TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 23 settembre 2016

L'occhio di Polifemo (e di Gagarin) sul mondo



Polifemo e Gagarin guardano il mondo con occhi diversi da quelli degli umani. Una splendida riflessione su mito e modernità e di come la tecnè cerchi di uccidere il mito come visione numinosa del cosmo.

Raffaele K. Salinari

Il ciclope Polifemo e Yuri Gagarin



Polifemo, figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.

Ulisse e la sua Metis

Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana – l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena – poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.

Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».

Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.



Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.

Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena – nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere – bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente. A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.

La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.



E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti – il terribile peccato della hybris – dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.

Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.

Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso – l’archetipo della vita indistruttibile – alle vicende umane.



Ulisse e la prospettiva 

E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene. Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.

Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento – cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine – rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
























E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.

Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.

Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.

E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.

Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?



Lo sguardo di Gagarin 

Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.

Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile. Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato. Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlano, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.

Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.



Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.

La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.


il manifesto – 10 settembre 2016

giovedì 22 settembre 2016

Salus Per Musicam


martedì 20 settembre 2016

Dino Gambetta inaugura il suo nuovo studio


Renato Cerisola. Disastri della guerra


sabato 17 settembre 2016

Adelia “Didi” Marenco in concerto ad Albisola



Ad Albisola penultimo appuntamento della rassegna cantautorale Canzone Fuori Dal Cappello.




Giovedì 22 settembre dalle ore 22.00
al Re Mescio - le bistrot artistique
Via Stefano Grosso, 17012 Albissola Marina
(ingresso libero)

Adelia “Didi” Marenco in concerto

Adelia Marenco, voce e promotrice insieme a Leonardo Rombolà del collettivo Musica Molesta, è una cantautrice ligure che fa della sua musica un momento di impegno politico (e di poesia). Perchè da sempre la lotta è per il pane, ma anche per le rose.

Abbiamo avuto modo di ascoltarla e, credeteci, è davvero brava.



giovedì 15 settembre 2016

Sandro Lorenzini Ritagli per un diario non scritto



Sandro Lorenzini, un artista e un poeta capace di superare la soglia che separa il mondo grigio e uniforme della banalità quotidiana e raccontarci di una realtà colorata e musicale dove l'armonia e la grazia regnano incontrastate. Visitare una sua mostra (e questa in particolare) risveglia gli echi lontani di favole ascoltate da bimbi e sensazioni che avevamo dimenticate. Grazie Sandro, per avere per un attimo fatto riapparire il bambino che siamo stati. (G.A.)



Sandro Lorenzini

Ritagli per un diario non scritto

Da qualche giorno e' aperta la mia mostra di quest'anno, nei rinnovati, splendidi locali di GULLIarte, a Savona.

Si intitola RITAGLI PER UN DIARIO NON SCRITTO, e' il lavoro di un anno, condotto sul filo della memoria, uno sguardo al passato, al molto lavoro fatto, che si riaffaccia discreto e fecondo di nuove emozioni e trova casa sul bianco dei fogli di trenta collages: mappe suggestive del viaggio della mia vita.

Ne pubblico un paio, corredati dalle poesie che li accompagnano e così farò anche nei prossimi giorni.

Non siete curiosi? Vi aspetto.



IDEA

Da un puntiforme nulla
-ecco-
Ti manifesti.
Dal magma dell'assenza
-ecco-
Ti fai presenza.
Forza intricata,
Fulgido sembiante,
Ti mostri a me.
E cresci e gridi e vesti la tua forma
e tutto squassi
e permei di te tutto l'intorno
e non hai pace
E non dai pace
-e non ho pace-
fin che tu
-che non eri-
viva
e sia.





CAVALIERE

Vai cavaliere:
saldo,
costante,
inesorabile calchi la notte
e brami il volto
di una signora bianca,
madre di stelle.
Il tuo cappello,
rosso,
segnerà l'incontro.  



Roberto Anfossi. Bricolage selvaggio



ROBERTO ANFOSSI
BRICOLAGE SELVAGGIO
a cura di Sandro Ricaldone
15 settembre - 6 ottobre 2016

Entr'acte
via Sant'Agnese 19R – Genova
orario: mercoledì-venerdì 16-19
inaugurazione: giovedì 15 settembre, ore 18


Entr’acte apre la stagione 2016-2017 con “Bricolage selvaggio”, una mostra che rinnova, a distanza di alcuni anni dalla personale tenuta alla Galleria Il Poliedro, la presenza di Roberto Anfossi a Genova.

La rassegna, realizzata con la collaborazione del Centro d’Arte La Maddalena di Nino Bernocco, s’incentra su un settore chiave della produzione dell’artista, le “Cassette”, al cui riguardo Sandro Ricaldone scrive:

Se la deformazione - al punto d'incrocio fra defigurazione e rifigurazione, nel confronto teso e talvolta lacerante con l'orizzonte delle espressioni moderne e contemporanee - è la cifra dell'esperienza pittorica di Roberto Anfossi, una dimensione "altra", non meno penetrante, viene dischiusa dall' artista attraverso le "cassette" che inizia a produrre alle soglie degli anni '90. Un secondo fuoco attorno al quale si dispone la sua attività, nel quale si materializzano sogni e incubi che, secondo un’espressione di André Malraux, "l'angoscia comune a tutti gli uomini riconosce al primo colpo d'occhio": una compresenza di oscenità e sublime, di tratti umani e parvenze bestiali, di estasi e oppressione capace di sprofondare lo spirito in uno sbandamento attraverso cui s'avvertono i contorni di un universo prossimo - al di là della sapienza tecnica dell'autore e della sua conoscenza profonda degli svolgimenti storici dell'arte - alle creazioni di artisti "irregolari".

Roberto Anfossi (Sanremo, 1950)
Si è formato presso l'Accademia Ligustica di Genova sotto la guida di Gianfranco Bruno, Mario Chianese e Giannetto Fieschi.  
Tra le principali mostre personali si ricordano: 1980, Bordighera, Palazzo del Parco; 1983, Imperia, Civica Galleria Il Rondò; 1987, Genova, Circolo B.N.L.; 1991, Genova, Centro d'arte La Maddalena; 1992; Genova, Centro Civico Buranello; 1994, Ospedaletti, Biblioteca Civica; Savona, Galleria Cona; 2004, Sanremo, Museo Civico; 2008, Genova, Galleria Il Poliedro; 2012, Imperia, Palazzina Liberty.
Significative anche le partecipazioni a mostre collettive, tra cui: 1982, San Salvatore di Cogorno, Giovane Pittura italiana; 1986, Genova, Porta Siberia, Halley’s Flash; 1987, Genova, Museo di Villa Croce, Giovani pittori in Liguria; Pisa, Palazzo Lanfranchi, Entro dipinta gabbia; 1988, San Francisco, Museo Italo Americano, Fourteen Emerging Italian Artists from Liguria; 1996, Albisola, Ceramica in galleria, Museo della ceramica; 1997, Taggia, Palazzo Lercari; 2011, Genova, Museo di Villa Croce, Premio Duchessa di Galliera; Sanremo, Palazzo Roverizio.



martedì 6 settembre 2016

domenica 4 settembre 2016

Mercoledì d'arte in darsena. Lia Franzia


Dalla diligenza alla postal art: un segno lungo due secoli


E in svolgimento a Quiliano (fino al 15 settembre) "Il pianeta azzurro", Progetto internazionale di arte postale e digitale. Pubblichiamo il testo della presentazione.

Giorgio Amico


Dalla diligenza alla postal art: un segno lungo due secoli

Oggi che la vecchia lettera/cartolina pare ormai irrimediabilmente soppiantata da sempre nuove forme di comunicazione elettronica, si è quasi dimenticato la rivoluzione rappresentata all'inizio dell'Ottocento dalla nascita in Europa e negli Stati Uniti di un servizio postale gestito e finanziato tramite la fiscalità generale dallo Stato.

Primo grande servizio pubblico, la Posta mette alla portata di tutti coloro che possono permettersi la modica spesa necessaria per l'acquisto di un francobollo ciò che fino ad allora era privilegio dei sovrani e degli aristocratici.  


Ai corrieri del re che per secoli avevano dominato le strade si sostituiscono le diligenze postali.


E' una vera e propria rivoluzione. La lettera diventa il modo usuale di comunicare in un mondo che diventa sempre più interconnesso. Per gli emigranti, che a milioni si trasferiscono nelle Americhe, è lo strumento della conservazione della memoria e degli affetti.



La diligenza postale diventa sinonimo di avventura. Un mito che nasce nel west. La posta deve arrivare ad ogni costo, nonostante le insidie di un territorio ostile, dei fuorilegge e degli indiani, alle piccole comunità della frontiera. Ricevere la posta significa, anche se persi in quel territorio selvaggio, partecipare di una civiltà, contribuire alla nascita di una nazione. E' l'epopea di Ombre rosse, il grande film di John Ford, che dal 1939 non smette di farci sognare.


In un paese/continente come gli Stati Uniti la circolazione della posta diventa rappresentazione quotidiana della normalità, del godimento dei diritti, della libertà. Il servizio postale è il cardine del sistema. Ce lo racconta Kevin Costner in un film del 1997, The Postman (L'uomo del giorno dopo). In un'America devastata da una catastrofe nucleare, regredita di secoli, dove domina la violenza e l'unica legge è quella del più forte, un uomo ricomincia a consegnare la posta riportando la speranza in una normalità divenuta così di nuovo possibile.


Ma la lettera è prima di tutto espressione profonda dell'Io, strumento privilegiato del manifestarsi della passione amorosa. E' attraverso questa via che la lettera prende forma letteraria, diventa cultura alta , romanzo.

Erede del romanzo epistolare settecentesco che già nei travagli erotici ed esistenziali dei personaggi preannuncia l'arrivo del Romanticismo....


il romanzo borghese ottocentesco vede il trionfo della lettera che ne diventa incontrastata protagonista. Lettere rubate, smarrite, inaspettate che sconvolgono famiglie, spezzano unioni, portano il disordine nell'apparente monotonia della vita borghese. Con La lettera rubata di Edgard Allan Poe, nasce nel 1845 addirittura un nuovo genere letterario, destinato a grande fortuna: il romanzo poliziesco.


Perchè la lettera è l'irrompere di un altrove che, positivo o negativo che sia, è sempre fattore potente di mutamento, ma anche attesa, desiderio di un qualcosa che giunga a cambiare una vita che non corrisponde alle attese e ai sogni. Un' attesa, spesso delusa, come nel triste San Valentino di Charlie Brown a cui la ragazzina dai capelli rossi si ostina crudelmente a non scrivere.


Ma davvero, poi, è possibile parlare d'amore? Esiste un linguaggio capace di rappresentare fedelmente i sentimenti? Snoopy ci dice di no.


Ma è davvero così? Forse un modo c'è e i bambini ne conoscono il segreto.

I bambini? Si, proprio i bambini, capaci di affiancare alle parole la rappresentazione grafica immediata e spontanea dei propri sogni, delle proprie paure, dei propri sentimenti.

“Poichè anche l'arte ha le sue origini primordiali - scrive nel 1911 Paul Klee – origini che è più probabile trovare in un museo etnografico o a casa, nella stanza dei bambini (non ridere, caro lettore), anche i bambini possono fare arte. Più sono inesperti, questi bambini, più istruttiva è la loro arte”. Perchè “la finalità pratica è estranea al bambino, che vede tutto con occhi non assuefatti, e possiede ancora la capacità non offuscata di assorbire la cosa in sé... Ogni disegno infantile, senza eccezione alcuna, svela il suono interiore della cosa in sé con assoluta spontaneità”.

Lo affermiamo senza timore: la più autentica mail art va cercata nelle letterine dei bimbi!


Naturalmente, anche qualche adulto, particolarmente sensibile, ha scoperto questo segreto. E' il caso di un ufficiale, di cui non sappiamo nulla, ma di cui ci resta una lettera bellissima spedita dal Pas de Calais nel 1837.


Lo hanno capito gli scrittori e i poeti e anche, naturalmente, gli artisti. La lettera diventa opera d'arte unica e irripetibile.

    Victor Hugo, Lettera alla moglie

     Lettera di Mallarmé

    Lettera di Edouard Manet

Notare come in questa lettera di Manet le parole si mescolino alle foglie senza più distinzione di segno.


Chi più e meglio di tutti usa il mezzo della lettera per comunicare la sua arte è Vincent Van Gogh che scrive quasi quotidianamente al fratello Theo riproducendo nei dettagli le opere a cui sta lavorando.


Con il Novecento, il secolo delle avanguardie, saranno i futuristi a dare ulteriore impulso a questo tipo di arte. Marinetti, naturalmente...

ma soprattutto Balla.



La pratica è diffusissima. Troviamo, tra gli altri, Matisse


e Picasso


e Prevert


Ma si deve attendere l'inizio degli anni Sessanta perchè l'artista americano Ray Johnson teorizzi la postal art come vero e proprio movimento artistico.


Per Johnson la postal art è una pratica artistica anarchica, totalmente libera, senza regole, aperta a tutti.

L'obiettivo è liberare l'artista dalla dittatura dei galleristi, combattere la mercificazione dell'opera d'arte azzerandone il valore di mercato, permettere la massima circolazione delle idee e delle opere. E soprattutto, superare la separazione tra attività artistica e vita. Per l'homo ludens, l'arte è gioco, pratica quotidiana di vita.


“Io sono un artista – scrive Johnson – e, dunque, dovrei definirmi un poeta, ma altri lo fanno già. Quello che faccio io, i miei scritti, i miei graffiti, le opere pubblicate o spedite per posta sono poesia”.


Arthur Rimbaud sarebbe stato d'accordo.



sabato 3 settembre 2016

Frequentare la soglia. Le frontiere in punta di piedi



Giornata inaugurale di Nelle Terre dell'Ovest 6
Margini, suggestioni dall'oriente europeo 

Frequentare la soglia. Le frontiere in punta di piedi
Domenica 25 settembre
Monastero di san Pietro in Lamosa - Provaglio d'Iseo

ore 10,30
Presentazione “Nelle terre dell'Ovest 6 - La via dell'Est”
a cura di Sandro Foti, coordinatore del Sistema Bibliotecario Ovest Bresciano

ore 10,50
Storia di frontiere
“L'invenzione della frontiera. Storia dei confini materiali, politici, simbolici”
di Federico Simonti, Odoja Editore. L'autore dialogherà con il poeta triestino Roberto Dedenaro

ore 11,50
Malinconia di frontiere
Sergio Endrigo e la melodia dell'esilio con Valentina Soster - voce e chitarra classica- e il giornalista Paolo Cittadini, accompagnamento di Nelson D.Sosa -basso acustico e Cajon-.

ore 12,30
Pausa rifocillante

ore 14,45
Valicare frontiere
“Sulla Transiberiana. Sette fusi orari, 9200 km, sul treno leggendario da Mosca al mar del Giappone” di Mauro Buffa.
Edizioni Ediciclo

ore 15,45
Narrare frontiere
“ Il ponte sulla Drina” di Ivo Andric - per una storia letteraria dei Balcani a cura di Anna Schoenstein