TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 27 dicembre 2014

Frammenti di speranza: quando la devozione si fa arte



A Finale Ligure la mostra "Frammenti di speranza: quando la devozione si fa arte"

Il Museo Archeologico del Finale, allestito nei suggestivi spazi del Complesso Monumentale di Santa Caterina in Finalborgo, ospita fino al 6 gennaio 2015 una mostra di Etno-medicina dal titolo “Frammenti di speranza. Quando la devozione si fa arte”.

La mostra, che si svolge sotto il Patrocinio di ICOM - International Council of Museums, nasce dalla collaborazione con la Cattedra Unesco “Antropologia della salute - Biosfera e sistemi di cura”, istituita nel 2013, e il Museo di Etnomedicina “A. Scarpa” dell’Università di Genova, creato e diretto dal Prof. Antonio Guerci. L’esposizione presenta suggestivi ex-voto anatomici provenienti da diversi continenti, conservati a Genova presso il Museo “A. Scarpa”, integrati da pannelli didattici che illustrano la figura di Antonio Scarpa quale studioso di etnomedicina e il significato degli ex-voto nelle diverse culture planetarie.



Il Museo di Etnomedicina “A. Scarpa” dell’Università di Genova, inaugurato nell’ottobre del 1972 e nel suo attuale insieme nel maggio del 1996, rappresenta un unicum nel panorama museale mondiale. L’Etnomedicina è lo studio dei sistemi medici di prevenzione e cura delle diverse popolazioni umane. Nei differenti ambienti, individui e popolazioni hanno cercato gli elementi essenziali per la propria esistenza, per il mantenimento e la promozione del proprio benessere (dagli alimenti alle sostanze che prevengono o curano le malattie), adottando differenti strategie terapeutiche in funzione della loro cultura e delle loro strutture sociali, ma anche in relazione alle caratteristiche climatiche, geologiche, fito-geografiche, faunistiche, pertanto alla specifica situazione ecosistemica.

Alimentato in 50 anni di ricerche condotte in tutto il mondo, custodisce oltre 1500 oggetti raccolti da Antonio Scarpa, un medico curioso di apprendere come si curano, seguendo le proprie medicine tradizionali, i popoli dei cinque continenti. Ciascun oggetto ha dietro di sé una storia complessa, una fitta tela di rimandi anatomici, fisiologici, linguistici e culturali che lo legano in modo indissolubile sia alla propria cultura e alla propria storia, sia al fenomeno universale del corpo umano sofferente o bisognoso di cure.



Ma l’autentico valore scientifico e culturale della collezione è costituito dalle relazioni che gli oggetti intrattengono fra loro, nel disegno (a un tempo culturale e biologico) che essi tracciano nel loro insieme. La collezione, ordinata secondo un criterio diacronico, a partire dai sistemi medici più antichi per giungere all’attualità delle tradizioni popolari, rispetta nel contempo la cronologia degli itinerari compiuti da Scarpa dal 1938 al 1992.

La mostra “Frammenti di speranza. Quando la devozione si fa arte” sarà visitabile fino al 6 gennaio 2015 in orario di apertura del Museo Archeologico del Finale, con lo stesso biglietto d’ingresso: da martedì a domenica, ore 9.00-12.00 e 14.30-17.00 (lunedì chiuso). Per informazioni tel. 019 690020 – www.museoarcheofinale.it


http://turismo.provincia.savona.it/

A Finalborgo torna Librinchiostro



A Finalborgo torna Librinchiostro

Due giornate dedicata all’editoria nelle festività

Dopo il successo della prima edizione di Librinchiostroinborgo del 2013, l’Associazione “Emanuele Celesia” Amici della Biblioteca, durante le festività proporrà un’edizione invernale dell’evento.

La seconda edizione di Librinchiostroinborgo, che si vuole proporre come evento culturale e turistico, prevede due giornate dedicate all’esposizione e vendita di libri nuovi ed usati, con una sezione dedicata ai libri di Liguria ed una sezione aperta alle altre regioni.

La rassegna sarà aperta ad autori, editori ed antiquari. L’esposizione e la vendita saranno affiancate da una serie di eventi collaterali: convegni, dibattiti, presentazioni di libri, attività didattiche anche per bambini. L’edizione invernale di Librinchiostroinborgo si sposta all’interno delle Sale dell’Oratorio de’ Disciplinanti e si snoderà in un percorso accogliente e rilassante tra i piani che in passato hanno ospitato una tipografia.

Ne resta una testimonianza, un’antica stampatrice situata all’ingresso dell’Oratorio, proprio a richiamare il collegamento tra passato e futuro. La manifestazione è rivolta prevalentemente alle case editrici che operano in Liguria, nonché alle case editrici non liguri, ma che pubblicano libri sulla nostra regione (storia, cucina, territorio, personaggi, turismo, ed altro ancora).

Inoltre sarà dedicata una sezione speciale alle case editrici provenienti dalle altre regioni. LibrinchiostroinBorgo è organizzata dall’Associazione “Emanuele Celesia” Amici della Biblioteca Civica con il patrocinio del Comune di Finale Ligure e della Regione Liguria, con la collaborazione del Museo Archeologico del Finale, della Biblioteca Civica e dell’Associazione Finalborgo.it.


http://www.rsvn.it/

mercoledì 24 dicembre 2014

Zapruder 35. Capital City. (Dis)ordine economico e conflitti urbani



È in distribuzione il trentacinquesimo numero del quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (settembre-dicembre  2014).

Lo Zoom è dedicato al tema:
"Capital city. (Dis)ordine economico e conflitti sociali".



Oggi le città appaiono sempre più attraversate da frontiere spaziali, risultato di processi di ristrutturazione urbana, di speculazione edilizia e, non ultimo, di segregazione sociale. Se le trasformazioni materiali e sociali che caratterizzano la storia recente delle realtà metropolitane dipendono in gran parte dall’azione degli interessi economici, che contribuiscono a riconfigurare i bisogni e le aspettative degli abitanti, quale ruolo gioca il capitale all’interno di questo fenomeno di portata oramai globale?

Partendo da questo interrogativo, la città diventa qui un oggetto privilegiato da decostruire e indagare sotto la lente della conflittualità prodotta dal cosiddetto “capitalismo urbano”, i cui effetti alimentano nel tempo forme di resistenza eterogenee più o meno visibili (occupazioni, movimenti contro gli sfratti, orti urbani, rifiuto della riscrittura della memoria dei luoghi, ecc.). Facendo ricorso a contributi disciplinari diversi (dalla geografia all’antropologia urbana), in questo numero abbiamo cercato di raccogliere studi provenienti da aree geografiche diverse (Stati uniti, Europa, Est asiatico), che permettano di gettare uno sguardo, seppur parziale, sugli effetti concreti del binomio (dis)ordine economico/conflitti urbani.

La capital city, a Milano, a Barcellona, a Filadelfia o ancora a Phnom Penh, rappresenta un campo di contesa in cui confliggono forme di appropriazione dello spazio che riflettono ispirazioni e aspirazioni divergenti, come dimostrano le tensioni permanenti tra le logiche del capitale (la rendita) e quelle della cittadinanza urbana (il “diritto alla città”) descritte in questo numero. Queste tensioni possono sfociare in manifestazioni di dissenso individuale e collettivo oppure in pratiche di normalizzazione dello spazio (segregazione, riqualificazione, gentrificazione) che prefigurano, sotto certi aspetti, una lotta di classe al contrario.


SOMMARIO

«Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale», n. 35, settembre-dicembre 2014

EDITORIALE
Ferruccio Ricciardi e Ivan Severi, Città contese: spazi urbani e frontiere sociali

ZOOM – CAPITAL CITY. (DIS)ORDINE ECONOMICO E CONFLITTI URBANI
Olivier Cousin, “La città dei numeri uno”. Berlusconi e l’invenzione dei nuovi quartiere borghesi a Milano
Camillo Boano e Giorgio Talocci, Vuoti urbani a perdere. Sgomberi forzati e governo della città a Phnom Penh
Marco Sioli, Nazione e metropoli. Esposizioni universali e sviluppo urbano degli Stati uniti dell’Ottocento

LE IMMAGINI
Joana Furió, Per chi è la città? Barcellona prima e dopo i giochi olimpici (a cura di Andrea Tappi e Javier Tébar Hurtado)


SCHEGGE
Giovanni Pietrangeli, Industria capitale. Decentramento produttivo e costi sociali a Roma nel secondo dopoguerra
Giuseppe Cilenti, Clash of the poleis. Realismo politico e guerre persiane
Luigi Candreva, La “coglioneria” di Togliatti. Il Pci e l’appello ai “fratelli in camicia nera”

LUOGHI
Lilliana Ellena, Luisa Renzo e Giulia Strippoli, RI-Torino

ALTRE NARRAZIONI
Piero Zanini, La forma nel tempo. Pasolini e la città
Nieves López Izquierdo, Coltivare cartografie. Orti urbani a Barcellona

IN CANTIERE
Ornella Zaza, Smart city. Appunti di ricerca sulla città tra partecipazione e cooperazione

VOCI
Elisabetta Teghil, Il carattere politico dello spazio urbano (a cura di Lidia Martin)

INTERVENTI
Cesare Di Feliciantonio, Spazi di contesa. Città e movimenti sociali
Federico Paolini, Metabolismi urbani e modelli di consumo. Appunti sul caso europeo
Giampaolo Calchi Novati, C’è stato una volta Nelson Mandela

RECENSIONI
Raffaele Nencini (Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni, Una stanza all’Einaudi)
Giovanni Pietrangeli (Centro sociale Askatasuna (a cura di), A sarà düra. Storie di vita e militanza no tav)
Iacopo Nappini (Pio D’Emilia, Tsunami nucleare. I trenta giorni che sconvolsero il Giappone)
Fiammetta Balestracci (Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile)


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Per scrivere alla redazione, l'indirizzo è zapruder@storieinmovimento.org


Auguri!


Auguri a tutti

dal Bego

montagna sacra degli antichi liguri

lunedì 22 dicembre 2014

"A buon intenditor...". Proverbi liguri a cura di Fiorenza Giorgi e Dino Gambetta



Oggi alle 18.00

a Savona

presso la Libreria Ubik

verrà presentato il libro "A buon intenditor..." di Dino Gambetta e Fiorenza Giorgi
Edizioni Zem







Questo volume nasce dalla collaborazione fra due persone molto diverse, un magistrato in prima linea nel lavoro quotidiano e un’artista-giardiniere, che vive in campagna nella sua casa-atelier. A unire i due autori è la Liguria, l’amore fortissimo, ma non cieco, e per questo più autentico, per la propria terra. Dal loro incontro nasce un lavoro che è un garbato invito, in un’epoca di massificazione, a non perdere le radici di una cultura popolare, ricca di saggezza, pervasa d...i ironia, di umorismo talvolta caustico ed irriverente.

La saggezza ligure trova espressione originale proprio nei proverbi e nei modi di dire, prevalentemente riconducibili ai contesti contadino e marinaro. Recuperati con pazienza e passione da Fiorenza Giorgi nel suo lavoro di “memoria” e illustrati con garbo e ironia da Dino Gambetta i proverbi testimoniano una saggezza popolare, ricca e stuzzicante, che offre mille spunti di riflessione e di piacevole divertimento.


Fieri di appartenere ad una terra aspra e vulnerabile, di meravigliosa ma fragile bellezza, gli autori si fanno paladini della loro cultura popolare con leggerezza ed intelligenza, con amore e gratitudine…


venerdì 19 dicembre 2014

martedì 16 dicembre 2014

Pinot Gallizio e l'arte come liberazione della vita



Oggi alle ore 18.00 a Savona nei locali della SMS Libertà e Lavoro e Mille Papaveri Rossi di Lavagnola, si terrà l'incontro organizzato dalla Sez. ANPI “Fratelli Briano” con Giorgio Amico dal titolo: "Pinot Gallizio, l'arte come percorso di liberazione della vita".

Proponiamo il ricordo di Pinot Gallizio uscito sulla Gazzetta di Alba nel cinquantenario della morte.

Edoardo Borra

Pinot Gallizio Maestro incompreso di Alba

Il 13 febbraio 1964 moriva, a 62 anni, una delle personalità albesi più affascinanti del Novecento, che fece della sua casa un centro di movimenti d’avanguardia europei.

Mezzo secolo ci separa, oggi, anche dalla scomparsa di Pinot Gallizio (1902-1964): nel giro di un anno Alba ha dovuto consumare tre anniversari luttuosi, che impressionano per quanto sono ravvicinati e per come ora li soppesiamo. Beppe Fenoglio, Giacomo Morra e Gallizio se ne vanno tutti improvvisamente, tra gli estremi del 18 febbraio 1963 e del 13 febbraio 1964: impossibile non farsene influenzare, non parlare di un prima e di un dopo, non riconoscersi nella posizione avvantaggiata e rammaricata dei posteri.

Oggi siamo felici e orgogliosi di constatare le tracce della consacrazione e dell’accettazione di trovare il nome di Gallizio nelle storie delle avanguardie del secondo Novecento, le sue opere a Londra, Parigi, Madrid…; chi ci tiene, può dire tranquillo che Gallizio è uno degli ambasciatori di Alba nel mondo. Qualcuno se n’era accorto già mezzo secolo fa, ma non faceva parte di una compagnia numerosa.

Tra i suoi rotoli di pittura industriale – l’oggetto che a Gallizio viene schematicamente associato, come il sigaro a Groucho Marx o i tulipani all’Olanda – ne avanza uno, in più spezzoni ritagliato, che porta un titolo divertente e “aperto”: Le acque del Nilo non passarono ad Alba. Il viaggio a ritroso delle ricostruzioni e dei riconoscimenti lo attribuisce a una tela di oltre 13 metri, dipinta nella primavera del 1958: agli inizi del periodo situazionista, dunque, al battesimo della pittura da vendersi a metraggio.

Si sa bene quanto siano divertenti e poetici i titoli delle opere di Pinot Gallizio: anche quando riportano un intercalare, o si rivestono di un titolo altrui (detournandolo), sono sempre il corrispettivo ideale, persino autonomo, delle sue visioni magiche, o al minimo del suo temperamento ironico. Nel 1958, la classe dirigente di Alba non sapeva metabolizzare correttamente l’idea di un estroso ex farmacista fabbricante di caramelle alle erbe, di un consigliere comunale dalla molto vivace opposizione, di un competente insegnante di erboristeria e aromateria (amatissimo dai suoi studenti, come da tutti i giovani) che si mescolava, lui “vecchio” cinquantenne, a venti-trentenni provenienti da Parigi, Amsterdam, Cosio d’Arroscia, intestando la sua casa-laboratorio a succursale creativa di movimenti d’avanguardia di portata europea.

Gallizio, dal canto suo, non forniva (apposta) dati rassicuranti a chi liquidava a priori il suo serissimo gioco, moltiplicando le «mattane», offrendo generosamente spunti per l’aneddotica presente e futura: come quando, ricordava suo figlio Pier Giorgio, fece sprizzare grumi di colore scoppiandoci dentro dei petardi, sul tetto lungo e piatto di una rimessa in cortile, a beneficio dei deliziati, scandalizzati vicini. Ma una parte di lui certamente soffriva dell’incomprensione – soprattutto del fatto che non gli venisse attribuito lo sforzo e il credito di una vera e propria ricerca artistica, condannandolo epidermicamente all’estemporaneità e al velleitarismo: «Vorrei che tutti mi capissero, all’infuori dei soldi e della gloria», scriverà. Se però Le acque del Nilo non passarono ad Alba, inutile sperare che la sua città si dimostri un terreno fertile e ricettivo: il titolo è dunque un piccolo sberleffo vendicativo, un’obliqua, satirica accusa.

Una nota di satira la esprime, naturalmente, anche il titolo Lichene spregiudicato, il dipinto del 1961 che speriamo rimanga nella collezione del Comune di Alba, affisso in quella sala consiliare dove Gallizio ha avuto un seggio per una quindicina d’anni, rimanendo, crediamo, ben poco seduto e molto in piedi a proporre, polemizzare, affabulare. Il lichene ci richiama il mondo vegetale, la cui chimica Gallizio padroneggiava; e ci fa saltare in scenari “preistorici”, di rocce e caverne, che tanto sono stati fecondi per la sua immaginazione di adolescente e di artista che cerca lo stupore e la paura dell’uomo del neolitico. Di quell’ignoto artefice che (spiega Gallizio nel prezioso documentario Rai girato pochi mesi prima della sua morte) un giorno decise di graffiare una parete, o di adornare un vaso, perché voleva «giocare»…

Di tanti licheni possibili, pare ovvio che in un quadro di Pinot Gallizio ne finisca uno spregiudicato, spudorato, anticonformista: la sana, positiva spregiudicatezza di Gallizio, artista libero, «amateur professionnel», coinvolto in un gioco millenario.

http://www.gazzettadalba.it/2014/02/pinot-gallizio-maestro-incompreso-di-alba/


martedì 9 dicembre 2014

I figli dell'officina. Storia dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) 1949-1957



Gli anni Cinquanta furono anni importanti per la sinistra non stalinista. Dopo il libro si Sandro Saggioro su Programma comunista, esce ora un interessante volume a cura di Guido Barroero sui GAAP. Il libro ne documenta origini e sviluppi, fornendo in appendice la più completa raccolta oggi disponibile di testi tratti dal giornale L'Impulso. Preziosa anche l'introduzione di Roberto Meneghini che evidenzia (se ce ne fosse bisogno) la totale cesura fra l'esperienza dei GAAP (integralmente collocata sul versante anarchico) e l'attuale realtà di Lotta Comunista.
In comune ci fu soltanto l'appartenenza di alcuni (pochi) militanti, per quanto di peso come Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi. Nonostante i tentativi di teorizzare una continuità fra battaglia libertaria dei gaappisti e futuro “partito scienza” (esemplare in questo senso il libro di Guido La Barbera, secondo Guido Barroero vera e propria “beatificazione leninista” dei GAAP ), la rottura ci fu. E i testi "anarchici" di Cervetto, riportati in appendice, lo testimoniano con la loro rigorosa critica del bolscevismo. Insomma, un libro fondamentale per chi voglia approfondire la conoscenza di quegli anni. (G.A.)

I Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (1949-1957)


Nella prima metà degli anni '50 del XX secolo, in una dimensione internazionale caratterizzata dalla dura contrapposizione tra i due blocchi egemoni (USA vs URSS), i Gruppi Anarchici di Azione Proletaria cercarono di sottoporre a una rigorosa analisi la mutata struttura dello sfruttamento capitalistico, sforzandosi di coglierne novità e linee di tendenza, analizzarono l'azione dell'imperialismo internazionale, comunque mascherato, cercando di coglierne le caratteristiche e tentarono di formulare una proposta strategica capace di opporsi al disegno complessivo dell'imperialismo.

Particolare attenzione venne posta all'analisi della cosiddetta "fase di transizione" dalla società capitalistica a quella postrivoluzionaria, con un'attenta analisi del ruolo dello Stato, "apparato di classe", da liquidare nella fase rivoluzionaria.

Iniziato nel 1949 all'interno della Federazione Anarchica Italiana, il percorso di questi operai comunisti anarchici si separerà in modo lacerante dalla FAI nel 1950. Dal 1951 al 1956 i GAAP avranno una costante presenza all'interno del movimento operaio, perseguiranno una strategia di alleanze con tutte le forze rivoluzionarie, per la costituzione di un Terzo Fronte di avanguardie politiche antimperialiste, che li porterà ad approdi distanti dal comunismo anarchico




Guido Barroero
I Figli dell'Officina
I Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria (1949-1957)
Centro di Documentazione Franco Salomone

Per richieste o informazioni: info@archiviofrancosalomone.org


lunedì 8 dicembre 2014

Nel nome della Madre...



L'ultima iniziativa di Giuliano Arnaldi, collocata nella suggestiva cornice di uno dei grandi palazzi genovesi e in un paesino della montagna ligure. Qualcuno, forse, si stupirà dell'accostamento. Ma, simile al vento, il canto degli archetipi soffia ovunque e sempre, basta saperlo ascoltare.

domenica 7 dicembre 2014

Guy Debord, cineasta



Un omag­gio a Guy Debord, vent’anni dopo il sui­ci­dio, pren­dendo in con­si­de­ra­zione una parte impor­tante e sem­pre troppo poco ricor­data del suo lavoro, cioè il suo cinema, e la rela­zione tra que­sto e il pen­siero.

Jason E. Smith

Guy Debord, cineasta *

Il film di Guy Debord Cri­tica della sepa­ra­zione (1961) si pre­senta sia come “demi­sti­fi­ca­zione del docu­men­ta­rio” sia come “docu­men­ta­rio spe­ri­men­tale”. Le più ragio­nate ana­lisi e rifles­sioni sul film lo hanno trat­tato di con­se­guenza come un film docu­men­ta­rio che para­dos­sal­mente smonta e mostra le con­ven­zioni e e i pre­sup­po­sti ideo­lo­gici della forma docu­men­ta­ria.

Tom McDo­nough, per esem­pio, ha offerto una ana­lisi per­spi­cace del modo in cui Cri­tica della sepa­ra­zione attacca non sem­pli­ce­mente la forma gene­rica del docu­men­ta­rio ma ciò che al tempo era la sua più avan­zata, con­tem­po­ra­nea variante: il cinéma vérité e quello che è spesso preso come il suo più impor­tante esem­pio,Chro­ni­que d’un été (1960) di Jean Rouch. E tut­ta­via se il film di Debord prende come suo obiet­tivo appa­rente il docu­men­ta­rio con­tem­po­ra­neo, pro­pone anche – per sé – altre gene­ri­che pos­si­bi­lità, pro­prio al di là della forma del documentario.

Si con­si­deri per esem­pio la sequenza finale del film, che con­si­ste in una serie di foto­gra­fie dei mem­bri dell’Internazionale Situa­zio­ni­sta accom­pa­gnata da un mono­logo della voce di Debord. L’ultima parte del mono­logo, che enun­cia come il film non sarà in grado di ter­mi­nare pro­pria­mente, è pro­nun­ciata su sequenze di imma­gini in campo/controcampo del regi­sta accre­di­tato del film, Debord, e del suo pro­dut­tore de facto, Asger Jorn, come se i due fos­sero in dia­logo tra loro.Men­tre Debord dichiara che Cri­tica della Sepa­ra­zione è«un film che s’interrompe, ma non si con­clude», la visione del film è costretta nella let­tura di una serie di dichia­ra­zioni sot­to­ti­to­late che asso­mi­gliano alla tra­scri­zione di una con­ver­sa­zione pri­vata, come si fosse in un sala di mon­tag­gio, tra Debord e Jorn.



Uno dei sot­to­ti­toli, bale­nando sullo schermo come l’immagine di Jorn si rivolge verso di noi, dichiara che il film che abbiamo appena guar­dato – per cui non stiamo guar­dando il film stesso, ma la sua con­se­guenza, una nota a piè di pagina o un’appendice – riguarda la «vita pri­vata» e cioè, quindi, «è del tutto nor­male che un film sulla “vita pri­vata” sia fatto uni­ca­mente di pri­vate jokes». Quello che segue, dob­biamo pre­su­mere, è pro­prio un gioco del genere: «Si potrebbe fare una serie di docu­men­tari come que­sto, della durata di tre ore. Una sorta di “serial”/ “I misteri di New York” dell’alienazione.»

Les mystères de New York è il titolo fran­cese di una delle serie cine­ma­to­gra­fi­che più famose dell’epoca del muto, The Exploits of Elaine (1914), con Pearl White come l’eroina che senza sosta si mette sulle tracce di un miste­rioso cat­tivo che ha ucciso suo padre e che è cono­sciuto con l’affascinante sopran­nome di “The Clut­ching Hand” (dato il con­te­sto, forse tra­du­ci­bile con “mano del destino”, n. d. t.). Come Cri­tica della sepa­ra­zione, la serie era molto più breve dei lun­go­me­traggi con i quali era spesso mostrata, ed era strut­tu­rata in una forma a epi­sodi che pote­vano essere pro­iet­tati con­se­cu­ti­va­mente di set­ti­mana in set­ti­mana, con ogni finale – o, piut­to­sto, non finale – in suspense (il “clif­f­han­ger”).

Il titolo pro­po­sto potrebbe essere un “pri­vate joke” che allude (anche se mediato rifles­si­va­mente) al gusto equi­voco pro­prio di Debord per il genere di fic­tion e di pro­du­zione cul­tu­rale più pulp, come evi­den­ziato dal suo libro del 1958 in col­la­bo­ra­zione con Jorn,Mémoi­res, messo insieme quasi inte­ra­mente da fram­menti uniti a mo’ di col­lage di romanzi di fan­ta­scienza, fumetti, foto-romanzi e i romanzi poli­zie­schi della Série Noire. Il rife­ri­mento alla forma minore e obso­leta della serie cine­ma­to­gra­fica dell’epoca del muto sug­ge­ri­sce, anche, un ritorno a una forma sto­rica che, una volta riat­ti­vata, potrebbe essere capace di demi­sti­fi­care il docu­men­ta­rio con­tem­po­ra­neo. Ed equi­vale a un pre­veg­gente anche se non inten­zio­nale segno a un futuro vicino in cui la forma seriale verrà a essere iden­ti­fi­cata non con il film ma con il medium o appa­rato sem­pre più rivale, la tele­vi­sione.

Niente, comun­que, ci vieta di con­si­de­rare let­te­ral­mente il joke, e con­ce­pire la serie di brevi docu­men­tari che Debord ha comin­ciato nel 1959 – Cri­tica della sepa­ra­zione sarebbe il secondo epi­so­dio della serie dei «Misteri di New York” dell’alienazione», dopo Sur le pas­sage de quel­ques per­son­nes à tra­vers une assez courte unité de temps – non sem­pli­ce­mente come docu­men­tari, ma anche come crime sto­ries o misteri. Con una impor­tante spe­ci­fica: che il cri­mine in que­stione può, in que­sto caso, non essere più loca­liz­zato nel tempo nar­ra­tivo o attri­buito a un sog­getto indi­vi­duale. Il cri­mine in que­stione non è que­sto o quell’omicidio. Non è un “torto par­ti­co­lare”, ma ciò che il primo Marx chiama – in un pas­sag­gio usato altrove da Debord – il «torto asso­luto» dell’alienazione. O della separazione.

Ma que­sto non è tutto. Infatti, se Cri­tica della sepa­ra­zione è imme­dia­ta­mente rico­no­sci­bile come un docu­men­ta­rio sulla «vita pri­vata» e una crime story senza solu­zione, si pre­senta anche come una sto­ria d’amore ste­reo­ti­pata, con una miste­riosa gio­vane eroina che, forse, rie­cheg­gia da lon­tano la “Elaine” de The Exploits, ma asso­mi­glia più stret­ta­mente alla Nadja di Bre­ton.

Come con tutti gli altri film di Debord, una gran parte di Cri­tica della sepa­ra­zione è com­po­sta di imma­gini rubate, pre­state o “detour­nate”, o di fram­menti di film da altre fonti: cine­gior­nali, pub­bli­cità, foto­gra­fie dal mondo della carta stam­pata fra le altre cose. Ma a dif­fe­renza di quei film, e in par­ti­co­lare dei meglio cono­sciuti fra que­sti – la ver­sione fil­mica del 1973 de La società dello spet­ta­colo e In girum imus nocte et con­su­mi­mur igni (1978) – Il film di Debord del 1961 non usa alcun fil­mato dalla sto­ria del cinema.



Al con­tra­rio, Debord “copre” il mate­riale fil­mato di cui si è appro­priato – gio­vani donne in bikini, rivolte con­go­lesi, il bom­bar­da­mento di aerei da guerra ame­ri­cani – con una nar­ra­zione appa­ren­te­mente fic­tion, girata in 35 mm dal diret­tore della foto­gra­fia André Mrul­ga­ski, con un Debord – o un “per­so­nag­gio” da lui inter­pre­tato – che pedina una jeune fille attra­verso le strade di Parigi. Tal­volta lei sci­vola via total­mente, come nella sequenza ini­ziale “trai­ler” del film, dove è bre­ve­mente intra­vi­sta dalla camera mon­tata su un auto in movi­mento. Tal­volta è trat­te­nuta dalla camera che fron­teg­gia, muta, con la sua voce pri­vata di suono nel momento in cui apre bocca (come nel cinema muto), oppure dal mono­logo impo­sto di Debord, che si rivolge non a lei ma agli spet­ta­tori del film

. Le con­ven­zioni del film nar­ra­tivo e di fin­zione ci obbli­ghe­reb­bero a sepa­rare il cinea­sta Debord sia nella voce di com­mento al film e sia come “per­so­nag­gio” inter­pre­tato, un uomo quasi sulla tren­tina che, come detto, pedina una jeune fille che sem­bra essere non più di una dicias­set­tenne. Que­sta sepa­ra­zione de rigueur è com­pli­cata dal fatto che noi intra­ve­diamo, ad un certo punto, la moglie effet­tiva di Debord, la sola donna mem­bro fon­da­tore dell’Internazionale Situa­zio­ni­sta (Michèle Bern­stein), che accom­pa­gna la jeune fille, come fosse lei stessa parte della sto­ria, reci­tando il ruolo della pro­tet­trice, sedut­trice o rivale.

Bern­stein ha scritto due romanzi durante il periodo in cui Debord ha rea­liz­zato que­sto film. Que­sti inglo­bano non testi spe­ci­fici (come Debord in, diciamo,Mémoi­res) ma generi interi e le loro con­ven­zioni. Sono sto­rie cen­trate intorno al clas­sico tema let­te­ra­rio stile XVIII secolo del trian­golo amo­roso, e se con­si­de­riamo que­sto, siamo costretti a con­si­de­rare l’ambiguità del livello appa­ren­te­mente di fin­zione del film: per­ce­piamo che Cri­tica della sepa­ra­zione regi­stri e sia, allo stesso tempo, un pre­te­sto – anzi­ché una simu­la­zione – per la sedu­zione effet­tiva da parte di Debord e forse della Bern­stein della jeune fille, che con­cen­tra in sé così tanta ener­gia e l’epicentro stesso del film.



Chi – o cosa – è que­sta jeune fille? In un certo senso, il vero mistero che il film inse­gue è pro­prio que­sta domanda. Lei parla (è sen­tita) una volta nel film, ma non den­tro la “realtà” pro­dotta dalla strut­tura di fin­zione della sto­ria d’amore. Al con­tra­rio, la sua voce è sen­tita pro­prio all’inizio del film, reci­tante ciò che potrebbe essere chia­mata la sua epi­grafe: un pas­sag­gio dal lin­gui­sta André Mar­ti­net sulla “dis­so­cia­zione” di lin­guag­gio e realtà. La jeune fille, o ragazza mino­renne e ribelle, è un rife­ri­mento tema­tico costante nei film di Debord, da Hur­le­ments en favour de Sade fino al suo grande film finale, In girum.

Ma nei suoi primi due film, Hur­le­ments e Sur le pas­sage de quel­ques per­son­nes à tra­vers une assez courte unité de temps, la jeune fille (e l’adolescenza e la dif­fe­renza ses­suale, più in gene­rale) non è solo un rife­ri­mento tema­tico. In que­sti due film, la jeune fille è per prima cosa, anzi­tutto, una voce che inte­ra­gi­sce, dia­let­ti­ca­mente, con altre voci. In Sur le pas­sage, per esem­pio, la voce stessa di Debord, descritta nelle note tec­ni­che per il film come «tri­ste e sorda», non è la sola voce, ma è messa in scena in rela­zione con altre voci, una espli­ci­ta­mente iden­ti­fi­cata come quella della jeune fille.

Que­sta ini­ziale plu­ra­lità di voci neces­sa­ria­mente sot­to­li­nea la strut­tura di fin­zione o dram­ma­tica della stessa voce di Debord, negan­dole il pri­vi­le­gio di una sua cen­tra­lità o sta­tus come fonte di affer­ma­zioni teo­ri­che o ana­li­ti­che. È piut­to­sto un tono fra gli altri, malin­co­nico e ras­se­gnato, inne­scato con­tro la voce ste­reo­ti­pata dell’ “annunciatore”dell’altra voce maschile e la pun­teg­gia­tura della voce della ragazza. Men­tre le due voci maschili occu­pano i poli con­ven­zio­nali della neu­tra­lità ogget­tiva e del liri­smo sog­get­tivo, la posi­zione esatta della voce della ragazza in que­stoWech­sel der Töne non è facil­mente cir­co­scritta.

La jeune fille, qui, è spesso usata per inca­na­lare testi che sono par­ti­co­lar­mente discor­danti con la sua voce e la sua età, iro­niz­zan­doli appa­ren­te­mente. Per esem­pio, come fosse ven­tri­lo­quio, tra­mite lei sen­tiamo la voce di Lenin par­lare della “dit­ta­tura del pro­le­ta­riato” in un testo che, inol­tre, denun­cia ciò che Lenin chiama i disor­dini “infan­tili” del comu­ni­smo di sini­stra: un orien­ta­mento poli­tico con cui Debord e l’Internazionale Situa­zio­ni­sta si sareb­bero iden­ti­fi­cati, in modo par­ti­co­lare nel periodo imme­dia­ta­mente suc­ces­sivo al 1961.



Docu­men­ta­rio, scherzo, serie, detec­tive story, o “trian­golo” roman­zato: Cri­tica della sepa­ra­zionecita e alle volte impiega tutti que­sti generi nella sua ricerca dei misteri dell’alienazione. E tut­ta­via, a dif­fe­renza dei primi due film di Debord, qui il “sog­getto dell’enunciazione” che orga­nizza il film è non più fram­men­tato attra­verso una plu­ra­lità di voci, toni, gene­ra­zioni e generi ses­suali. Ora, l’autorità della voce è con­so­li­data nel mono­logo di Debord, e il gioco della fin­zioni e dei generi sem­bra orga­niz­zato intorno que­sta voce e il suo cor­re­la­tivo gene­rico, il docu­men­ta­rio. La jeune fille che inter­rom­peva e diso­rien­tava il dia­logo tra uomini in Sur le pas­sage non parla più, essendo finita den­tro il film. Muta, le è qui asse­gnato il ruolo di un segnale che è venuto «da una vita più intensa».

Fin dalle sue prime bat­tute, Cri­tica della sepa­ra­zione dichiara il suo tema: la per­dita. La sequenza ini­ziale del film, per esem­pio, si con­clude con la vignetta di un fumetto che raf­fi­gura una donna che parla di insuc­cesso e una jeep che si impan­tana nel fango di una palude, accom­pa­gnata dalla voce fuori campo di Debord che domanda «quale vero pro­getto è stato per­duto?» La forma della domanda sot­to­li­nea non solo il fal­li­mento o la scon­fitta di un pro­getto, ma una incer­tezza circa la natura e l’esistenza di quello stesso pro­getto. Per i suc­ces­sivi quin­dici minuti, il film ritor­nerà ripe­tu­ta­mente su que­sto tema, dei pro­getti che hanno fal­lito e delle avven­ture che hanno perso la loro strada.

In que­sto senso, Cri­tica della sepa­ra­zione è dav­vero il sequel” di Sur le pas­sage, che anche riguarda il fal­li­mento delle quel­ques per­son­nes del titolo per rea­liz­zare i pro­getti che for­mu­la­rono nel 1952, quando per prima si formò l’Internazionale Let­tri­sta. Cri­tica della sepa­ra­zioneparla in par­ti­co­lare di per­dita e della sua rela­zione col tempo: “del “tempo vuoto” che si svolge senza inci­dente, dei “momenti per­duti” e del “tempo spre­cato” nel quale le oppor­tu­nità che mai ritor­ne­ranno sono man­cate, e più in gene­rale del tempo che “sci­vola via” o che noi – Debord, il movi­mento rivo­lu­zio­na­rio, la sua epoca come un tutto – abbiamo lasciato sci­vo­lare via. Il tempo era lì per essere preso, la voce fuori campo di Debord malin­co­ni­ca­mente rac­conta, ma il tempo pre­sente, il tempo dello spet­ta­colo, è orga­niz­zato in un tale modo che ogni incon­tro reale, ogni vero ini­zio nella sto­ria è man­cato: «non si è inven­tato nulla»,«quando si è persa l’occasione?»



In uno dei pas­saggi lirici più svi­lup­pati nella sce­neg­gia­tura – tante delle bat­tute che Debord pro­nun­cia sem­brano come fram­menti, cocci, frasi cir­con­date da un con­te­sto fan­ta­sma, man­cante – tro­viamo que­sto tema della per­dita col­le­gato a una figura insi­stente nella scrit­tura dello stesso Debord, non la jeune fille ma più in gene­rale il bam­bino, l’enfant: «Tutto ciò che riguarda la sfera della per­dita, cioè quanto ho per­duto di me stesso, il tempo pas­sato; e la scom­parsa, la fuga; e più gene­ral­mente il tra­scor­rere delle cose, e anche nel senso sociale domi­nante, nel senso più vol­gare dell’impiego del tempo, ciò che si defi­ni­sce il tempo per­duto, s’incontra stra­na­mente nell’antica espres­sione mili­tare “da sol­dati per­duti” (cioè man­dati in avan­sco­perta, allo sba­ra­glio – les enfants per­dus in fran­cese, n. d. t.), incon­tra la sfera della sco­perta, dell’esplorazione di un ter­reno sco­no­sciuto; tutte le forme della ricerca, dell’avventura, dell’avanguardia. È a que­sto incro­cio che ci siamo tro­vati, e per­duti.»

Qual­siasi cosa uno fac­cia delle sue tesi fon­da­men­tali riguardo la vita, il lavoro e la poli­tica di Debord, Vin­cent Kau­f­man ha avuto sicu­ra­mente ragione a orga­niz­zare l’intera tra­iet­to­ria del lavoro di Debord intorno all’espressione e tema del “bam­bino per­duto”. Il senso mili­tare dell’espressioneles enfants per­dus si rife­ri­sce a un distac­ca­mento di sol­dati man­dati in avan­sco­perta, spesso die­tro le linee nemi­che e gene­ral­mente con una cogni­zione che la loro mis­sione sarebbe stata fatale[…]. Quello che voglio sot­to­li­neare in que­sto par­ti­co­lare rife­ri­mento alesenfants per­dus è sem­pli­ce­mente il modo in cui la nozione di incon­tro è para­dos­sal­mente coniu­gata con quella di per­dita o fuga: i vaghi con­torni della sfera della per­dita sono qui pre­senti data l’immagine con­creta dell’incrocio in cui “noi” ci siamo subito tro­vati e per­duti. Que­sta figura gene­rale di incro­cio e di incon­tro man­cato – di un tempo o di una età che in qual­che modo “perde” se stessa – è ciò che il pedi­na­mento del film e di Debord della gio­vane ragazza (prima intra­vi­sta a un incro­cio nella sequenza ini­ziale) sem­bra ren­dere emblematico.

Quale “vero” pro­getto, allora, è stato perduto?




* Tra­du­zione – par­ziale – dall’inglese di un sag­gio dedi­cato al suo terzo film, il corto Cri­tica della sepa­ra­zione (1961), uscito in un numero mono­gra­fico del 2013 della rivi­sta sta­tu­ni­tense «Grey Room», il numero 52, e dedi­cato – appunto – al cinema di Debord. Il titolo del sag­gio è Mis­sed Encoun­ters: Cri­ti­que de la sépa­ra­tion bet­ween the Riot and the “Young Girl”. L’autore – anche cura­tore del numero – è Jason E. Smith: filo­sofo; docente all’Art Cen­ter Col­lege of Design (Los Ange­les); col­la­bo­ra­tore di rivi­ste impor­tanti (fra cui:«Art­fo­rum» e «Cri­ti­cal Inquiry») e autore la cui ricerca – inter­di­sci­pli­nare, spesso tra este­tica e pen­siero poli­tico post 1968 – si muove oggi, pro­prio, su Debord. (Tra­du­zione e cura di Gian­luca Pulsoni)



Il Manifesto – 6 dicembre 2014

Alex Raso, di(s)tratto



Una mostra assolutamente da non perdere, fatta della materia di cui sono fatti i sogni. Forse per questo Alex Raso piace tanto ai bambini (e a noi).


Alex Raso

Di(s)tratto

Una raccolta di lavori nati dagli incontri “di(s)tratti” di questo 2014: “distratti” dalla realtà e “di tratti” diversi: china, gommina liquida, matita, colatura, dripping, digitale.

La personale inizia con un lavoro del 12 febbraio, giorno del mio compleanno, in cui muore l’istrio...ne Roberto "Freak" Antoni, la notte stessa disegno un suo ritratto su carta da pacchi: a 59 anni mi aveva tirato un pacco anticipato da un suo aforisma: “Si dice che una volta toccato il fondo non puoi che risalire. A me capita di cominciare a scavare.”

La mostra prosegue con una “camera rossa” dedicata alla fiaba di Cappuccetto Rosso: 5 illustrazioni + una, ispirate al mondo della scrittrice e giornalista femminista inglese Angela Carter, in particolare alla sua rivisitazione del personaggio nel racconto La compagnia dei lupi all’interno del libro La camera di sangue e altre storie.



Si prosegue con la “camera azzurra” con l’illustrazione dedicata a La Chambre bleue di Georges Simenon, le illustrazioni de "La montagna incantata" esposte a Sconfinarti Sambuco, ispirate alle leggende della montagna e ai fuochi fatui, e una fiaba blu ispirata alle stelle.

Una “camera nera”, con l’istallazione "Facebook": fotografie del 1886, alberi ed una fiaba noire.

Una camera dedicata alle illustrazioni in anteprima del libro per l'infanzia "Il Re dei Gatti" scritto da Barbara Florinda Barbantini ispirata al pittore Balthus in uscita a dicembre per la casa editrice Artebambini.



Ci sarà spazio per una “camera del ricordo” con una serie di lavori selezionati tra i quali America Latina vs America Lattina e Sinistra eseguiti in stoffa dal laboratorio Caterinette laboratorio/bottega di Silvia Testa; illustrazioni dai carnet di viaggio con le illustrazioni della fiaba "Lia" scritta da Giacomo Checcucci e qualche ritratto disegnato con la tecnica della lametta.

Le camere saranno imerse nel sottofondo musicale della musica di Airchamber 3 musicisti con i quali ho collaborato all’ultima edizione di Inchiostro Festival di Alessandria e le proiezioni di boschi.



di(s)tratto/ mostra personale di Alex Raso

vernissage 12 dicembre
ore 18.00
Altredimore, Calata Sbarbaro 6, Savona.


sabato 6 dicembre 2014

Olio e Letteratura: l'invenzione della Riviera. Sasso, Boine, Novaro.



Paradisi perduti. Fiori, ulivi e liberty. Fu la rivista aziendale della Sasso, prima in Europa, a creare un secolo fa l’immagine della Liguria oggi sommersa dal fango e dal cemento. Uno scrittore ne ripercorre la storia.

Giorgio Bertone

L’invenzione della Riviera



Visto dal Righi, sulle alture di Genova, in una tregua delle catastrofi pluviali, così simili ai monsoni, l’azzurro del Golfo e delle due Riviere mi appare invaso da osceni laghi d’acque giallomarrone, che ogni fiume o torrente erutta, insieme con i detriti, in mare. Ricostruire a braccia, pala e ruspe, sì, che forza d’animo, ricostruire è anche un esercizio della memoria collettiva.

Le Riviere che convergono nella capitale — quella di Ponente e quella di Levante: quasi solo in Liguria si usano termini da carta nautica — sono diventate nel Novecento un paesaggio riconoscibile, fatto di pietre, ulivi, coste rocciose e scoscese in un mare profondissimo e calvo, privo di mediazioni insulari, solo tre isolotti e lo scoglio di Bergeggi. Una sorta di brand image che racchiude la terra e il lavoro di pescatori (pochi) e contadini (tanti), di produttori industriali di quello che si chiama oggi l’agroalimentare, ricollegato tardivamente allo stile e dieta mediterranea: farina e pasta (Agnesi), latte e lattine, e olio, olio dovunque.

Storia del primo Novecento, che ripercorro sulle belle slides inviatemi dalla Fondazione che si intitola a quel Mario Novaro, uno dei proprietari della Sasso, la cui rivista, La Riviera Ligure, da lui diretta dal 1910, contribuì formidabilmente all’ invenzione della Riviera. Il “foglio unto”, come veniva chiamato, era distribuito gratuitamente ai clienti della ditta, fino a raggiungere le centomila copie, firmato agli inizi (1895) da “Paolina Sasso e Figli”, già con una grafica, elementare, ispirata ai luoghi della costa (Oneglia e Capo Berta).



La Riviera era stata già inventata nel pieno dell’Ottocento dagli anglosassoni, e il patriota e latifondista di ulivi in quel di Taggia, Giovanni Ruffini, aveva servito subito un romanzo, Il dottor Antonio, scritto in inglese per gli inglesi (Edimburgo, 1855). Si trattava di reinventarla a uso degli italiani. Il paradosso sta nel fatto che il progetto di Novaro, filosofo e poeta in proprio, si intrecciò con il destino di una personalità fortissima ma diversa anche ideologicamente.

E oggi che per il centenario si rilegge Il peccato di Giovanni Boine (1914, La Voce di Prezzolini, ma a puntate sulla Riviera già dal ‘13), un romanzo sperimentale, concitato come una burrasca di libeccio, si vede bene che Boine diede un apporto tutto suo, antiottocento, pronto per distruggere il pittoresco.

E il muro del Convento delle Carmelitane al Monte Calvario (Porto Maurizio), dove sta la monaca novizia dalla bellissima voce canora, di cui s’incanta il protagonista, è già infitto di cocci aguzzi di bottiglia. Agrario senza terra, bibliotecario senza biblioteca, traduttore lodato ma inedito, volontario per la guerra subito riformato, Boine si avvicinò a Novaro: “Novaro è un simpaticissimo uomo. Sono andato a trovarlo. Sono entusiasta di questa gente che dà cinque o sei ore al commercio e poi legge Hobbes e ride di Croce”.

Garantiva la rigogliosa e duratura attività della rivista proprio la pubblicità dell’olio e la munificenza di Novaro. Non proprio uno sponsor, come disse Sanguineti. L’Olio Sasso era poi pubblicizzato sulle ferrovie e — si tramanda oralmente — in un grande cartellone che nello stretto di Gibilterra salutava i migranti, accompagnandoli nei loro irrinunciabili consumi. Nella prospettiva di Boine l’olio di raffineria industriale (i primi impianti al mondo) uccideva la campagna e i proprietari terrieri, come spiegò in un testo capitale, La crisi degli olivi in Liguria ( La Voce , 1911).



Ma oggi si può dire che i tanti nuovi oleari e pastai realizzavano in un luogo geografico non casuale una nuova industria soft di cui beneficiarono poi i tanti lavoratori fino a pochi decenni fa, prima della crisi, nel loro tipico doppio lavoro: operai in fabbrica per otto ore, come i nostri nonni, il mio proprio alla Sasso, e il resto a coltivare l’orto e gli ulivi, con magari una terza occupazione saltuaria di pescatori d’anguille in torrente e di polpi tra scogli.

Tutto ciò prima che la Liguria vendesse gran parte dell’anima al Lucifero del cemento. L’opera da Belle Epoque di conciliazione di paesaggio e industria sulla base di un territorio reale in trasformazione fu anche uno specchio incantato, un poco illuso- rio. L’antologizzatore e redattore della rivista riuscì comunque a infilare nelle casse dell’Olio spedito solo e direttamente ai clienti (come tutti i produttori allora, e oggi solo la “Fratelli Carli” e altre Case, tutte attentissime al family brand) i nomi più famosi e quelli d’avanguardia. Perché pagava bene, in soldi o in “olio buono”. Di qui l’eterogeneità degli ospitati: Pirandello, Deledda, Di Giacomo, Pascoli, Capuana, Soffici, Papini, Sbarbaro, Ungaretti, Savinio, Palazzeschi.

Ma l’impresa di dar vita a uno dei primi house organ in Europa, sintetizzato in un logo topografico, non sarebbe riuscita senza l’apporto della pittura e della grafica. Quella più avanzata e alla moda: il Liberty. Bello e pronto per annettere all’estetica il nuovo volto della tecnologia industriale e già affermato nelle Riviere con la costruzione degli hotel ispirati alle “ villes d’eaux”. Novaro ingaggiò due campioni, Plinio Nomellini e Giorgio Kienerk. Al secondo affidò il lettering e la copertina.



Boine non apparteneva per nulla al Liberty, semmai all’espressionismo europeo, e neppure Novaro, poeta in proprio. In parte il destino dei due rimase comunque legato, come testimonierà a morte avvenuta (di tisi a trent’anni, 1917) Montale: “È morto Giovanni Boine!!! Questa notizia mi ha fatto male. Per l’avanguardia (parlo della parte seria di essa) il danno è incalcolabile (…). La Riviera Ligure ne resta come diminuita” ( Quaderno genovese). Ma di fronte ai nuovi imprenditori, quella di Boine era una ideologia conservatrice, patita sulla propria pelle: “Si vende qui su in vallata, a dieci chilometri dal mare, sopra Porto Maurizio, la casa di mio nonno”.

Il luogo è Dolcedo, capitale degli antichi frantoi artigianali, che cedevano ai frantoi industriali onegliesi: “I frantoi in vallata non lavorano più; son chiusi in gran parte, ma i magazzini dei negozianti al mare, le giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti al mare sono pieni, son colmi”. “Botti rigonfie, botti di olio non nostro che ha nome di nostro” (sempre La crisi degli olivi). Perché l’industria compra da tutte le coste del Mediterraneo, anche se oggi è più attenta a differenziare i label richiesti dai consumatori italiani e foresti.

Da quell’ideologia derivano le pagine aspre su un paesaggio duro, esente da sfumature psicologhe e sentimentali, semmai legato a una “razza”: “Terreno avaro, terreno insufficiente su roccia a strapiombo, terreno che franerebbe a valle e che l’uomo tiene su con grand’opera di muraglie e terrazze. Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra su pietra, hanno con le loro mani costruito”. Una terra a gradoni, terrazzamenti, maxei ( muri), in basso coltivate a orti, pomodori, fave e fiori, poi a ulivi, più su a grano e patate, ancora negli anni Cinquanta. E dove non ci sono più né ulivi, né castagni, né capre, né uomini, ancora fasce antiche, abbandonate.

Anche a Genova poco distante dal centro e dall’industria pesante, fino a pochi decenni fa, prima dell’anno domini della speculazione edilizia. Anche attorno al sempre terribile Fereggiano che scarica la sua furia nel Bisagno, bloccato dallo scirocco, c’erano fasce e orti mi raccontava un anziano proprietario di un laboratorio di serramenti, nei primi del novembre 2011 subito dopo l’alluvione assassina, mentre cercavamo di avvitare i giunti di plastica di una tubatura di pvc nero da un pollice e mezzo per riattivare l’acqua potabile, stando tutti e due a cavalcioni di quel torrente che pochi giorni dopo lo straripamento era già ridotto a un rigagnolo largo quanto la divaricazione delle nostre gambe.



Erano tutti orti, mi descriveva, mentre guardavo dal basso in alto la configurazione di isometriche costituita da palazzoni, enormi pareti verticali, affiancati da brevi spiazzi asfaltati per le auto, poi un muraglione verticale di cemento, una ridottissima intercapedine e, più sotto, un altro condominio- caserma, a chiudere tutti insieme come cospirati sull’alveo stretto del torrente.

Oggi però, qui dall’Alpicella (Capo Berta), luogo di passeggio di quelli della Riviera (alcuni dei loro manoscritti erano pieni di aghi di pino) dove nelle giornate limpide di Maestrale si vede a Levante fino al Tino e a Ponente fino all’Esterel, pare che la Corrente prevalga. La Corrente del Golfo che attraversa l’Atlantico, si infila in Gibilterra e poi risale l’Italia verso Nord a lustrare l’arco delle due Riviere da Est a Ovest, mi sembra riprendere forza, meno intersecata dal fango vomitato dai fiumi. Mi pare che il mare cominci a riprendere l’azzurro brillante.


La Repubblica – 23 novembre 2014


venerdì 5 dicembre 2014

Ombre al confine. L'espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera alla Costa Azzurra




Domenica 7 dicembre 2014
alle ore 16.00
a Ospedaletti presso La Piccola, ex scalo merci (via Cavalieri di Malta)

Paolo Veziano presenta il libro
Ombre al confine
L'espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940

Introducono Marino Magliani e Corrado Ramella


Pubblichiamo un estratto del libro in cui si parla di un giovanissimo Francesco Biamonti:

Paolo Veziano

Ombre al confine

«Era uno spettacolo triste dinanzi al quale non si poteva restare indifferenti, faceva male al cuore vederli passare come ombre diretti verso il confine». Queste affermazioni sono state ripetute negli anni centinaia di volte dalla gente della Riviera che le conserva stampate con caratteri ben leggibili ed indelebili nella memoria e nel cuore. Frasi che per la loro incisività sono più che sufficienti a descrivere lo smarrimento e la pervasiva e dolorosa sensazione di una popolazione che assistette sbigottita alla interminabile processione di una umanità dolente.

Parole che dimostrano in maniera eloquente come larga parte della popolazione non fosse stata intossicata – o almeno non ancora – da quella velenosa propaganda antisemita che, servendosi della stampa, aveva ritratto anche i peloti con sembianze demoniache. Il rifiuto di questa immagine, il ripetuto contatto fisico con persone prive di ogni cosa, così lontane dallo stereotipo dispregiativo del ricco ebreo, fecero rinascere nella gente semplice il naturale e mai del tutto sopito slancio a soccorrere le persone in difficoltà.

Tra le voci che circolavano e che tuttora sono presenti in un ambito più ristretto della memoria collettiva, la più vigorosa ed insistente è certamente quella relativa a presunti casi di ebrei derubati, uccisi e gettati in mare. Queste notizie sono da considerarsi, oggi, destituite di ogni fondamento, anche se, visto quel che succede attualmente in prossimità delle coste della Sicilia, non sarebbe del tutto impensabile. È noto, però, come il mare sia un mostro che rapisce e inghiotte le sue vittime, le consuma ma ne restituisce sempre i resti.



Nessuna sua vittima è mai stata depositata dalle correnti sulle spiagge italiane o francesi e, su questa circostanza, nessun particolare emerge dai documenti della polizia francese. La notizia fantasiosa degli omicidi commessi per derubare gli ebrei è stata estratta dal voluminoso e sigillato contenitore della memoria orale e ha trovato giusta collocazione nell’opera di uno dei maggiori scrittori liguri della seconda metà del Novecento: Francesco Biamonti.

Biamonti sapeva bene che questa notizia era infondata, ma in Le parole la notte se ne serve in chiave strettamente narrativa per attribuire una connotazione negativa alle cittadine rivierasche, e a Sanremo in particolare. Biamonti aveva all’epoca poco più di dieci anni, poteva ascoltare dalla voce degli adulti il racconto di quanto stava accadendo sulla costa e di cui quei particolari erano parte integrante. Ricordava dunque perfettamente quella vicenda e amava rievocarla, raccontava inoltre di essere stato, probabilmente nel 1944, all’età di sedici anni, anche involontario protagonista di un curioso episodio.

Recatosi assieme al fratello Giancarlo nell’uliveto di loro proprietà, situato sulle alture del suo paese, San Biagio della Cima, trovò il piccolo casolare occupato da alcuni ebrei che vi si erano momentaneamente rifugiati, nell’attesa della notte più adatta per passare di là. I fratelli, nonostante la giovane età, non si fecero intimorire dalla loro inattesa presenza e ne ascoltarono il racconto. Riuscirono solo dopo insistiti tentativi a far comprendere agli ospiti che le colline, dietro le quali essi sostenevano continuamente si trovasse la Francia, nascondevano in realtà una valle ancora italiana: quella del torrente Nervia.

Fu Francesco ad indicare che la loro pericolosa meta si trovava dietro l’ultima linea di creste, perfettamente riconoscibile anche per via dell’inconfondibile apertura di quel Passo del Cornà che, negli anni, gli sarebbe diventato tanto caro. Francesco Biamonti fu dunque un testimone privilegiato, un profondo conoscitore di questo aspetto della memoria popolare e forse il suo più autorevole cantore.

Passo del Cornà














Dopo la sua morte, ogni risvolto della sua opera letteraria, dalle influenze agli stilemi, è stato studiato a fondo; poco, o per nulla riconosciuto invece – forse perché dato troppo frettolosamente per scontato – è stato questo suo indiscutibile merito.

Nel suo libro forse più bello, Vento largo, i passeur muovono i traffici caratteristici degli anni del dopoguerra. Anche il protagonista, Varì, è costretto quasi controvoglia a continuare il suo dignitoso lavoro in quegli anni difficili ma, per caratteristiche e per vissuto, questo personaggio sembra appartenere, più che al presente, alla non lontana stagione del passaggio degli ebrei.

Si può ritenere invece più verosimile la notizia del presunto arricchimento di un numero ristretto di addetti ai lavori, per effetto dei ripetuti furti di valigie. Più che di furto sarebbe forse più corretto parlare di mancata consegna; in qualche caso poteva effettivamente accadere che, a causa del sovraffollamento delle barche, i bagagli al seguito non potessero essere imbarcati. Si dice che in questi casi i passeggeri ricevessero la falsa rassicurazione che sarebbero stati caricati sul trasporto successivo e consegnati in un secondo momento. Per comprensibili ragioni di riservatezza questa voce non è stata confermata dagli spedizionieri e non ha trovato riscontri nelle carte francesi.

Sembra avere invece maggior credibilità la voce data per certa da più di uno spedizioniere secondo cui alcuni funzionari locali avrebbero regolarmente preteso sia da loro sia dai passeggeri una tangente sui trasporti. La denuncia orale dei concussi trova riscontro oggettivo in una lettera confidenziale scritta da una persona rimasta anonima ma che dimostrava di essere comunque bene informata. La missiva, ricca di particolari in qualche caso inesatti, denunciava l’esistenza di una vera e propria combriccola di speculatori della quale avrebbero fatto parte anche funzionari di polizia, milizia e finanza. Non è da escludere che la lettera possa essere frutto del risentimento di qualche funzionario rimasto escluso dalla spartizione delle tangenti.

Abbiamo visto come il rumore provocato da queste voci avesse costretto Achille Peruzzi ad aprire un’inchiesta. Sappiamo anche che questa si concluse con l’esito che a Roma qualcuno auspicava: le prove della colpevolezza dei concussori non furono trovate.