Partendo
dall'autobiografia di una ribelle russa del primo Novecento, Dino
Erba riflette sugli intrecci poco conosciuti tra bolscevismo, rivolta
femminile, sottoproletariato e malavita. E sul lavoro, mito fondante
dell'ideologia socialista, ma già dal 1918 diventato nella Russia
sovietica strumento repressivo e base dello sfruttamento di milioni
di prigionieri-schiavi.
Dino Erba
Quando Evgenija
Jaroslavskja-Markon e Jakov Blumkin si incontrarono nella «malavita»
russa
I bassifondi della
storia offrono spesso (non sempre) occasioni di riflessione, e
di critica, su luoghi comuni duri a morire. È il caso
dell’«auto-biografia» di Evgenija Jaroslavskja-Markon, una
giovane intellettuale sovversiva, trascinata nel gorgo della
rivoluzione russa che ella cercò di cavalcare, per finirne travolta.
L’«autobiografia» la scrisse poco prima della fucilazione,
avvenuta il 20 giugno 1931, aveva 29 anni. Una vicenda umana che mi
ha richiamato quella di Jakov Blumkin, sul quale ho letto
recentemente un libro, dedicandogli una recensione (Christian
Salmon, Il progetto Blumkin, Laterza, Bari-Roma, 2018).
Sono molti i punti in
comune tra Evgenija Jaroslavskja-Markon e Jakov Blumkin, con
significative distinzioni. Erano entrambi ebrei: però lei era ricca
(e privilegiata), lui era povero (ed emarginato). Entrambi furono
attratti dall’anticonformismo intellettuale di quegli anni: lui ne
fu ne fu partecipe, lei ne fu un esponente. Non sappiamo se si
conobbero. Entrambi sostennero il bolscevismo: lei fin dall’inizio,
per rompere quasi subito; lui, dopo averlo dapprima criticato, ci
entrò anima e corpo. Infine, entrambi furono attratti dalla
«malavita» (mi si consenta il termine): lui per necessità, lei per
ideologia. Entrambi conclusero la loro vita davanti al plotone
d’esecuzione bolscevico: lui lasciò una traccia indelebile, lei
cadde nell’oblio.
Le donne, la rivoluzione
e la malavita
Pur sotto queste
differenti prospettive, entrambi sono figli di quegli anni.
Oltre allo slancio eversivo, c’è il clima artistico-intellettuale
che li avvinse, con tutte le sue presuntuose ingenuità, cui accenno
nella mia recensione. In Evgenija, è poi emblematico
quell’impul-so sovversivo che, in Russia, animò le donne, con
una lunga schiera di figure che non ha confronti con l’Occidente,
men che meno con l’Italia [vedi i recenti: Martina
Guerrini, Le cospiratrici. Rivoluzionarie russe di fine
Ottocento. Lettere e memorie di Olimpia Kutuzova Cafiero, Prefazione
di Antonello Venturi, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2016; Mila
Cotlenko, Maria Nikiforova. La rivoluzione senza attesa.L’epopea
di un’anarchica attraverso l’Ucraina (1902-1919), El Rùsac,
Trento ecc., 2016; Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli
1917-1921, Elèuthera, Milano]. È un impulso che affonda le sue
radici nella stessa storia (nell’antropologia?) slava e di cui poco
o nulla si dice (buoni riferimenti in: Francis Conte, Gli
Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Einaudi,
Torino, 1991, Libro C: Le donne nelle terre slave).
Ma c’è un altro
aspetto che risulta assai evidente nella vicenda di Evgenija: il
forte riferimento alla «malavita» – e ai conseguenti
comportamenti – che assume una valenza politica tendenzialmente
riconducibile a Bakunin e che è assolutamente estranea alla
sovversione europea, con rare e marginali eccezioni, come la Banda
Bonnot o Ravachol. Una citazione è doverosa, nel 1930
«Evgenija Jaroslavskja
resta a scontare la pena sull’isola Bol’soj Zajackij (arcipelago
delle Solovki, ndr). Qui, in mezzo a criminali comuni e altri membri
della malavita, tenta, per usare le sue parole, “di avviare il
lavoro”: cerca di persuadere i compagni di lager a rifiutarsi di
lavorare, pubblica un foglio manoscritto, la Gazeta Urkanskaja Pravda
(La Pravda dei delinquenti), dove, ricorrendo a espressioni
oscene e al gergo della mala, esorta il mondo dei fuorilegge a
sollevarsi e a rovesciare il potere dei bolscevichi» (p. 144).
Maiakovskij, La signorina e il teppista (1918)
Lumpenproletariat in
salsa russa?
A mio avviso, non è una
questione marginale. L’«auto-biografia» mette il dito in una
delle vene aperte della rivoluzione russa: la sua composizione
sociale che, spesso e volentieri, viene ricondotta a quella
dell’Europa occidentale. Come fanno Olivier Rolin nella
prefazione e Irina Flige nella postfazione all’«autobiografia»
di Evgenija.
La malavita è spesso
assimilata al lumpenproletariat, termine su cui già mi sono
espresso in modo assai critico. In breve, in italiano,
viene trasposto col termine SOTTO proletariato,
mentre invece la traduzione corretta è proletariato STRACCIONE.
Termine con cui Marx indica gli strati bassi del proletariato che,
espulsi dalle campagne, affluirono nei centri industriali, trovando
occupazioni precarie e marginali. Ovviamente, per mettere insieme il
pranzo con la cena, costoro dovettero arrabattarsi, vivendo di
espedienti, in quell’aria grigia tra legalità e illegalità che
Danilo Montaldi definisce leggera. Termine padano, ma
che, cum grano salis, può essere esteso a diverse realtà
occidentali. Il lumpenproletariat, di cui parla Marx, nasce con
la rivoluzione industriale che, nell’Europa occidentale, inizia nel
XVII secolo e culmina nel XIX secolo.
La Russia, la rivoluzione
industriale, la conobbe, peraltro di riflesso (importata), alla fine
del secolo XIX, come in molte aree colonizzate dall’Occidente. E
solo marginalmente. E assolutamente marginali, se non assenti, furono
quei fenomeni sociali che, nell’Europa occidentale, sorsero a
partire dal XIII secolo.
Fatta questa premessa –
le questioni accennate restano ovviamente da approfondire –,
veniamo all’humus cultural-politico che pervade l’«autobio-grafia»
di Evgenija: i devianti, spesso liquidati col termine
«malavita». È un argomento poco conosciuto, e di conseguenza ne
sono rimosse le implicazioni sociali che accompagnarono la
«costruzione del socialismo». Riferimenti, però negativi, li
troviamo nella letteratura del GuLag (Solzenistin,
Šalamov).
Dalla devianza allo Stato
criminale, attraverso il socialismo reale
Per avere un primo
sprazzo di luce sul lato oscuro del socialismo reale – almeno per
l’Italia –, dobbiamo aspettare il 1986, con le Le notti di
Mosca di PietroZveteremich (Pietro A. Zveteremich, Le notti
di Mosca. Riposa in pace caro compagno. Romanzo fantastico,
Sugarco, Milano, 1986). Il romanzo fantasticoapparve dapprima in
Unione sovietica nel 1971, sotto forma di anonimo samizdat,
suscitando comprensibili apprensioni nell’establishment
brezneviano. Poi, nel 1997, in piena era eltsiniana, apparve il
film Il ladro, ambientato nel secondo dopoguerra sovietico. Il
protagonista è un ladro gentiluomo (stile Arsenio Lupin) che, nelle
sue imprese, gioca da solo, senza incontrare troppi ostacoli,
eludendo gli occhiuti controlli polizieschi. A ben vedere, il ladro è
presentato in una veste romantica, in netto contrasto col dilagare,
nella Russia di Eltsin, di una malavita emula, in peggio,
dell’Occidente. Un milieu criminale che ha ispirato gli
scritti di Nicolai Lilin, in cui gli echi di un mitico passato
malavitoso russo si confondono tra realtà e fantasia. Ci sarebbe da
rintracciare il bandolo della matassa...
Da parte mia, ritengo
che, senza voler cercarne troppo remote radici, l’attuale malavita
russa abbia avuto la sua incubazione e maturazione, sotto traccia,
durante i settant’anni di socialismo reale. Il risultato è un
ibrido, frutto di passato e presente, di Oriente e Occidente, di
Stato e società civile (criminale). Come era un ibrido tutta
la struttura economico sociale della Russia cosiddetta sovietica, in
cui l’universo concentrazionario, per estensione e durata,
costituisce un fenomeno senza precedenti nella storia mondiale.
Il lavoro fortifica
l’anima e il corpo!
Nel GuLag, si
combinavano sia il lavoro forzato sia il controllo sociale e, a mio
avviso, fu proprio il secondo – il controllo sociale –
l’aspetto prevalente, imposto dalla fragilità dello Stato
sedicente socialista che, con la presunta pedagogia del
lavoro forzato, cercava di travisarla. La scritta «Il lavoro
fortifica l’anima e il corpo» apparve alle isole Solovki, il lager
sovietico vicino al Circolo Polare Artico, che ospitò Evgenija.
Il lager fu inaugurato nel 1919, «regnante» Lenin, non Stalin (e
vent’anni prima di Auschwitz).
In realtà, il lavoro
forzato si rivelò una diseconomia, più costi che benefici
(vedi: Dino Erba, La rivoluzione russa. Cent’anni di
equivoci. Marx, i marxisti e i costruttori del socialismo,
All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017, p. 45).
Nell’ottica
dell’ibridazione, potrebbero essere affrontati gli aspetti
peculiari della devianza sociale (la «malavita») russa prima e
durante i sommovimenti degli anni 1905-1917. La letteratura
disponibile, come l’«autobiografia» di Evgenija
Jaroslavskja-Markon, offre spunti rivelatori, per chi vuole
intendere. Sarebbe un’occasione per meglio definire le ipotesi
sulla rivoluzione in Russia, seguendo le tracce dei populisti, di
Bakunin, di Marx, dei socialisti rivoluzionari, nonché delle
numerose tendenze (più che sette) millenariste pullulanti nella
Russia zarista, dai vecchi credenti cristiani ai chassidimebrei.
E allora, forse, si potrebbe concludere che le varie interpretazioni
sulla rivoluzione russa, formulate nel tempo, sono in buona parte
pastrocchi.
Questa conclusione
contribuirebbe a demolire la mitologia del lavoro, sulla quale, per
due secoli, si sono costruite deleterie ipotesi politiche di
redenzione sociale che l’attuale crisi sistemica del modo di
produzione capitalistico vanifica, mostrando tutta l’inessenzialità
del lavoro.
Attualità del
lumpenproletariat
Al tempo stesso, la
crisi, con la diffusione del lavoro precario (flessibile!) sta
rendendo attuale e sta generalizzando il lumpenproletariat:
l’esercito dei senza risorse. Non è un ritorno a un
remoto passato, c’è una sostanziale differenza: manca, nel modo
più assoluto, una prospettiva di redenzione sociale. Oggi, l’unica
prospettiva è il costante, e drastico, peggioramento delle
condizioni di lavoro e di vita. Contro cui ogni compromesso ha le
gambe corte, costringendo a lotte defatiganti e inconcludenti. Per
forza di cose, la risposta comporta, inevitabilmente, l’adozione e
la diffusione di metodi di lotta che qualche anima bella potrebbe
definire criminali [1].
Dino Erba, Milano, 2
settembre 2018.
[1] Introduco la
questione in: Vivere senza salario. I senza risorse, i senza
futuro crescono di giorno in giorno. Oggi si arrangiano. E
domani? Recensione a: Giorgio Panizzari, L’albero
del peccato, Colibrì, Paderno Dugnano (Milano), 2017. pp. 204, €
14. Milano, 1 settembre 2017.
Evgenija
Jaroslavskja-Markon
La ribelle
Guanda, 2018
€16,50.