ernst Jünger,
Sulle scogliere di marmo, Guanda, p.77)
lunedì 10 settembre 2018
domenica 9 settembre 2018
Giuliano Galletta, II ponte e il porto
Abbiamo
aspettato per parlare del crollo del ponte che si placasse l'ondata
emotiva e massmediatica. Iniziamo a parlarne oggi con questo
intervento di Giuliano Galletta, artista, critico d'arte, storico, ma
soprattutto attento e libero osservatore delle trasformazioni in
atto. Leggendolo abbiamo pensato che pari pari il discorso valga
anche per la Piattaforma Maersk, la discussa struttura in via di
costruzione che modificherà in modo irreversibile gli assetti della
rada e del territorio di Vado. Ci auguriamo di sbagliare, ma non ci
pare di notare negli amministratori vadesi più lungimiranza di
quelli di Genova.
Giuliano
Galletta
Il ponte e il
porto
Molti commentatori hanno
osservato che il crollo di Ponte Morandi potrebbe diventare
l'occasione per ripensare il futuro di Genova. Ma era necessario
sacrificare 43 vite per ripensare il futuro della nostra città? Non
credo. In realtà la catastrofe del 14 agosto ha evidenziato in modo
tragico proprio l'assenza di tale progettualità. Ipotizziamo, ad
esempio, che la società autostrade fosse intervenuta in tempo
chiudendo il ponte per restaurarlo o ricostruirlo; i problemi a cui
ci saremmo trovati di fronte sarebbero stati esattamente gli stessi
di oggi. Nessuno ha mai pensato a un piano B, che prevedesse
un'eventualità del genere. Non dico il crollo, ma la semplice
chiusura, un'eventualità che veniva considerata probabile se non
inevitabile. Tutti sapevano benissimo che una “metropoli” come
Genova, il porto più importante d'Italia, era in balia di quel
chilometro di calcestruzzo.
Dov'era la classe
dirigente, dov'erano i governi, i ministri e i parlamentari ligur, le
amministrazioni locali, le organizzazioni imprenditoriali, i
sindacati? Per guardare al futuro bisogna sempre analizzare con molta
attenzione il passato, altrimenti con l'alibi dell'emergenza, si
rischia di perseverare negli stessi errori.
Non sto parlando qui di
responsabilità penali o morali, che tutti ci auguriamo vengano
chiarite al più presto, ma di responsabilità politiche,
dell'assenza di un'idea di città che vada oltre la routine, della
sudditanza a interessi particolari, quasi sempre miopi se non
irresponsabili. In questo senso la questione cruciale resta
(dis)connessione fra porto e città.
Al netto delle inadempienze di manutenzione e di controllo, fra le ragioni dell'usura del ponte c’è, nessuno lo mette in dubbio, l'aumento incontrollato dei tir, carichi o scarichi, e dei container, pieni o vuoti, un peso quasi insostenibile sulle spalle, non solo del Ponte Morandi, ma dell’intera città, degli abitanti, dei lavoratori, trasportatori e portuali, che troppo spesso sull'altare di quegli affari hanno perso la vita.
In questi giorni si è
molto parlato di concessioni, a proposito di società autostrade, ma
nessuno, mi pare, ha segnalato che anche le banchine del porto sono
un bene pubblico dato in gestione ai privati. Sono questi privati a
controllare i movimenti delle merci e dovrebbe essere lo Stato, in
questo caso l'Autorità portuale, a garantire che il business non
sovrasti l'interesse pubblico, non divori la città.
Se non si scioglie questa
contraddizione, ma prima è necessario prenderne atto e non
occultarla, è difficile pensare a un qualsiasi futuro. il porto è
una fonte di ricchezza fondamentale per Genova, come ci viene spesso
ripetuto, ma bisognerà finalmente capire e far capire a questa
città, aldilà degli slogan e delle dichiarazioni di intenti, di che
tipo di ricchezza stiamo parlando e del vero rapporto costi/benefici.
Gli esperti di logistica
ci hanno, infatti, da tempo e in modo chiaro, spiegato come negli
ultimi vent’anni a Genova, con il passaggio dal porto-emporio al
porto industriale, siano aumentati produttività e profitti, ma non
si sia incrementata allo stesso modo la ricchezza per la città e
l’occupazione. Sono invece cresciuti in modo esponenziale le
“servitù”: traffico pesante, incidenti sul lavoro e stradali,
inquinamento.
Nella tragedia del ponte
si contano 43 vittime, la cui unica colpa e stata quella di fidarsi
di Genova; ritengo che la citta abbia il dovere di domandarsi perché
e in che modo ha tradito questa fiducia. Fare finta di nulla o
scaricare su altri le proprie responsabilità sarebbe una storico
errore. Senza verità e consapevolezza collettiva i giusti appelli
all’unità di azione non hanno significato.
Il Secolo XIX –
9 settembre 2018
sabato 8 settembre 2018
giovedì 6 settembre 2018
Da Bordiga a Chavez, passando per Debord. Eduardo Rothe, il situazionista venuto dal Venezuela
In quindici anni di
vita dell'Internazionale situazionista (1957-1972), a fronte di migliaia di situazionisti
“autocertificati”, i membri “ufficiali” sono stati poco più di una settantina. Tranne Debord e
un'altra decina, di loro non si sa quasi nulla. Ne stiamo
ricostruendo le storie. Oggi parliamo di Eduardo Rothe.
Giorgio Amico
Eduardo Rothe, il guerrigliero
bordighista diventato ministro (o quasi)
Gli anni '60 sono gli
anni d'oro della rivoluzione cubana e del Che, nella storia
dell'Internazionale situazionista, diventata dopo il 1962 un
movimento integralmente politico, non poteva mancare anche un
ex-guerrigliero latino-americano che, dopo mille peripezie e la
scoperta del comunismo eretico di Amadeo Bordiga, sbarca in Europa
nel '68 per partecipare alla “rivoluzione” del Maggio.
Eduardo Rothe nasce nel
1945 a La Plata in Argentina dove il padre, organizzatore sindacale,
si era rifugiato
all'indomani della grande lotta
dei minatori di El Callao
per sfuggire alla repressione che
imperversava in Venezuela. Dopo aver girovagato con la famiglia
attraverso tutto il continente, Edoardo inizia a militare
quindicenne nell'organizzazione giovanile del PC venezuelano e poi
nel MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) che agisce in
clandestinità. Un'esperienza altamente formativa, Rothe verrà anche
arrestato, ma che lo lascia insoddisfatto per i limiti teorici
evidenti della sinistra rivoluzionaria filocastrista.
In cerca di più solide
basi teoriche, e probabilmente anche di nuove emozioni politiche,
egli entra in contatto con Marc Chiric, militante di origine russa della sinistra comunista che nel 1952 aveva abbandonato la Francia
per il Venezuela ritenendo imminente lo scoppio della terza guerra
mondiale. A Caracas Chiric aveva riunito attorno a sé un piccolo
gruppo di studenti ed editava una rivista, Internacionalismo, che
tentava una sintesi fra le tesi della sinistra comunista italiana e
l'esperienza germano-olandese dei consigli operai. Il gruppo si era
costituito nel 1964 in condizioni particolarmente difficili
d’illegalità e di repressione feroce e aveva presto avviato un
dialogo con realtà rivoluzionarie francesi e italiane.
Nel '68, sull'onda della
rivolta studentesca che dopo decenni di controrivoluzione pare
riaprire in Europa spazi all'azione delle minoranze rivoluzionarie,
Marc Chiric torna a Parigi con una parte dei suoi giovani seguaci.
Rothe è uno di questi, ma, affascinato da Debord e dai
situazionisti, non segue Chiric nella costruzione di una nuova
organizzazione marxista rivoluzionaria, la Corrente Comunista
Internazionale, ma, dopo una attiva partecipazione all'azione del
CMDO (Consiglio per il mantenimento delle Occupazioni), aderisce
all'I.S. e raggiunge la sezione italiana creata a Milano nel gennaio
1969 da Gianfranco Sanguinetti, Claudio Pavan e Paolo Salvadori.
La sua partecipazione ai
lavori dell'I.S. è molto intensa. Collabora al dodicesimo e ultimo
numero della rivista con l'articolo La conquête
de l'espace dans le temps du pouvoir (septembre 1969), poi con
Puni Cesoni scrive Il Reichstag brucia? Un pamphlet siglato Gli
amici dell'Internazionale che, primo in Italia, denuncia la strage di
Piazza Fontana come una provocazione di Stato.
Nell'aprile 70 è escluso
dall'I.S., ma continua la sua attività politica in Italia per poi
trasferirsi in Portogallo al tempo della rivoluzione dei garofani.
Tornato in Venezuela,
dopo aver svolto diverse attività, fra cui l'agronomo e il
pescatore, si è dedicato con grande successo al giornalismo
televisivo, per finire poi membro dello staff di Andrés Izarra
ministro delle Informazioni e della Comunicazione del governo Chavez.
domenica 2 settembre 2018
Armando. Il situazionista venuto dal lager
Si
dice Internazionale situazionista e immediatamente si pensa a Debord.
In realtà l'avventura situazionista è un crogiolo di storie
personali.
Giorgio Amico
Armando. Il
situazionista venuto dal lager
La sezione olandese è
una delle più piccole dell'Internazionale. In tutto cinque membri:
Anton Alberts, Constant,
Jacqueline de Jong, Har Oudejans e Armando. Per l'artista,
anticonformista anche nella vita, Armando non è uno pseudonimo, ma
il nome vero, assunto in ricordo della nonna italiana, quello che
egli sente come suo, tanto da sostenere una lunga battaglia legale
per farlo accettare anche dai registri dello stato civile. A più
riprese dichiarerà che semmai lo pseudonimo è il nome “ufficiale”
con cui è stato registrato alla nascita. Io sono Armando –
dichiara- Armando e basta, il cognome non mi serve e non lo voglio.
Riuscirà a spuntarla e da allora anche per lo Stato sarà Armando e
basta. E questo già la dice lunga sulla determinazione e la tenacia
del personaggio, ma anche sul suo anarchismo di fondo. Non sono
molte le tracce che ha lasciato della sua permanenza
nell'Internazionale situazionista. Giusto un paio: la firma -
insieme ad Anton Alberts, a Constant e a Har Oudejans - sotto il
Primo Proclama della Sezione olandese apparso sul numero 3 della
rivista e la partecipazione alla Terza Conferenza dell'IS, tenutasi a
Monaco dal 17 al 20 aprile 1959.
Armando in realtà si
chiamava Herman Dirk van Dodeweerd ed era nato ad Amsterdam il 18
settembre 1929, un mese prima del crollo di Wall Street, e dunque,
come scriverà di sé Debord, nel segno della rovina. Bambino, va a
vivere a Amersfoort, una cittadina vicino a Utrecht che durante la
guerra ospita un grande campo di “transito” per gli ebrei
olandesi che lì vengono concentrati per essere poi smistati nei
campi di sterminio di Auschwitz, Sobibór e Theresienstad. La sua
famiglia abita in una casa posta sul tragitto fra la stazione
ferroviaria e il lager e il bambino assiste sgomento al continuo
passaggio di lunghe file di prigionieri. Uno spettacolo di crudeltà
e di desolazione che lo segnerà profondamente per il resto della
vita e che influenzerà potentemente la sua produzione artistica.
Amersfoort 1944
Dal 1949 al 1954 studia
storia dell'arte all'Università di Amsterdam. Come molti
situazionisti Armando è una figura eclettica: pittore e scultore, ma
anche scrittore, violinista e poeta. Un tipo di poesia molto
particolare la sua: un collage di spezzoni di conversazioni raccolti
per strada e nei caffè, mescolati con annunci pubblicitari e
locandine, a formare veri e propri puzzle linguistici.
Nel 1954 tiene la sua
prima personale alla Galerie Le Canard di Amsterdam, una vecchia
libreria antiquaria trasformata nel 1950 in galleria d'arte da Hans
Roduin, poeta e autore teatrale di una certa fama. Nel clima torpido
dei primi anni '50, Le Canard si impone immediatamente all'attenzione
per il suo dichiarato anticonformismo. Nei suoi sette anni di
esistenza, chiuderà nel 1957, l'ex libreria sarà il luogo di
incontro degli artisti sperimentali e la sede ufficiosa del gruppo
olandese del movimento CoBrA. Vi si terranno una settantina di mostre
oltre che serate musicali e di danza, incontri letterari, spettacoli
di mimi e teatro di marionette. Il tutto all'insegna del più
sfrenato avanguardismo. E' lì che, dopo gli studi accademici,
Armando si forma come artista, a stretto contatto con il movimento
CoBrA per partecipare poi nel 1958, assieme a Henk Peeters, Jan
Schoonhoven, Jan Hendrikse e Kees van Bohemen alla fondazione del
Gruppo Informale Olandese.
Armando non è un artista
puro, per vivere fa un po' di tutto: il pugile, il musicista in una
banda gitana, il giornalista - redattore della rubrica artistica
della rivista De Haagsche Post e poi freelance da Berlino- infine
dalla fine degli anni Sessanta l'attore e il regista teatrale e
televisivo.
All'inizio del 1959
aderisce all'Internazionale situazionista. Una permanenza tutto
sommato breve visto che nella primavera del 1960 è già fuori.
Dopo l'esclusione,
Armando partecipa all'esperienza di “Zero = O, Rivista per la nuova
concezione nelle arti visive” e ad altre esperienze d'avanguardia.
Le sue opere si caratterizzano per i colori forti (il nero e talvolta
il rosso) e per la cupezza dei toni. La guerra e soprattutto
l'esperienza tragica della vicinanza al lager di Amersfoort è sempre
presente nel suo lavoro. Lo dimostra l'uso insistito di materiali
(bulloni, lastre di metallo) che ricordano caserme, reticolati, carri
armati. Ma anche nel 1967 la pubblicazione di un libro di interviste
ai volontari olandesi nelle SS. Un tentativo di
preservare la memoria, di dare un senso all'orrore.
Muore a Potsdam il 1 luglio 2018.
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