domenica 31 marzo 2019
sabato 30 marzo 2019
Mirò, Picasso e la guerra di Spagna
La guerra civile spagnolo vide il coinvolgimento in difesa della Repubblica di intellettuali e artisti come Hemingway, Orwell, Lam, Mirò e Picasso. Proprio Mirò e Picasso furono protagonisti nel 1937 di un evento straordinario destinato a segnare profondamente la storia dell'arte moderna.
Giorgio Amico
Mirò, Picasso e la guerra di Spagna
All'inizio degli anni '30
si apre in Spagna una crisi rivoluzionaria di ampie proporzioni,
destinata a protrarsi per l'intero decennio e a risolversi poi con la
vittoria della destra estrema e l'instaurazione di un regime
dittatoriale di tipo fascista che durerà fino alla metà degli anni
Settanta.
Nell'aprile 1931 una
forte ondata di lotte nelle campagne e nelle città da l'ultimo
scrollone ad una monarchia agonizzante, nei fatti abbandonata ormai
dalle componenti più dinamiche e moderne della borghesia. Il regime
repubblicano che segue ai moti del '31 non è tuttavia più stabile
del precedente. Premuto dalle masse contadine da una parte e dalle
esigenze di sviluppo del capitalismo rappresentato dalle forze del
radicalismo piccolo borghese dall'altra, il nuovo regime repubblicano
è costretto, anche se con mille cautele, a prendere posizione contro
la chiesa cattolica, le sue istituzioni, gli infiniti ordini
religiosi, il loro enorme patrimonio finanziario e fondiario e contro
il ceto dei grandi latifondisti.
La repubblica solleva
enormi attese di riscatto sociale. Il movimento si allarga ovunque e
in modo spontaneo: nelle campagne, nelle fabbriche, nei quartieri
proletari delle città industriali nascono le prime forme embrionali
di consigli operai e contadini, le juntas. Le rivendicazioni operaie
e contadine si fanno sempre più pressanti di contro a un governo,
composto da socialisti, radicali e repubblicani, che elude i problemi
di fondo ed in particolare evita accuratamente di decidere in merito
alla tanto attesa riforma agraria.
Nonostante ciò, le forze
più conservatrici, agrari e Chiesa cattolica in testa, si sentono
minacciate e si adoperano per la restaurazione puntando su gerarchie
militari, espressione in prevalenza della borghesia terriera,
fanaticamente legate al culto di una presunta "ispanità
cattolica" minacciata dall'irrompere della modernità. Già nel
'32 viene scoperto un primo tentativo di colpo di stato militare. Il
golpe organizzato da un generale in pensione, Sanjuro, si rivela una
messinscena da operetta nella tradizione dei pronunciamenti militari
propri dei generali spagnoli. Il generale Sanjuro viene arrestato,
processato e condannato all'esilio. Ma gli altri generali implicati
rimangono ai loro posti. Il tentativo golpista, accantonato in attesa
di tempi migliori, ottiene comunque un immediato risultato, spostando
a destra gli equilibri politici e frenando ulteriormente la già
evanescente volontà riformistica del governo.
La borghesia repubblicana
inasprisce la repressione nei confronti delle lotte operaie e
contadine, tornando a utilizzare come ai tempi della monarchia
l'esercito contro i lavoratori. Nel gennaio 1933 a Casas Viejas la
Guardia Civil massacra spietatamente i braccianti in lotta. La
situazione peggiora ulteriormente nel '34, quando nuove elezioni
vedono la vittoria delle forze di centrodestra. Il nuovo governo apre
decisamente ai latifondisti e alla destra cattolica.Vengono inseriti
nel governo alcuni ministri della CEDA, il partito cattolico fondato
nei primi anni Trenta che non nasconde le sue simpatie per il
fascismo. A Madrid e a Barcellona gli operai scendono in piazza per
opporsi a quello che recepiscono come un tradimento delle loro
conquiste. Nelle Asturie i minatori insorgono e per alcune
settimane controllano la regione. Sarà il generale Francisco Franco,
che per questa impresa verrà poi promosso capo di stato maggiore, a
reprimere nel sangue la rivolta asturiana. E' la prova generale di
quanto accadrà su scala nazionale due anni più tardi.
All'inizio del '36, a
causa di uno scandalo finanziario che coinvolge direttamente il primo
ministro Lerroux e buona parte del governo, viene sciolto il
parlamento; le nuove elezioni nel febbraio '36 vedono la vittoria del
Fronte popolare, costituito dalle sinistre (PSOE e PCE) e dai partiti
della democrazia radicale, attorno ad un programma che prevede
l'amnistia per gli incarcerati per i fatti asturiani e un timido
inizio di riforma agraria.
Di fronte alla vittoria
elettorale dello schieramento democratico, le forze conservatrici e
in primo luogo i militari e la gerarchia cattolica preparano il colpo
di stato. I generali operano alla luce del sole, i nomi dei
cospiratori sono noti, il golpe è l'argomento di moda nei caffè di
Madrid, ma il governo non adotta alcuna misura precauzionale pago del
giuramento di fedeltà dei generali felloni. I cospiratori possono
così in assoluta tranquillità tessere la tela della congiura,
stabilendo accordi con Mussolini e Hitler che si impegnano a fornire
armi e sostegno finanziario, con gli esponenti della CEDA che siedono
in parlamento e col vecchio generale Sanjuro in esilio a Lisbona. Di
fronte all'aperto disegno reazionario dei generali i sindacati
operai, in particolare la CNT, chiedono la formazione di milizie
popolari. Il governo respinge decisamente la proposta, riconfermando
la propria fiducia nella lealtà delle forze armate. Una situazione
che ritroveremo pressochè identica nel golpe cileno del generale
Pinochet del settembre 1973.
Il 16 luglio 1936 parte
la rivolta dei generali. Anche di fronte all'aperta sollevazione il
fronte popolare si rifiuta di armare gli operai, i contadini, i
militanti delle stesse organizzazioni che lo compongono. Inutilmente
l'UGT, il sindacato vicino al PSOE maggiore forza di governo, reclama
con insistenza l'armamento generale delle masse. Ancora il 18 luglio,
con la rivolta militare in pieno sviluppo, il partito socialista e
il partito comunista dichiarano congiuntamente che la situazione è
difficile ma non disperata, mentre il governo tenta a trovare un
compromesso con i generali rivoltosi per arrivare a una mediazione e
ad una ricomposizione pacifica della crisi che eviti la guerra
civile. Di fronte alle esitazioni della politica sono le masse
popolari, gli operai delle città e i braccianti delle campagne, a
bloccare il golpe, attaccando, spesso a mani nude, le caserme,
recuperando armi, convincendo i soldati di leva a passare dalla parte
del popolo.
Dal 19 gli operai armati
cominciano a organizzare colonne di miliziani che passano al
contrattacco riconquistando parte del territorio caduto sotto il
controllo dei franchisti. Il 20 luglio, allo scadere dei quattro
giorni programmati dai generali per la conquista di tutta la Spagna,
sono in mano ai rivoltosi le colonie, poche città dell'Andalusia
occidentale a Sud e una parte della Vecchia Castiglia e del Léon al
nord. Ovunque la reazione dei proletari, dei braccianti, dei
contadini è stata immediata anche se lasciata alla spontaneità e
disorganizzata.
E' questo l'inizio di un
rapido processo rivoluzionario che investe tutta la Spagna. Ovunque
si formano comitati rivoluzionari di operai, di braccianti, di
contadini che assumono tutto il potere; confiscano terre e le
distribuiscono, requisiscono le fabbriche e ne controllano la
produzione, formano sotto il loro controllo forze di polizia, aprono
e gestiscono nuove scuole. Un pugno di giorni basta a far esplodere
la rabbia immensa del popolo, accumulata in secoli di servaggio.
Tutto il potere è nelle mani di un popolo in armi fieramente
determinato a combattere fino alla fine. Una potente ondata
rivoluzionaria incendia la Spagna, blocca e fa retrocedere il golpe
franchista.
Fin dai primi giorni la
rivolta dei generali comincia a ricevere consistenti aiuti materiali
da Hitler e da Mussolini, grazie ai quali riesce rapidamente a
superare le difficoltà impreviste dovute agli insuccessi militari e
al mancato appoggio della marina che è rimasta fedele alla
repubblica. A luglio un grande ponte aereo-navale organizzato dai
Germania e Italia garantisce l'afflusso delle truppe Le truppe
coloniali marocchine (“los moros”) e della legione straniera nel
territorio spagnolo occupato dai rivoltosi. Saranno proprie questi
reparti mercenari a formare il nerbo delle truppe franchiste e a
rendersi responsabili dei massacri e delle atrocità che segneranno
la progressiva avanzata dei golpisti. Grazie all'aiuto delle potenze
fasciste Franco può rapidamente riorganizzare il suo schieramento e
rilanciare con forze fresche l'offensiva verso Madrid.
Il governo repubblicano è
costretto a chiedere aiuto: si rivolge al governo di fronte popolare
in Francia, presieduto dal socialista Léon Blum. Ma senza esito.
Dopo consultazioni con gli inglesi, il governo francese dichiara di
auspicare una politica di non-intervento. La Spagna democratica resta
sola davanti all'aggressione fascista che si presenta fin dagli inizi
con il suo volto più spietato. A Granada, una delle prime città
occupate ai militari ribelli, viene arrestato il poeta Federico
Garcia Lorca, odiato dalla destra per le sue idee anticonformiste.
Lorca, che si era rifugiato presso il cognato sindaco socialista
della città (anche lui fucilato), viene arrestato e assassinato la
notte del 19 agosto 1938. La sua colpa, secondo un documento della
polizia ritrovato nel 2015, è di essere un "massone
appartenente alla loggia Alhambra" e di "praticare
l'omosessualità e altre aberrazioni".
Le stragi dei generali,
la ferocia delle truppe coloniali che si accaniscono contro la
popolazione civile e in particolare le donne, la repressione
sistematica di ogni forma di dissenso scatenano un moto di protesta
in tutti i paesi democratici. In prima fila sono intellettuali ed
artisti.
Scrittori come Ernest
Hemingway che andrà in Spagna come giornalista e denuncerà la
brutalità fascista e l'eroismo del popolo spagnolo nel suo grande
romanzo “Per chi suona la campana” che già nel titolo, un verso
del poeta inglese John Donne, ricorda che nessun uomo è un'isola e
dunque non si può restare indifferenti a ciò che accade altrove ad
altri uomini. “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io
sono parte dell'umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la
campana: essa suona per te”- aveva scritto così il poeta e
Hemingway lo riprende per invitare il mondo civile all'impegno e alla
resistenza contro il fascismo che rappresenta una minaccia per tutti
e non solo per gli spagnoli. Il libro esce nel 1940 quando le truppe
naziste occupano già Parigi e gran parte dell'Europa a conferma del
carattere non episodico o locale dei fatti spagnoli.
Scrittori, ma anche poeti
come il cileno Pablo Neruda, in quegli anni console in Spagna per
conto del suo governo, testimone diretto delle atrocità franchiste
che denuncia con versi che descrivono l'orrore indicibile di ciò che
sta accadendo:
Chiederete: ma dove sono
i lillà?
(...)
Vi racconterò tutto quel
che m'accade.
Vivevo in un quartiere
Di Madrid, con campane,
Orologi, alberi.
Da lì si vedeva
Il volto secco della
Castiglia,
Come un oceano di cuoio.
La mia casa la chiamavano
“La casa dei fiori”
(...)
E una mattina tutto era
in fiamme,
E una mattina i roghi
Uscivan dalla terra,
Divorando esseri,
E da allora fuoco,
Da allora polvere da
sparo,
Da allora sangue.
Banditi con aerei e con
mori,
(...)
Arrivavan dal cielo a
uccidere bambini,
E per le strade il sangue
dei bambini
Correva semplicemente,
come sangue di bambini.
(...)
Generali
Traditori:
Guardate la mia casa
morta,
Guardata la Spagna
spezzata:
(...)
Chiederete: perché la
tua poesia
Non ci parla del sogno,
delle foglie,
Dei grandi vulcani del
paese dove sei nato?
Venite a vedere il sangue
per le strade,
Venite a vedere Il sangue
per le strade,
Venite a vedere il sangue
Per le strade!
Il culmine dell'orrore si
raggiunge il 26 aprile 1937 quando una squadriglia di 24 aerei (fra
cui tre italiani) rade al suolo la città di Guernica che non è un
obiettivo militare, ma rappresenta la capitale storica del popolo
basco e dunque il cuore della resistenza all'oppressione e al
fascismo. E' il primo bombardamento sistematico di un obiettivo
civile e inaugura un nuovo tipo di guerra, che i nazisti
applicheranno poi su larga scala due anni più tardi sulle città
inglesi, mirante a terrorizzare la popolazione civile, a spezzare la
volontà di resistenza di un popolo con l'annientamento pianificato
minuziosamente e generalizzato di chi si oppone.
Le foto di Guernica
distrutta fanno il giro del mondo. Pablo Picasso, che vive a Parigi,
ne è immediatamente informato dalla sua compagna Dora Maar. E' lei a
spingerlo a fare qualcosa, perché qualcosa si deve fare, non si può
rimanere inerti a guardare ciò che il fascismo fa in terra di
Spagna.
“Il segreto di Guernica
è una donna. - scrive una giornalista ricostruendo quell'episodio -
C'era lei, quei giorni. è scesa lei in strada il pomeriggio del
primo maggio del '37 a comprare Ce soir. Ha visto lei per prima,
salendo fino all'ultimo piano le scale dell' atelier di rue des
Grands Agustins, la foto in bianco e nero di prima pagina: «Immagine
della città di Guernica in fiamme». è lei che gli ha detto:
«Guarda». Lui stava conversando con un amico, lei si è avvicinata,
ha messo tra i due il giornale e ha detto solo questo: guarda”.
La risposta di Picasso
sarà Guernica, la grande tela che denuncia gli orrori e la ferocia
della guerra di Spagna. Fin da subito l'artista è consapevole della
portata politica del suo lavoro:
"La guerra di Spagna
– dichiarerà - è la battaglia della reazione contro il popolo,
contro la libertà. Tutta la mia vita è stata una lotta continua
contro la reazione e la morte dell'arte. In Guernica, e in tutte le
mie opere recenti esprimo chiaramente il mio odio per la casta
militare che ha fatto naufragare la Spagna in un oceano di dolore e
di morte".
In quegli stessi giorni
si apre a Parigi la grande esposizione universale che vede la
partecipazione dei principali paesi del mondo. Sono gli anni del
Fronte Popolare e l'Expo diventa immediatamente occasione di
contrasto politico. La destra vede nell'esposizione il segno della
propaganda “giudaico-massonica”. Nel suo libello antisemita
Bagattelle per un massacro Céline la definisce “La grande giuderia
1937” e aggiunge: “Tutti quelli che espongono sono ebrei. Tutto
quello che comanda, che dirige, che ordina, architetti, grandi
ingegneri, direttori, incaricati, tutti ebrei, o mezzi ebrei, o
peggio andare massoni. Occorre che la Francia intera venga ad
ammirare il genio ebraico. Occorre che la Francia intera si eserciti
a morire per gli ebrei”.
Ed in effetti l'Expo del
1937 diventa una grande vetrina propagandistica, ma per i regimi
totalitari. All'ingresso due grandi padiglioni si contrappongono
l'uno all'altro a segnare anche visivamente il contrasto fra due
ideologie e due potenze: quello tedesco costruito da Albert Speer e
quello sovietico. Entrambi nel segno del gigantismo marziale, segno
della potenza dei regimi nazista e staliniano, ideologicamente
opposti, ma esteticamente identici.
Proprio nell’anno 1937 sia la Germania nazista che l’Unione Sovietica di Stalin avevano intensificato la repressione nei confronti dell’arte «decadente». A Monaco i nazisti allestirono quella che sarcasticamente è stata definita la più bella mostra di arte contemporanea e che Goebbels decise di battezzare come Mostra dell’arte degenerata : oltre 650 opere confiscate, da Otto Dix a Paul Klee, da Kandinskij a Piet Mondrian, da Oskar Kokoschka a Max Ernst, allo stesso Picasso, espressione dello spirito «ebraico», «prodotto di menti malate» e anti-tedesco. Sempre nel 1937 Stalin metteva al bando, come antisovietico e antipopolare l’astrattismo di Kandinskij.
Anche la Spagna partecipa
all'Expo trasformando il suo padiglione in una denuncia dei crimini
del fascismo. Max Aub, che ne è il curatore, chiama due artisti ad
affrescarlo. Sono Mirò e Picasso, entrambi catalani, entrambi
antifascisti convinti.
Juan Mirò crea un grande
murale di cinque metri per quattro composto di sei pannelli e
rappresentante un mietitore radicato nella terra come un albero che
in una mano impugna una falce e alza l'altra verso il cielo ad
accarezzare una stella. Un'opera visionaria e bellissima di cui
rimangono solo le foto scattate allora perchè non se ne trovano più
tracce dopo la chiusura dell'Expo e lo smantellamento dei padiglioni.
El segador (il mietitore)
incarna il sogno di una Spagna che lotta accanitamente per la libertà
e per un avvenire che sia fatto di pane (il grano mietuto), ma anche
di rose: l'arte, la cultura, la bellezza a disposizione del popolo
(la stella). L'opera si richiama anche direttamente
all'indipendentismo catalano perché Els segadors (I mietitori) è
anche il titolo dell'inno nazionale catalano che riprende un antico
canto popolare nato in occasione della grande rivolta antispagnola
dei contadini catalani del 1622.
Diversa l'impostazione di
Picasso. Guernica, che dipingerà in pochissimi giorni
(l'inaugurazione del padiglione sarà il 25 maggio), vuole essere un
grido di denuncia della guerra, una luce che si accende e rivela la
brutalità e l'orrore dell'aggressione fascista alla democrazia
spagnola. Picasso pensa l'opera, che prende una intera parete del
piano terra del padiglione, come una sorta di sacra rappresentazione,
strutturata secondo i canoni dell'arte sacra medievale, come un
polittico composto di tre fasce verticali, due laterali più strette,
simmetriche, contenenti a sinistra il toro ( simbolo di violenza e
bestialità) e a destra un uomo in una casa in fiamme che tende le
mani al cielo rappresentato in un urlo senza voce. Le due parti
estreme fanno da quinta a quella centrale, più larga, ove è
ammassato il maggior numero di personaggi, qui la composizione si
organizza su una struttura “a frontone” ispirato ai templi greci
che converge verso la lampada a esplicitare lo scopo dell'opera: fare
luce sull'orrore.
All’estrema sinistra
una madre lancia al cielo il suo grido straziante mentre stringe fra
le mani il cadavere del figlio. Picasso lo definirà un riferimento
esplicito alla pietà di Michelangelo. Al vertice un cavallo ferito,
simbolo del popolo spagnolo, nitrisce dolorosamente protendendo verso
l’alto una lingua aguzza come una scheggia di vetro. Sopra di lui
una lampada che illumina la scena e rende evidente ciò che sta
accadendo. Da una finestra una figura femminile sporge una lampada.
E' un omaggio e una dedica a Dora Maar che per prima ha aperto gli
occhi del pittore sull'orrore di Guernica e ad insistere perché si
prendesse posizione.
Ovunque morte e
distruzione, sottolineate da un disegno duro e quasi tagliente.
All’angolo inferiore destro una donna in ginocchio tende le braccia
al cielo. Al suolo, tra le macerie, si assiste all’orrore dei
cadaveri straziati.
Esattamente al centro del
dipinto una mano serra ancora una spada spezzata, da cui germoglia un
fiore: è l'unico segno di speranza, ma da il senso profondo
dell'opera. Occorre far luce sull'orrore, squarciare le tenebre che
coprono la violenza e la vogliono rendere invisibile e impunita. Solo
così può risorgere dalle rovine e dalla morte il fiore della
libertà e della pace. Questo è il compito dell'artista: fare luce,
rappresentare l'indicibile, lasciare aperta una via alla speranza.
“Io – affermerà anni
più tardi Picasso - non ho mai considerato la pittura come un’arte
di puro piacere, di distrazione. Io ho voluto con il disegno e col
colore, dato che sono le mie armi, penetrare sempre più nella
coscienza degli uomini e del mondo, affinché questa coscienza ci
liberi ogni giorno di più”.
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Il Movimento Sociale Italiano e gli Stati Uniti. Una storia complessa
Milano. Anni '60
A partire dal voto
sull'adesione alla NATO nel 1949 il Movimento Sociale Italiano puntò
a diventare il più saldo alleato degli USA in Italia. Nel clima
della Guerra fredda e del confronto globale fra i blocchi i
neofascisti ritrovavano un loro spazio politico come la
forza più coerentemente anticomunista.Da forza antisistema (vedi i
Fasci di Azione Rivoluzionaria negli anni del dopoguerra), i missini
diventano il puntello estremo della pregiudiziale anticomunista del
sistema di potere DC. Questo scatena non poche contraddizioni all'interno del partito, soprattutto nella sinistra socializzatrice che si rifà alla Carta di Verona, tra gli ex-combattenti della RSI e soprattutto fra gli evoliani. Un libro ricostruisce oggi questa storia complessa.
Guido Panvini
Destra, le radici di
una svolta nel rapporto tra Usa e Msi
La storia delle destre
nell’Italia repubblicana rimane ancora oggi un oggetto nebuloso. In
particolar modo quella del neofascismo appare come un tema difficile:
non in conseguenza di un tabù, come lamenta, in primo luogo,
l’intellighenzia di area, quanto piuttosto per l’inadeguatezza
delle chiavi interpretative e delle metodologie di ricerca impiegate
nel suo studio. Il bel libro di Gregorio Sorgonà, La scoperta
della destra. Il Movimento sociale italiano e gli Stati
Uniti (Viella, pp. 308, euro 25) contribuisce a fare chiarezza
su un argomento in cui dominano, ancora, pregiudizi, antiche
categorie e molta pigrizia intellettuale.
Il saggio ricostruisce il
dibattito interno al Movimento sociale sul ruolo degli Stati Uniti
nella politica nazionale e internazionale, dal dopoguerra fino alla
dissoluzione del partito guidato da Giorgio Almirante. L’attenzione
viene rivolta alle diverse fasi della guerra fredda e alle
ripercussioni che ne conseguono nella cultura politica del Msi.
Lungi dall’apparire
come un piccolo universo monolitico, il Movimento sociale viene
restituito in tutta la sua pluralità. Certamente compatti e uniti
contro una realtà avvertita come ostile, i neofascisti si dividevano
in realtà su tutto il resto. Le differenze si stagliavano molto al
di là delle correnti di partito, riguardando tutti i campi con cui
il Msi si confrontava.
La politica
internazionale costituisce un osservatorio privilegiato dal quale
cogliere l’eterogeneità espressa dal neofascismo. Sorgonà
ricostruisce bene la complicata dinamica d’interazione tra
l’anticomunismo, il minimo comun denotatore delle diverse anime del
partito, e le spinte nazionaliste, più o meno aggressive, ricorrenti
negli anni della guerra fredda. Tra i due poli della questione
sembrerebbe non esserci contraddizione, ma la serie di dilemmi che
questi indirizzi aprivano erano tanti e di cruciale importanza: fino
a che punto e in che misura gli Stati Uniti potevano considerarsi un
riferimento per la destra neofascista? Quali erano le possibilità di
compromesso che si potevano accettare con l’ordine internazionale
bipolare deciso dalle due superpotenze?
Il Movimento Sociale è
stato a lungo considerato come uno instrumentum regni degli Stati
Uniti nell’Italia della guerra fredda. La sua cultura politica,
conseguentemente, non doveva essere presa troppo sul serio: come se i
dibattiti interni al partito fossero una cortina fumogena che
mascherava, in realtà, un’unitarietà d’intenti e di obiettivi.
Tra l’altro, come
dimostrano le ricerche d’archivio condotte da Sorgonà, lo stesso
rapporto dei dirigenti del Msi con gli esponenti della destra
statunitense, in particolar modo con i rappresentanti del Partito
repubblicano, erano tutt’altro che lineari. Troppo grande la
sproporzione tra le forze politiche che si confrontavano, troppo
debole la posizione dell’Italia nello scacchiere internazionale.
Lo squilibrio diviene
ancora più evidente tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta quando
una nuova generazione di dirigenti missini si afferma alla guida del
partito. La diffusione dei consumi di massa non poteva non avere
conseguenze tra i neofascisti, nonostante i muri dottrinari che gli
intellettuali di destra radicale, primo fra tutti Julius Evola,
avevano provato a erigere.
La cultura politica
neofascista esce trasformata da questo confronto. Sorgonà si spinge
oltre agli studi che fino adesso hanno privilegiato gli ambienti
giovanili e anticonformisti della destra radicale, interrogandosi
sulle mutazioni intervenute all’interno del Movimento sociale. Per
nulla estranei alla modernità, come sovente sono stati definiti, i
neofascisti seppero cogliere le trasformazioni in corso, adeguando la
propria cultura e di conseguenza la propria politica ai cambiamenti
intervenuti. Come ci dimostra Sorgonà, l’affermazione delle destre
negli anni Novanta trova in questo cruciale passaggio un vero e
proprio momento di svolta.
Il Manifesto – 12 marzo
2019
giovedì 28 marzo 2019
Le lotte del 1968 e la svolta sindacale dell'autunno caldo
Nel 1998 Antonio
Moscato scrisse per Inprecor un corposo articolo sul biennio 68-69 in
Italia. Nel 2002 il testo venne ripreso e aggiornato. Ne proponiamo
un paragrafo.
Antonio Moscato
Le lotte del 1968 e la
svolta sindacale dell'autunno caldo
Un anno prima della data
d’inizio dell’Autunno caldo la lotta contro le “gabbie
salariali” che penalizzavano i salari nel sud, raggiunge una
straordinaria forza di mobilitazione e spazza via un’altra leggenda
diffusa dai riformisti: “dobbiamo moderare le nostre rivendicazioni
perché i lavoratori del sud sono arretrati, sono influenzati dalla
destra, non lottano…”
Per piegare il padronato
ci vorranno in molte province ben 14 giorni interi di sciopero e
quindi di decurtazione di un salario già modestissimo; la mancanza
di strutture sindacali di fabbrica in quasi tutto il sud rendeva
infatti impossibile ogni forma di sciopero articolato o di poche ore,
e imponeva il blocco totale della fabbrica dall’esterno per 24 ore
con picchetti formati da operai di altre fabbriche, e soprattutto da
militanti di gruppi rivoluzionari. Nel corso di quella lotta si
gettarono le basi per ricostruire gli organismi sindacali distrutti
da una repressione pluridecennale, ed emersero anche nel Mezzogiorno
nuove generazioni combattive. Alcuni scioperi nazionali a sostegno
della lotta del mezzogiorno cementarono una nuova unità tra nord e
sud, facilitata d’altra parte dalla massiccia presenza di
lavoratori meridionali nelle fabbriche del nord.
Tuttavia anche nel sud
sintomi importanti di una crescita della combattività operaia si
erano avuti anche in precedenza in alcune lotte aziendali, in genere
come risposta a una provocazione aziendale (è il caso delle OMECA di
Reggio Calabria alla fine del 1967, dell’ATI e delle Fucine
Meridionali di Bari nell’estate 1968). Dopo l’esperienza
galvanizzante della lotta contro le gabbie salariali, si
moltiplicarono le lotte di fabbriche anche piccole per ottenere
l’elezione della commissione interna, e qualche aumento salariale.
Per piegare la resistenza tenace dei padroni fu necessario in genere
il blocco totale dello stabilimento dall’esterno, a volte di due o
tre settimane, ovviamente possibile solo ottenendo la solidarietà
concreta dei lavoratori di altre fabbriche della zona o dello stesso
settore produttivo. In alcuni casi anche al sud vi furono vertenze su
piattaforme avanzate: ad esempio al Pignone Sud di Bari, uno
stabilimento di oltre 1000 tra operai e impiegati del gruppo ENI,
nell’aprile 1969 fu fatto saltare il cottimo con una lotta tenace
che strappò anche il diritto di assemblea in fabbrica. Per regolare
le prime assemblee, molto caotiche, fu eletta una “presidenza”
basata su delegati di reparto revocabili, che di fatto fu uno dei
primi Consigli di fabbrica in Italia.
E’ in questo quadro che
si colloca la vicenda contrattuale del 1969, che assume una
straordinaria importanza per la sincronizzazione del rinnovo dei
contratti delle maggiori categorie dell’industria, che anche per le
ottuse resistenze del padronato erano stati rinviati fino a
coincidere negli stessi mesi del 1969 diventando quel grande
avvenimento politico ricordato come l’Autunno caldo. Si mobilitò
un numero senza precedenti di lavoratori, proprio grazie alla
concretezza delle piattaforme, che avevano al centro consistenti
aumenti salariali uguali per tutti, la riduzione d’orario a 40 ore
e la parità normativa tra operai e impiegati.
Quello che è meno noto è
che quelle piattaforme furono il frutto di una battaglia di minoranze
consistenti e decise, che provocarono il capovolgimento
dell’atteggiamento delle burocrazie sindacali. Basti pensare che
nel VII Congresso della CGIL, che si tenne a Livorno dal 16 al 21
giugno 1969, tutte le proposte che di lì a poco più di un mese
sarebbero state raccolte dai principali sindacati di categoria furono
respinte o rinviate a tempi futuri. Il segretario generale Agostino
Novella aveva ad esempio esplicitamente respinto nella sua relazione
“ogni forma astratta di egualitarismo salariale” (cioè gli
aumenti uguali per tutti rivendicati dai rivoluzionari), e aveva
rinviato le 40 ore a tempi futuri, proponendo per giunta che
dovessero “articolarsi secondo le situazioni specifiche” (cioè,
in parole povere, dove la forza operaia è troppo grande e i padroni
sono disposti a concessioni, va bene, gli altri si arrangino). Ogni
eventuale riduzione d’orario soprattutto avrebbe dovuto “anche
prendere in alcuni casi forme diverse, strutture diverse”. Il
progetto era spezzettare e lasciar disperdere la forza operaia.
Anche Vittorio Foa, che
rappresentava allora il PSIUP, e più in generale la “sinistra
sindacale”, evitava accuratamente in quel Congresso di prendere
posizione sulla richiesta semplicissima (e per questo mobilitante)
degli aumenti uguali per tutti e della riduzione secca e immediata
d’orario. Molte voci (dai metalmeccanici di Brescia, dai
siderurgici, dai chimici) rivendicavano la riduzione immediata alle
40 ore e anzi a 36 ore per siderurgici, chimici e in genere i settori
con forte nocività ambientale, ma la “Commissione sindacale”
preposta alle piattaforme insisteva sul fatto che le 40 ore
settimanali dovevano essere realizzate “anche gradualmente”,
eufemismo per dire semplicemente che dovevano essere introdotte solo
gradualmente e lentamente, come nei contratti precedenti (nel 1966 si
era ottenuta la riduzione di un’ora in tre anni, mezz’ora nel
novembre 1968 e mezz’ora nel maggio 1969, con nessun effetto
diretto sull’occupazione).
La logica della
frammentazione della forza operaia e dello scaglionamento della
riduzione d’orario per concedere al padronato di prepararsi al suo
riassorbimento, come è noto saltò. Nelle lotte aziendali di cui
abbiamo appena parlato, non solo si erano ottenuti importanti
successi normativi e salariali (spesso inversamente proporzionali per
attenuare le differenze), ma in molte aziende importanti erano emerse
nuove direzioni sindacali di fatto, in genere ancora formalmente
all’interno dei sindacati confederali, ma contrapposte alla loro
linea di collaborazione di classe.
Alla fine di luglio del
1969 una grande assemblea si riunì al Palasport di Torino per
concordare l’atteggiamento dei rivoluzionari nei contratti e per
regolare altre questioni (ad esempio lì si consumò la rottura
definitiva tra il gruppo dirigente della nascente Lotta Continua e
Potere Operaio). La quasi totalità degli interventi erano
caratterizzati da uno schematismo estremista che escludeva ogni
possibilità di un recupero di quelli che venivano definiti gli
“obiettivi operai” da parte delle burocrazie sindacali, e dava
per liquidato definitivamente il PCI.
Chi proponeva un’analisi
più realista fu accolto freddamente e persino fischiato quando
diceva che gli “obiettivi operai” che tutti proponevamo non erano
veramente “incompatibili con il sindacato”, come si affermava, e
che quindi la burocrazia poteva anche farli suoi. D’altra parte a
degnarsi di leggere gli organi dei partiti riformisti si potevano
cogliere i sintomi di un imminente mutamento, che avvenne già nello
stesso fine settimana in cui si riuniva l’assemblea di Torino: le
assemblee dei delegati metalmeccanici e chimici raccoglievano la
spinta partita dalle avanguardie delle fabbriche più politicizzate.
Erano passate appena sei settimane dal Congresso della CGIL e la
linea decisa in quell’alto consesso veniva bruscamente cambiata.
I burocrati si erano
“convertiti”? Erano stati messi formalmente in minoranza? Nulla
di tutto questo. Ma alcuni clamorosi insuccessi dei vertici sindacali
nelle assemblee di alcune fabbriche importanti, avevano fatto capire
che non avevano più davanti dei gruppetti ideologizzati e staccati
dalla classe, ma quadri operai maturi e stanchi dei compromessi. In
particolare l’assemblea della Borletti al Cinema Nazionale di
Milano (non si era ancora riconquistato il diritto di assemblea in
fabbrica) aveva respinto quasi all’unanimità la piattaforma
ufficiale del sindacato, votando per i forti aumenti uguali per
tutti, le 40 ore subito e la parità completa e immediata
operai-impiegati.
I vertici sindacali, pur
avendo ampi settori di operai meno politicizzati che li seguivano, e
pur non essendo vincolati da quelle assemblee che avevano convocato
come “consultive”, capirono che se volevano recuperare il
controllo della classe operaia non dovevano lasciar crescere
un’opposizione di quel tipo. Così i contratti ebbero finalmente
una piattaforma pagante e consistente, e mobilitarono milioni di
lavoratori, e per il momento le minoranze rivoluzionarie che avevano
proposto quegli obiettivi restarono spiazzate da quella giravolta. Le
loro critiche ai vertici non potevano essere comprese (e non erano a
volte neppure conosciute) dai milioni di lavoratori entrati per la
prima volta in lotta e che erano contenti che “il sindacato”
proponesse una lotta così concreta, senza sapere come e per merito
di chi ci si era arrivati. Il prestigio recuperato consentì poi ai
vertici di firmare un accordo di compromesso, che scaglionava parte
delle conquiste nell’arco dei tre anni.
Il 1969 in Italia è
diventato così l’anno dell’ondata operaia. Ci fu allora una
discussione se si trattasse di una vera situazione rivoluzionaria o
prerivoluzionaria, con opinioni molto diverse. In ogni caso va detto
che nei due anni precedenti, che pure non erano stati tranquilli,
c’erano state complessivamente 142 milioni ore di sciopero, in
quell’anno ben 302 milioni, di cui 232 nell’industria (contro 785
milioni dei due anni precedenti).
(Dal sito:
antoniomoscato.altervista.org)
mercoledì 27 marzo 2019
1968-1969. Gli anni delle lotte operaie e studentesche e la strategia della tensione
Giovedì 28 marzo
2019, ore 18.00
Libreria Ubik Savona
“1968-1969. Gli anni
delle lotte operaie e studentesche e la strategia della tensione”
Relatore GIORGIO
AMICO
A cura dell’ANPI
Associazione Nazionale Partigiani
Sezione “Fratelli
Briano”
Il biennio 1968-69 segna
un momento di radicale cesura nella storia dell'Italia repubblicana,
chiudendo il lungo processo di cambiamento degli anni '60 e aprendo
quella stagione dei movimenti che porterà da un lato a cambiamenti
epocali, ma anche a un periodo di violenze e tensioni destinato a
durare fino alla fine degli anni '70. Sono gli anni delle grandi
lotte studentesche e operaie, delle occupazioni universitarie e dei
consigli di fabbrica, ma anche, a partire dal movimento femminista,
della nascita di realtà politiche e sociali del tutto nuove.
Una stagione di grandi
speranze a cui si contrappone fin da subito la ripresa dello
squadrismo neofascista e una strategia delle stragi e del terrore con
complicità negli stessi apparati dello Stato su cui ancora oggi non
è stata fatta completa luce.
domenica 24 marzo 2019
1956. Quando Azione Comunista faceva paura al PCI
Nel 1956, le
rivelazioni del XX Congresso del PCUS sui crimini di Stalin e poi i
fatti d'Ungheria, mettono in forte difficoltà il PCI che mantenne,
nonostante la defezione di molti intellettuali, comunque una salda
presa sulla classe operaia. Eppure i timori di una forte perdita “a
sinistra” furono forti come dimostra questo nostro lavoro di
qualche anno fa.
Giorgio Amico
Quando Azione
Comunista faceva paura al PCI
Sull'esperienza di Azione
Comunista negli anni Cinquanta si è scritto finora poco. Nella
sterminata bibliografia sulla storia del PCI nel dopoguerra, se si
eccettuano i contributi di Giorgio Galli, Danilo Montaldi e Arturo
Peregalli, rarissimi sono stati gli accenni a Azione Comunista, così
d'altronde come alle dissidenze storiche trotskiste e bordighiste.
Nei casi migliori vi si è accennato di sfuggita con accenti
liquidatori e riduttivi, se non derisori. La realtà che emerge dai
verbali della Direzione comunista nel 1956, da poco raccolti e
pubblicati*, è del tutto diversa. il gruppo dirigente del PCI non
sottovalutava affatto la portata del dissenso rappresentato dal
giornale di Seniga e Fortichiari, che considerava anzi una concreta
minaccia al controllo fino ad allora esercitato sulle masse
proletarie. Senza eccezioni, da Togliatti a Amendola, da Secchia a
Pajetta, i massimi dirigenti del PCI seguono con attenzione la
parabola della dissidenza azionista, prima frazione semiclandestina
interna al partito, poi rivista d'area ed infine organizzazione
politica indipendente col nome di Movimento della Sinistra Comunista.
Già nella riunione della
direzione comunista del 29 marzo 1956, totalmente dedicata al XX
Congresso del PCUS, Secchia, considerato da molti nel partito anche
per gli stretti rapporti avuti con Seniga il vero ispiratore della
dissidenza di sinistra, rileva in un intervento dai toni volutamente
tranquillizzanti che nelle riunioni svolte nelle Federazioni "non
si sono notate posizioni antipartito", nonostante
l'atteggiamento irresponsabile di quei dirigenti che, come Terracini,
si sono lasciati andare e hanno ecceduto nelle critiche all'URSS
staliniana. E' la spia di un malessere reale. Certo la stampa tende a
esasperare i toni, ingigantendo le dimensioni della dissidenza, ma
resta il fatto che l'intero gruppo dirigente, Togliatti in testa, al
di là delle sprezzanti minimizzazioni pubbliche, cova il timore che
l'intenso lavoro di propaganda svolto da Seniga e Fortichiari possa
raccogliere significativi consensi alla base del partito.
Alcuni mesi più tardi,
in estate, nell'ambito di una discussione in Direzione sui contatti
in corso con Cucchi e Magnani in vista di un loro possibile rientro
nel partito, ancora Secchia allude esplicitamente alle forti riserve
espresse dalla base milanese in merito all'espulsione dalle fila
comuniste di Luciano Raimondi, comandante partigiano e direttore del
Convitto Rinascita, con Seniga e Fortichiari uno dei principali
esponenti di A.C. venuti allo scoperto.
La situazione si fa
critica con l'esplodere in autunno della rivoluzione ungherese. Nella
Direzione del 30 ottobre, interamente dedicata alla discussione dei
fatti d'Ungheria, la discussione assume toni drammatici. In tutti gli
interventi aleggia il timore che il dissenso non resti confinato agli
intellettuali, ma dilaghi anche nella base operaia. Da più parti si
mette in evidenza l'apparire di preoccupanti segni di disorientamento
anche fra i militanti operai più fedeli al partito. Ancora una volta
il timore è che Azione Comunista possa sfruttare la situazione e
offrire uno sbocco politico organizzato al dissenso che cova nelle
sezioni soprattutto nel triangolo industriale. Un allarmato Pajetta
segnala che intellettuali di primo piano come Geymonat sarebbero in
procinto di rompere con il PCI, ma a differenza di quanto finora
accaduto con i dissidenti in uscita verso la socialdemocrazia, questa
volta lo strappo avverrebbe a sinistra in direzione di Azione
Comunista. A sua volta Dozza evidenzia l'aumento della diffusione del
settimanale azionista, mentre Colombi mette in guardia dal pericolo
di spingere quella parte del partito, sempre più visibilmente
amareggiata e delusa, direttamente nelle braccia di Seniga.
Lo sbandamento è forte.
Al gruppo dirigente comunista occorrerà un altro mese per mettere a
punto una decisa controffensiva sul terreno politico, ideologico e
organizzativo. Nella Direzione del 21 novembre 1956 in preparazione
dell'VIII Congresso del partito, tocca a Giorgio Amendola, quale
responsabile della Organizzazione, aprire i lavori. Nella relazione
introduttiva il PCI viene chiamato ad un intenso sforzo di
rinnovamento, mentre tra gli obiettivi del congresso particolare
rilievo assume la risposta decisa nelle sezioni e nelle federazioni
al "lavoro di Azione Comunista e di elementi di destra che
abbandonano i nostri principi".
Pur pagando un prezzo
elevato nella società, con una forte emorragia di iscritti e una
verticale caduta di consensi tra gli intellettuali, nelle fabbriche
il PCI supererà la prova del 1956. In ciò agevolato anche dai
limiti soggettivi dello stesso nucleo dirigente di Azione Comunista
che si dimostrerà incapace di superare il proprio eclettismo e di
dare respiro politico al malessere profondo di consistenti
avanguardie operaie prigioniere dei miti convergenti dell'URSS
staliniana e della Resistenza tradita. Su questo terreno il recupero
per il PCI si rivelerà più agevole del previsto, ma per un momento,
in quel "terribile 1956" del XX Congresso e
dell'insurrezione ungherese, Azione Comunista riuscirà realmente a
incutere timore agli abitanti del tetro palazzone in via delle
Botteghe Oscure.
* Quel terribile 1956. I
verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e
l'VIII Congresso del PCI, Editori Riuniti 1997
(Appunti Marxisti n.3
Autunno 1997)
mercoledì 20 marzo 2019
L'associazionismo operaio e le elezioni nella Savona del 1882
Nel 1882 entrò in vigore un sistema
elettorale che permetteva l'accesso al voto anche ad una parte non
piccola della classe operaia. Riprendiamo un nostro vecchio lavoro del 1982 che racconta cosa accadde in quell'occasione a Savona dove le organizzazioni operaie, allora ai loro inizi, ottennero un clamoroso successo.
Giorgio Amico
L'associazionismo operaio e le
elezioni nella Savona del 1882
Nel 1882, accogliendo in
parte le istanze a favore di un allargamento del suffragio presentate
dalla sinistra ma anche da ambienti liberali e perfino clericali, il
governo acconsentì a modificare il sistema elettorale. La riforma fu
varata dopo accese discussioni alla Camera e al Senato con le leggi
del 22 gennaio e del 7 maggio 1882. La prima riguardante i requisiti
necessari per essere iscritti al voto, la seconda istituente un nuovo
sistema elettorale basato sul principio dello scrutinio di lista. Le
due leggi vennero poi unificate nel Testo Unico del 24 settembre
1882.
La nuova elettorale
stabiliva che per essere elettori occorresse aver compiuto il
ventunesimo anno di età contro i venticinque della precedente
normativa, saper leggere e scrivere e possedere almeno uno dei
seguenti requisiti: aver superato l'esame di seconda elementare o
pagare almeno 19,80 lire di imposte dirette contro le 40 precedenti.
Ciò permise ad una parte
notevole della classe operaia di allora di poter partecipare al voto,
anche se, escludendo gli analfabeti, la nuova legge veniva di fatto a
favorire le città del nord rispetto alle campagne del sud. Comunque
gli elettori, che nelle elezioni del maggio 1880 erano stati circa
seicentomila, pari al 2.2% della popolazione del Regno, triplicarono
passando a più di due milioni pari al 6,9%.
La riforma suscitò
vivaci discussioni nell'estrema sinistra che, favorevole al suffragio
universale senza limitazioni di censo o di titoli di studio, si
divise fra chi intendeva comunque approfittare dell'occasione pur
riconoscendone la portata limitata e chi invece la rifiutava in
blocco accampando motivi di principio.
Echi di questo dibattito,
che assunse presto toni assai accesi, ritroviamo nell'editoriale de
“Il Cittadino”, combattiva voce del movimento democratico, dedica
il 15 febbraio 1882 alla tanto discussa questione:
«Se
la legge, che venne votata da una Camera borghese, non risponde
perfettamente alle esigenze della Democrazia, non di meno è sempre
un grande vantaggio pel popolo, il quale può così più agevolmente
impromettersi il riscatto della schiavitù nazionale. Secondo noi,
dovere di tutte le forze della Democrazia militante tra cui
soprattutto i socialisti, è quello di concorrere all'urna compatti,
Sun fila serrate e di votare per candidati radicali e onesti (…) La
partecipazione alla prossima agitazione elettorale pei socialisti e
le altre gradazioni del partito democratico, secondo noi, non è un
problema da discutere, ma un dovere imprescindibile». (1)
Lo
stesso giornale aveva d'altronde già celebrato in toni civilmente
appassionati l'estensione del diritto di voto agli operai.
Nell'articolo « Sono cittadini» di V. Boldrini possiamo sentire
vibrare l'ingenuo orgoglio di chi si sente protagonista di un
avvenimento eccezionale:
«…
Anche l'operaio, anche il contadino oggi sono uomini – anzi sono
cittadini (...) se ieri eran nulla, o forse men che nulla, poiché
erano plebe (...) oggi sono gli elettori dei reggenti stessi della
Società. Oggi sono i cittadini. Oggi hanno una Patria (…). Operai,
non siamo più ventre, che a mala voglia si sfami. Siamo cittadini
che si guadagnano... il pane della vita (…). Invidiosi di nessuno,
saremo anzi generosi. Sotto la nostra bandiera che è quella del
lavoro, della modestia e del sacrifizio, noi accoglieremo anche chi
ci paga il salario. Purché non pretenda di essere il padrone! E sia
contento di esserci eguale». (2)
Coerentemente
con questa impostazione la Fratellanza Operaia, la più antica e
gloriosa delle associazioni democratiche savonesi, nomina una
speciale commissione incaricata di garantire l'iscrizione nelle liste
elettorali del maggior numero possibile di lavoratori. Il 19 febbraio
la commissione diffonde un « Manifesto agli operai» perché accorrano “numerosi e solleciti” a farsi registrare.
A
convincere anche i più restii della utilità della partecipazione
elettorale giunge alla fine del mese di febbraio la notizia che i
congressi appena svolti dei socialisti fiorentini e romagnoli hanno
respinto l'ipotesi astensionista «considerando che l'agitazione
elettorale potrà essere non solo un mezzo per propugnare le idee
socialiste, ma bensì anche la ragione di molte e grandi riunioni di
lavoratori nelle quali questi si intenderanno sempre meglio e si
affratelleranno ognor più per raggiungere un nuovo ordine di cose».
(3)
Da
Savona “Il Cittadino” plaude a questi deliberati ed auspica che
«col concorso dei rappresentanti del proletariato, la questione
sociale si potrà risolvere in modo conforme ai dettami della
giustizia ed ai sentimenti della sociale fratellanza». (4)
Il
Manifesto dei clericali
La
riforma elettorale spinge alla mobilitazione anche il mondo cattolico
o come era uso dire allora clericale. Il 24 marzo da Bologna il
Comitato Generale Cattolico Permanente diffonde un appello agli
«elettori di sani principi» perché nelle ormai prossime elezioni
amministrative vengano prescelti candidati «di indubbia religione»
al fine «conservare cristiani i nostri comuni». L'attivismo
cattolico si allarga ben presto al nuovo soggetto politico
rappresentato dagli operai, qua e là si assiste alla nascita
improvvisa di società operaie cattoliche.
Allarmato
“Il Cittadino” nota acidamente che «molti furbi, che pochi
giorni or sono trattavano gli operai come carne da macello, o li
disprezzavano, o per lo meno ricusavano di riconoscerli come facenti
parte del consorzio umano, or cambiano sistema e cominciano ad
accarezzare, qua e là, nelle fabbriche, nelle officine, su per le
piazze, i lavoratori e con larghe promesse, pur di ingannarne la
buona fede, pur di carpirne il voto». (5)
La
breccia di Porta Pia infiamma ancora gli animi. Ad un articolo del
giornale della curia vescovile, “La Liguria Occidentale” che nei
socialisti vede «la bandiera del diavolo», dalle colonne de “Il
Cittadino” si replica che «il popolo è devoto maggiormente alla
bandiera del forcone anziché a quella dei Torquemada. La prima è
l'insegna della libera ragione, la seconda è l'insegna della
superstizione, della menzogna, dell'immoralità elevata a dogma della
setta dei preti». (6)
Forti
sono ancora gli echi di quell'Inno a Satana che il massone Carducci
aveva scritto più di un decennio prima e che, secondo lo storico Aldo Mola, aveva scandalizzato
oltre che i clericali e i laici moderati “anche non pochi
Fratelli”.
Anche
le autorità di governo, accusate di favorire per motivi di
conservazione sociale i clericali, non rimangono esenti da spunti
polemici. I democratici savonesi lamentano che «ai nostri giornali
repubblicani e socialisti e anticlericali, che propugnano una forma
di reggimento la quale indubbiamente racchiude libertà e uguaglianza
per tutti, il sequestro e le multe... agli uomini di sacrestia che
ogni giorno nei congressi, nelle scuole, nei loro fogli fanno voti
pel ristabilimento dello Stato Pontificio e della immorale e barbara
tirannia papale, impunità e favori!». (7)
Ma
al di là del fattore unificante rappresentato dalla polemica
anticlericale, le cose non vanno troppo bene per il movimento
democratico che, frammentato in una molteplicità di correnti, stenta
a trovare un terreno d'intesa che superi il personalismo, retaggio
del vecchio sistema incentrato sul notabilato. E' questo un dato
generale che va ben oltre i pur reali limiti della sinistra savonese,
per coinvolgere un movimento operaio intimamente lacerato tra furori
bakuninisti, suggestioni mazziniane e primi tentativi di
organizzazione politica autonoma.
A
conferma di tale malessere giunge l'ordine del giorno votato il 18
aprile dalla Consociazione Operaia Genovese secondo cui:
«considerando
che v'hanno partiti politici cui non pesa di consumare ibridi
compromessi... che i partiti che s'intitolano del Progresso più che
per il trionfo dei principi combattono oggi per levare in alto le
loro personali ambizioni: che ancora incompleta è la partecipazione
popolare alle elezioni... delibera di astenersi, allo stato attuale
delle cose, dal prendere parte alle prossime elezioni amministrative
di Genova».
La
notizia, inaspettata, esplode a Savona come una bomba riaprendo
vecchie polemiche mai sopite. Per tutta la primavera le associazioni
operaie, i circoli liberali e gli intellettuali democratici discutono
se, accettato il principio della partecipazione alle elezioni, sia
utile per il movimento democratico, diviso e impreparato, prendere
parte all'ormai imminente tornata amministrativa. Gradualmente viene
prevalendo un indirizzo simile a quello degli operai genovesi. Lo
schieramento democratico si divide. Da un lato un gruppo di elettori
liberali sostenuti dal giornale “Il Progresso” presenta una
propria lista, mentre i democratici vicini a “Il Cittadino” e al
Circolo Anticlericale optano per l'astensione.
Con
un editoriale a tutta pagina intitolato significativamente «Giunge
il nostro tempo» “Il Cittadino” supera i limiti del vecchio
rivoluzionarismo repubblicano per rivolgersi direttamente agli operai
che sull'onda impetuosa dello sviluppo industriale di fine secolo
appaiono sempre più il vero soggetto centrale di qualunque politica
di trasformazione sociale del Paese che voglia essere praticabile.
«
Le prossime elezioni generali saranno per la democrazia una nuova
prova... E' agli operai che noi ci rivolgiamo, l'avvenire è
riservato ad essi: blasoni, privilegi, dispotismi di classe debbon
cadere infranti davanti al sacro altare del lavoro. L'operaio che
fino ad ora fu considerato una macchina, una forza produttrice
qualunque, alla sua volta deve mostrare che ora anche per lui è
arrivato il suo tempo». (8)
Le
elezioni amministrative del 30 luglio segnano una volta ancora una
netta affermazione della lista clericale-moderata, nonostante il
forte astensionismo – votarono infatti solo 776 dei 2391 iscritti
nelle liste elettorali – confermi l'influenza del partito
democratico.
«I
clericali – scrive “Il Cittadino”- hanno ottenuto una completa
vittoria in articulo mortis. Era da aspettarselo. Noi li attendiamo
al redde rationem il giorno non remoto delle elezioni generali». (9)
Il
Programma della Massoneria
Consapevole
dei propri limiti, il movimento operaio savonese dedica i tre mesi
estivi ad una puntigliosa opera di riorganizzazione. Il 7 agosto nel
corso di una affollatissima assemblea la Consociazione Operaia elegge
un Comitato Elettorale Democratico Operaio composto dai cittadini
Giuseppe Murialdo, F.G. Gozo, G.B. Bolens, G.B. Lottero, Onorio
Blengini, Matteo Leveratto, Tito Vacca, Giuseppe Borzone, Giov. Maria
Negro, Salvatore Lippi, G.B. Cortese e Felice Spirito. Il Comitato,
che ha l'appoggio delle società operaie e della redazione de “Il
Cittadino”, ha il compito di coordinare gli sforzi elettorali del
movimento democratico, di creare sottocomitati nei principali centri
del circondario, di reperire fondi e di scegliere i candidati.
Ai
primi d'Ottobre scende in campo anche la Massoneria che si schiera
decisamente a fianco del movimento operaio e democratico. Il Grande
Oriente dirige a tutte le Officine della Comunione italiana una
circolare che invita i Maestri Venerabili a far presente ai
“Fratelli” i principi ispiratori della politica massonica in
campo elettorale. Innanzitutto si deve per quanto attiene la scelta
dei candidati «ricercare l'onestà della vita, l'integrità del
carattere e l'indipendenza morale». Vanno appoggiati candidati che
«ossequienti al principio della Sovranità Popolare, siene sempre
disposti ad allargare la base di tale sovranità (…) e a propugnare
tutte quelle Riforme che l'opinione pubblica ha già dimostrato e
dimostrerà sempre più per l'avvenire, utili e necessarie». Quindi
si devono scegliere candidati che: «Propugnino il discentramento
amministrativo – leggi agrarie se necessarie a bonificare terre
incolte e casse di prestito agricolo necessarie a salvare i piccoli
coltivatori che scompariscono spaventosamente, di giorno in giorno,
oppressi dalle tasse eccessive e da un'insopportabile fiscalità .
Sostengano l'abolizione completa del [la tassa sul] macinato e
propugnino la riduzione equa e onesta della tassa sul sale.
Suggeriscano e promuovano l'istituzione delle Camere sindacali
operaie ed agricole destinate a tutelare gli interessi dei
lavoratori. Sollecitino i risultati dell'inchiesta agraria ed i
provvedimenti igienici, economici e amministrativi contro la
pellagra, la malaria, le abitazioni insalubri. Il cibo insufficiente
alla vita, l'emigrazione». E ancora che promuovano l'istruzione
elementare generale ed obbligatoria, la riforma della legge penale e
l'umanizzazione del sistema carcerario, l'adozione di una politica
estera di pace «secondo lo spirito di giustizia e d'equità, non di
prepotenza, di conquista e di egoismo brutale» sostenendo il
principio dell'arbitrato internazionale in caso di contrasti fra
nazioni.
Il
manifesto del Grande Oriente, che di fatto fornisce un vero e proprio
programma politico al movimento democratico, ottiene larghe adesioni
anche nella nostra città. “Il Cittadino” lo riprende
dedicandogli l'intera prima pagina, le associazioni operaie ed i
circoli liberali lo discutono, mentre i giornali clericali fanno a
gara, soprattutto nelle campagne, ad evocare immagini diaboliche e a
denunciare oscuri e minacciosi complotti orditi dai “framassoni”.
Avvicinandosi
la data del 29 ottobre prevista per le elezioni, gli schieramenti
vengono sempre più delineandosi. Il Comitato Democratico Operaio, il
Comitato Progressista, la Fratellanza Operaia, il Club Progresso
Operaio decidono di proporre agli elettori una lista unitaria formata
dallo scrittore garibaldino Giuseppe Cesare Abba, dall'avvocato
Giuseppe Berio, dal marchese Nicola Mameli e dal cavaliere Adolfo
Sanguineti. I moderati appoggiati dall'organo della curia vescovile
“La Liguria Occidentale” e da numerosi periodici locali,
sostengono invece le candidature dell'onorevole Paolo Boselli, del
marchese Marcello De Mari, di Stefano Castagnola e di G. Rolando.
Da
una parte e dall'altra si affilano le armi. “Il Cittadino” mette
in guardia gli elettori operai affinchè non si facciano condizionare
dal vecchio sistema che privilegiava il voto ai notabili rispetto ai
programmi di partito.
«Non
sono più nomi che stanno di fronte nella lotta: ora sono due
partiti, il moderato alleato coi preti, il partito dell'avvenire e
del progresso. Per quale voteranno gli operai? Pel partito di Boselli
e compagnia che di questione sociale, di voto universale non si sono
mai interessati ed anzi hanno negato il voto ai diseredati; hanno
tentato di schiacciare le classi dei lavoratori di fronte
all'ingordigia dei capitalisti». (10)
Anche
i moderati non stanno certo a guardare, ma appoggiati dal clero
dedicano particolare cura alla propaganda nelle campagne come risulta
dalle corrispondenze che a decine giungono alla redazione de “Il
Cittadino” da Cairo, Dego, Sassello, Stella.
Il
29 ottobre giunge finalmente l'occasione tanto attesa dai
progressisti. Il collegio elettorale di Savona viene ripartito nei
circondari di Savona ed Albenga e nei mandamenti di Voltri e Sestri
Ponente. Le elezioni si svolgono in maniera regolare e vedono
l'affermazione della lista democratica che ottiene circa un migliaio
di voti in più della lista clericale-moderata. Per il particolare
meccanismo elettorale risultano però eletti i primi due candidati di
ogni lista e precisamente Sanguineti e Berio per il partito
democratico, Boselli e De Mari per quello moderato. Ovunque, con
l'eccezione di Finalmarina, prevalgono i democratici. Nelle cittadine
e nei centri di una qualche importanza, dove il livello di
istruzione è mediamente più alto, la lettura dei giornali è più
diffusa e soprattutto più forte è la presenza di operai
industriali, il corpo elettorale mostra di possedere una più
avanzata coscienza politica premiando massicciamente la lista
progressista, mentre nei comuni rurali, dove ancora molto forte è
l'influenza della Chiesa, la lista moderata sostanzialmente tiene. A
Savona, infine, polo industriale ma con un circondario agricolo non
disprezzabile, i due schieramenti sostanzialmente si equivalgono con
una lieve prevalenza dei democratici, mentre risulta schiacciante il
voto democratico nei mandamenti industriali “genovesi” di Voltri
e Sestri Ponente.
Comuni
|
Lista
democratica
|
Lista
moderata
|
Savona
|
3976
|
3744
|
Altare
|
702
|
329
|
Albenga
|
913
|
765
|
Cairo
|
804
|
331
|
Finalborgo
|
806
|
229
|
Finalmarina
|
202
|
338
|
Loano
|
481
|
313
|
Noli
|
402
|
216
|
Sassello
|
505
|
367
|
Varazze
|
430
|
360
|
Sestri
Ponente
|
2118
|
1047
|
Voltri
|
1664
|
1218
|
Per
le ancora inesperte associazioni operaie, povere di mezzi finanziari
e osteggiate dalle autorità di governo, è un clamoroso successo.
“Il Cittadino” tira così le somme della prima vera prova
elettorale a cui abbia mai preso parte in modo organizzato il
movimento operaio:
«
E' pertanto ai comuni rurali del Collegio che è d'uopo rivolgere
tutta la cura dei comitati, ed usare di tutte le possibili influenze
per infiltrare lo spirito nuovo in quelle buone e semplici
popolazioni, vittime per lo più della propria ignoranza abilmente
sfruttata dal clero, dai ricchi feudatari e dai di costoro agenti
(…). E per adempiere adeguatamente a questo imprescindibile compito
della democrazia, occorre non aspettare il tempo indetto per le
elezioni, che a poco o nulla approderebbe allora ogni sforzo nostro,
ma imitando in ciò i nostri avversari, è cosa indispensabile,
urgente che i liberali si diano pensiero degli elettori delle
campagne e mettano molta cura e diligenza nel promuovere e sviluppare
l'educazione politica, colla fondazione di associazioni operaie, di
club di divertimento e di istruzione e simili istituzioni, le quali
tendano specialmente ad avvicinare ed affratellare la gioventù,
sottraendola al pernicioso dominio del prete». (11)
Note
1)
“Il Cittadino” del 15/2/1882
2)
“Il Cittadino” del 14/2/1882
3)
“Il Cittadino” del 3/3/1882
4)
“Il Cittadino” del 6/3/1882
5)
“Il Cittadino” del 28/2/1882
6)
“Il Cittadino” del 2/8/1882
7)
“Il Cittadino” del 18/4/1882
8)
“Il Cittadino” del 14/7/1882
9)
“Il Cittadino” del 1/8/1882
10)
“Il Cittadino” del 18/10/1882
11)
“Il Cittadino” del 8/11/1882
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