TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 24 dicembre 2017

L'Olandese


Auguri di Buone Feste a tutti gli Amici di Vento Largo con questa piccola storia.

Giorgio Amico

L'Olandese

Lo chiamavano l'Olandese, perchè da giovane era andato a lavorare in Olanda. Non si era mai davvero capito se fosse un semplice soprannome, un'usanza antica in quella valle, o una presa in giro. Qualunque cosa fosse, per tutti era l'Olandese, e questo bastava.

Si ostinava a lavorare quattro fasce di terra pietrosa. In alto sopra il paese. Non lo faceva più nessuno ormai. E questo aggiungeva un elemento di stranezza a quel nome che si portava dietro.

L''Olandeise, quellu du Cian de prie. Dicevano in paese. E la cosa suonava strana anche per chi lì era nato e cresciuto. Strana e ridicola. Che senso aveva continuare ad affannarsi su una terra ingrata che non rendeva nulla? Meglio scendere a valle, vivere in mezzo agli altri e non in alto, tra quei monti, come un eremita. A meno che uno non fosse fuori di testa o non avesse qualcosa da nascondere.

Su questo il paese si divideva. Solo i vecchi non si ponevano domande. Seduti in fronte all'ultimo sole sotto i platani della piazza parlavano fra loro di tutto e di niente. Guardavano venire la sera con occhi che avevano visto tutto. Guerra e miseria. Una fame antica e tenace e poi il tempo del consumo e dello spreco. Nulla poteva stupirli, neppure l'Olandese, quello du Cian de prie.

Come al solito, scese in paese che il giorno era finito da un pezzo. Ad una svolta della strada gli apparve il mare, lontano al termine della valle, al fondo della piana, dopo le luci gialle del casello dell'autostrada. Ritrasse subito lo sguardo. Troppe luci. Troppa gente. Troppo rumore. Troppe case. Una costa distrutta, perduta per sempre. Un altro mondo.

Parcheggiò la macchina nello spiazzo asfaltato sotto le vecchie case del borgo e salì per il vicolo stretto che portava alla piazzetta dove c'era l'unico caffè del paese. La sera era calda, senza un alito di vento. Attraversò la piazza lentamente, guardando davanti a sé.

Bona, Olandeise. Qualcuno lo salutò. Rispose con un cenno del capo.

Il bar era caldo e accogliente. Un tempo, forse, era stato una stalla o magari una cantina. Un soffitto a volta di mattoni ricordava quei tempi. In un angolo lo sfarfallio delle luci su un albero di plastica ricordavano che si era a Natale. Una ragazza in minigonna si mosse da dietro il banco.

Il solito, disse lui, senza guardarla.

Il vino era forte e aspro. Sapeva di salmastro e di vento, i sapori di quella terra.

Beveva lentamente, assorto nei suoi pensieri. Pensava a quel paese, a come era stato e a cosa era diventato. Un non luogo, senza più anima né storia. Quattro case di pietra meta in estate di turisti frettolosi e distratti. Eppure non era stato sempre così. Quelle antiche pietre avevano visto tempi migliori. Anni di miseria, certo, ma anche di vita.

Finì il suo vino. Poi andò al banco a pagare.

Attraversò la piazza e imboccò il vecchio vicolo che portava al parcheggio. Salì in macchina, mise in moto e riprese la strada di casa che si inerpicava con tornanti stretti lungo la montagna. Alla prima svolta, in alto, sopra il paese, gli apparve una luna bianchissima.

Appoggiato all'uscio di casa, l'Olandese fumava. Una leggera brezza saliva dal mare e increspava i rami degli ulivi. Pace in terra agli uomini di buona volontà, annunciava l'angelo nei presepi della sua infanzia. Una promessa o forse solo una speranza, a lenire la quotidiana fatica del vivere. Generazioni intere ci si erano aggrappate con fede.

In basso i latrati di un cane squarciavano il silenzio della valle. Buon Natale anche a te, pensò. Il mare lontano era una lastra d'ardesia striata d'argento. La notte era calda. Non sembrava neppure inverno.



La crisi degli olivi in Boine e Biamonti


Francesco Biamonti e Giovanni Boine di fronte alla crisi della civiltà dell'olivo. Seconda e ultima parte del nostro intervento al Convegno di San Biagio della Cima.

La crisi degli olivi in Boine e Biamonti

La crisi della monocoltura dell'ulivo viene a maturazione alla fine dell'Ottocento quando la rendita si annulla e gli olivicoltori, soprattutto i più piccoli, lavorano ormai in passivo. Una crisi devastante se nel 1883 Agostino Bertani nella sua monografia sulla Liguria avvicina la situazione dei contadini della provincia di Porto Maurizio a quella poverissima dei contadini della Basilicata. Ne risulterà l'inizio di un forte flusso migratorio verso la Francia, in particolare il Dipartimento delle Alpi Marittime e alcune città portuali come Marsiglia e Tolone.15 Un passato ancora tanto vivo nel ricordo da diventare addirittura norma di vita per i personaggi di Biamonti:

«Mai parlar male della Francia: era uno dei suoi principi. Intere generazioni di Luvaira e di Aùrno erano andate a togliersi la fame, fame e tante altre cose, sul porto di Marsiglia. Scaricatori di bastimenti, camallavano nel mistral».16

É con questa realtà che si confronta Boine nel suo scritto del 1911. La “crisi degli olivi” è letta come la crisi di un’intera nazione, una crisi morale prima che materiale

«Gli oliveti di Puglia e di Calabria, gli oliveti di Grecia, di Turchia, di Africa, di Spagna, fan olio a cateratte. Olio denso, olio grasso, olio torbido, od olio aspro e verde. (…) I frantoi in vallata non lavorano più: son chiusi in gran parte, ma i magazzini dei negozianti al mare, le giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti al mare son pieni, son colmi (…). E carri e botti e grue e facchini rubesti, e i doks sul porto, ed in porto le navi ed al porto le calate di pietre squadrate son unte, odorano, fumano d’olio, grondano l’olio. E denaro e denaro (…) denaro a milioni».17


Nelle sue pagine il nuovo ordine del capitale e dei mercati si sovrappone al vecchio ordine austero dei contadini, curvi sulla terra a fare del lavoro una preghiera. Una mutazione violenta che lo coinvolge profondamente perchè rischia di mandare in frantumi quello che è diventato un punto di riferimento fondamentale e non solo a livello letterario:

« Le letture, i discorsi, i miei studi – scrive in una lettera a Alessandro Casati del 13 febbraio 1910 - li vedo ora in rapporto, solo in rapporto alle cose sode che faccio, a questo paese a cui voglio bene ed in cui resisterò fin che mi dura la vita».18

Non sappiamo quanto Boine sia davvero consapevole della portata gigantesca dei processi in atto (mondializzazione dell'economia, sviluppo del capitale finanziario, prevalenza dell'esportazione dei capitali rispetto all'esportazione delle merci) che oltre a travolgere in Italia il sistema di mediazioni politico-sociali del giolittismo, prepara in tutta Europa la catastrofe della prima guerra mondiale. La sua ci pare una reazione più emotiva che politica ad un fenomeno di cui fatica a cogliere cause e prospettive. Non sappiamo neppure se nel 1919-20 alla prova del fuoco per la democrazia liberale egli si sarebbe schierato, come il grosso dei Vociani, con il fascismo. La sua prematura scomparsa nel maggio 1917, proprio agli inizi del “secolo breve”, lascia queste domande senza risposta, anche se il tono quasi rabbioso e l'antisocialismo esasperato delle sue pagine suscitano non poche perplessità. Così come nel 1914 un interventismo che nella guerra vede l'antidoto salutare alla disgregazione morale e sociale dell'Italia giolittiana e la condizione fondamentale della rinascita del Paese. Una ultrareazionaria “Religione della Patria” teorizzata nei Discorsi militari del 1915 dove la condizione del cittadino si identifica con quella del soldato e l'accettazione volontaria della dura disciplina della trincea diventa la forma più alta di libertà possibile.19


Uomo di confine, Boine si colloca tra due epoche e scompare proprio nel momento in cui il vecchio mondo muore e uno nuovo sta, forse, faticosamente e tra travagli dolorosi per vedere la luce. Il suo è un confine temporale, aperto ancora alla speranza. Biamonti, che scrive quando il secolo breve è tramontato, che è stato testimone dell'orrore di Auschwitz e di Hiroshima, che ha visto bruciarsi la speranza dell'Ottobre, non ha più illusioni. Il paesaggio degli ulivi non può essere più come per Boine un qualcosa a cui aggrapparsi. La sua è una affermazione netta, di quelle che non lasciano margini di ripensamento:

Non credo che il paesaggio salvi, anche perchè se il tempo è malato anche lo spazio lo è. Tempo e spazio sono, oggi, entrambi malati. (…) Si lavora su un terreno che frana, su una luce che diventa ombra, su un azzurro che diventa nero. Non esiste più nessuna certezza.20

Il confine di Biamonti non è temporale, non separa più come in Boine un prima idealizzato da un dopo degradato, ma connota solo un presente lacerato da cui non si intravvedono uscite:

Vi sono due Ligurie – pensava – una costiera con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera; io sto sul confine”.21

Gli olivi, che con la loro onnipresenza hanno creato un paesaggio, sono ormai vecchi e malati, “rami malandati, erbaccio e su per i tronchi, nei loro squarci, licheni e ragnateli”.22 un luogo di “pace precaria... assediato dai rovi”.23 Una realtà che si può rappresentare solo al crepuscolo, perchè la “piena luce ne rende visibile l'aspetto malato”.24 Solo nel ricordo gli olivi possono mantenere intatta quella luminosità interiore che un tempo li rendeva sacri agli occhi degli uomini:

Gli venivano in mente gli ulivi, dalle fronde quasi minerali e dai tronchi quasi umani. Risplendevano dentro, e sembravano parlare nella luce del mattino”,25 scrive Biamonti riecheggiando non sappiamo quanto consapevolmente un versetto bellissimo del Corano che vede nella luminosità dell'olivo il simbolo più puro della luce divina:

Dio è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce”.26



In un mondo desacralizzato e privo di speranza gli oliveti da luoghi di luce si sono trasformati in luoghi d'ombra. Non a caso in Vento largo immediatamente dopo la descrizione dell'oliveto malato Biamonti nota come:

Se ne andavano anche i segni cristiani: madonnette sbreccate e rose, e croci, sui bricchi, inclinate dal vento”.27

Il messaggio è chiaro: oliveti e simboli cristiani hanno qualcosa in comune, entrambi rimandano ad una concezione tradizionale della vita fondata sul sacro che ormai non ha più senso alcuno. Nonostante il pessimismo di fondo, Biamonti riprende qui, pur rifiutandone il tono misticheggiante, la lezione di Boine: gli oliveti sono davvero la cattedrale dei liguri, il luogo del raccoglimento e della preghiera. Edoardo, il protagonista di Attesa sul mare, prima di imbarcarsi per una pericolosa navigazione sente il bisogno di tornare per un'ultima volta nei suoi oliveti ormai in abbandono:

Gli vennero in mente i suoi ulivi e si propose di andarli a vedere prima di ripartire. Avrebbe voluto avere con loro un dialogo, divenire davanti a loro un uomo di preghiera”.28

Un sogno impossibile, un desiderio immediatamente frustrato dalla realtà:

Fece un giro largo, ma al suo oliveto non riuscì ad arrivare, il sentiero era invaso dalle arastre. Lo guardò dal basso: era quasi un fantasma accampato nell'aria. Forse era meglio non avvicinarsi , non vedere il male che aveva addosso”.29

Francesco Biamonti non ha illusioni. Quella di Edoardo è la debolezza di un attimo. Non si può tornare indietro. Da sogni di pietra le fasce ulivate sono diventate fantasmi nell'aria. “Gli ulivi sono alla sera... la sera di un lungo giorno”,30 dice con amaro realismo il protagonista di Vento largo. Siamo nel 1991, due anni prima era crollato il muro di Berlino, meglio non si sarebbe potuto descrivere il tramonto definitivo di un secolo che aveva visto il mondo cambiare aspetto almeno due volte.



15. Augusta Molinari, Storia e storie di emigrazione dal Ponente ligure. Alcuni percorsi di ricerca, Recherches Régionales, 132, 1995 – 3ème trimestre, p.110.
16. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., pp. 88-89.
17. Giovanni Boine, La crisi degli olivi in Liguria, cit., p. 16.
18. Giovanni Boine, Carteggio, III, A cura di Margherita Marchione - S. Eugene Scalia, Edizioni di storia e Letteratura, Roma, 1977 , p. 359.
19. Per un'analisi esaustiva di questo aspetto del pensiero di Boine cfr. Ugo Perolino, «Esercito e nazione nei Discorsi militari di Giovanni Boine», Italies, 19|2015, pp. 57-66.
20. Paola Mallone, “Il paesaggio è una compensazione”, De Ferrari, Genova, 2001, p.51.
21. Francesco Biamonti, Le parole e la notte, Einaudi, Torino, 1998, p. 90.
22. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.9.
23. Ivi, p. 7.
24. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, cit., p.19.
25. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p. 21.
26. È il versetto 35 della sura 24 del Corano, quella della “Luce”, ripreso e accostato a Biamonti da Costanza Ferrini. Costanza Ferrini, Pour une littérature de l'olivier, La pensèe de midi, 2003/2 (N°10), pp.136-140.
27. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.11.
28. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p.25.
29. Ivi, p. 55

30. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.69.

sabato 23 dicembre 2017

Biamonti, Boine e gli olivi cattedrale dei Liguri


Biamonti e Boine come testimoni della crisi della civiltà dell'olivo. Prima parte del nostro intervento al Convegno su Francesco Biamonti tenutosi recentemente a San Biagio della Cima.

Giorgio Amico

Biamonti, Boine e gli olivi cattedrale dei Liguri

In navigazione al largo della Sardegna su una nave carica d'armi diretta ad un incerto approdo Edoardo, il protagonista di “Attesa sul mare”, guarda un cielo coperto di stelle che gli ricorda il paesaggio del suo paese:

Giove splendeva enorme, ma come franto, i satelliti stavano passando sopra il disco. Le stelle intorno sembravano minerali perduti. Smise di guardare per non soccombere ad un senso di malinconia. Pensò al suo paese, agli ulivi dei suoi costoni, che s'accordavano alla maestà del cosmo, quasi sogni di pietra”.1

E “sogni di pietra” erano stati per Boine gli oliveti delle vallate di Imperia. Sogni concreti, duri e tenaci, come concreti e tenaci erano gli uomini che li avevano eretti, anno dopo anno, generazione dopo generazione. Sogni impastati di fatica e di sudore a divenire preghiera, salda fiducia nel futuro. Testimonianza di un passaggio sulla terra che doveva lasciare una traccia indelebile fatta di olivi e di pietra. La vera cattedrale dei Liguri, secondo Boine attribuzione di significato ad una vita aspra, interamente compresa in un lavoro senza soste, ad una quotidiana fatica fondata su di un'etica del sacrificio che per quegli uomini assumeva quasi carattere di preghiera:

Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza...”.2


Una visione religiosa, quasi mistica, della vita che non appartiene a Biamonti che già nel suo primo romanzo riprende quasi alla lettera il testo boiniano, ma spogliandolo di qualsiasi afflato religioso:

Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed uniti all'idea di questa fatica, da sola insostenibile. E Morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile”.3

Quella che per Boine è prima di tutto “la coscienza d'una razza, la forza di una razza, la sicura religione della razza”4 diventa in Biamonti soprattutto pena, sofferenza, autoillusione. Nulla può davvero compensare la feroce fatica del vivere. Se “dagli ulivi e dal mare di Liguria Boine si apre all'ascesi e al misticismo delle terre di Spagna”,5 per Biamonti, cresciuto alla scuola di Camus e di Benjamin, non esistono vie di fuga praticabili. Boine si sente parte della narrazione, partecipe di quel mondo di cui lamenta la crisi. Il suo articolo sulla crisi degli olivi in Liguria vuole in qualche modo essere anche un manifesto politico, una chiamata alla resistenza e alla lotta. Per Biamonti, che pare assistere dal di fuori alla catastrofe in corso, quella storia è finita, quel mondo è in piena disgregazione, non c'è più nulla da salvare, se non forse il ricordo.

Qui da noi, sulla costa ligure occidentale, è morta la civiltà dell'olivo (…). Non c'è più niente. E un'altra civiltà non s'intravvede”.6

Gli oliveti abbandonati non ricordano più “l'opera trionfale” dei padri, ma un un rassegnato adattarsi ad una condizione umana la cui durezza neppure l'azzurro luminoso del cielo riesce più a mitigare. Solo la fatica e una pazienza che, generazione dopo generazione, si trasforma ineluttabilmente in una sorta di fatalistica rassegnazione:

Ce n'é voluta di pazienza, pazienza nell'azzurro, per innalzare tutti questi muri”.7 “Generazioni dei miei vi si sono consumate le braccia”.8


Un mito moderno: la civiltà degli olivi

Spesso nei suoi articoli e nelle interviste Biamonti parla di una millenaria civiltà dell'olivo, addirittura “greca e fenicia”, probabilmente inconsapevole di riecheggiare un mito moderno. Certo, gli ulivi in Liguria ci sono da tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico da sempre. Ma la civiltà di cui vediamo i resti nella rete di muretti a secco che ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea di oliveti che sommergono le nostre vallate, quella no, non è millenaria, i Fenici e i Greci non c'entrano molto. E neppure i Benedettini, così tante volte citati a sproposito. Quella degli oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che, Boine non ce ne voglia, anche in Liguria si presenta fin dal Quattrocento sotto il segno di un capitale mercantile che cerca nel ritorno alla terra una possibilità di valorizzazione che la crisi del commercio mediterraneo, causata dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e dal controllo turco del Levante, non offre più. Processi ben descritti da Massimo Quaini nel suo studio seminale sulla storia del paesaggio agrario in Liguria, apparso nei primi anni Settanta nella rivista della Società Ligure di Storia Patria.

Sulla base di una grande mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi del Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua. Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande monastero di Bobbio dove l'approvigionamento d'olio per gli usi liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del Garda.9

Perse le colonie d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le grandi famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e dall'altro tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle campagne ponentine totalmente inserita nel più generale processo di riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee così ben studiato da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo diventa “coltura esclusiva”. Una società, basata sull'uso promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche del mercato. 

Un processo che non sarà indolore, ne deriverà la disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle vallate. Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi Marittime e da Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”. Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni, all'abolizione dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con campagne di devozione e il richiamo alla fede. Uno dopo l'altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una cinquantina. Valle dopo valle l'arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia.10 

Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare.

Ma non muta solo il paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta l'atteggiamento verso i pastori transumanti, signori delle vie di crinale, questi si rappresentanti la vera civiltà millennaria della Liguria di Ponente, di cui si regolamenta in modo sempre più restrittivo il passaggio. Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis” causato dalle pecore e dalle capre.11

Dopo secoli di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba”12 secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime. Una chiusura brutale che sedimenta echi tanto profondi da riemergere all'improvviso in tutta la sua forza nell'Angelo di Avrigue, nell'episodio citatissimo dell'incontro del protagonista Gregorio con il vecchio pastore occitano:

«Gregorio lo invitò a scendere negli ulivi, ché tanto erano abbandonati: danno non ne poteva fare. Ma il pastore negò con la mano. I contadini non amavano “lou pastre”, aggiunse. Al pastore, a “lou pastre”, disse rassegnato, erano destinati solo pietrischi e terreni magri, o quelli rocciosi sul mare, ove cresceva un'erba dura come spago e cespugli che nessuna bestia gradiva».13


Un mercato in espansione per almeno due secoli. Nel giro di cinquant’anni, tra il Settecento e l’Ottocento, solo nella Valle di Oneglia vennero impiantate 250.000 nuove piante di olivo, destinate soprattutto ad alimentare la crescente produzione industriale di saponi nell'area di Marsiglia. Una vita felice tutto sommato breve, chè già dagli ultimi anni del Settecento fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno rigoglio, ma interessa anche noi perchè precorre nelle argomentazioni molte tesi degli attuali avversari di una monocultura manifestazione di una politica neo-colonialista subordinata alle scelte delle multinazionali. 

Discussione frutto dei primi segni evidenti della crisi del settore, riflessa anche nel sentire comune delle popolazione delle vallate. Ne è autorevole interprete Giovanni Ruffini che, nelle prime pagine del Lorenzo Benoni, libro straordinario per comprendere Genova e il Ponente del primo Ottocento, fa esprimere al suo giovanissimo protagonista tutta l'insofferenza provata per la centralità invadente che gli olivi hanno ormai assunto non solo nel territorio, ma nella vita stessa delle persone. Per il rivoluzionario Ruffini l'olivo diventa il simbolo stesso del carattere autocratico, conservatore e reazionario, dell'ancien régime:

«Mio zio, sulla sessantina, era un povero spirito, ma in fondo una pasta d'uomo più buona che cattiva: il quale passava una metà dell'anno in fare grandi prognostici sulle raccolte, e l'altra metà in deplorare le fallite speranze, oscillando così tra una sconfinata fiducia ed una assoluta disperazione. La sola idea distinta che avesse nel cervello erano le ulive; il solo interesse della sua vita le ulive; il solo tema dei suoi discorsi, in casa e fuori, le ulive. Ulive d'ogni forma e qualità, salate, secche, indolcite, ingombravano la tavola a desinare e a cena; non v'era piatto che non avesse una guarnizione d'ulive. Tutte le passeggiate sue, nelle quali io ero il compagno obbligato, non avevano altro scopo che di osservare le ulive sulle piante e la loro maturazione. In una parte dell'anno si camminava addirittura sopra strati d'ulive all'altezza di un piede, stese sul pavimento di un'ampia sala della casa. L'aria stessa che si respirava, era pregna di ulive».14

1. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994, p. 47.
2. Giovanni Boine, La crisi degli olivi in Liguria, a cura di Paolo Morganti, Milano, 2010, p. 14.
3. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983, p. 4.
4. Giovanni Boine, cit., p. 15.
5. Francesco Biamonti, La terra decaduta, in La città di Boine, Imperia, 1987, p. 131.
6. Francesco Biamonti, L'angelo della distruzione e i popoli migranti, in Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008, p. 137.
7. Francesco Biamonti, Vento largo, Torino, Einaudi, 1991, p.27.
8. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p.53.
9. Massimo Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria, Atti della Società Ligure di Storia Patria, XII (LXXXVI),1972, II, p. 254.
10. Ivan Arnaldi, Nostra Signora di Lampedusa, Leonardo, Milano, 1990, pp. 95-96.
11. Ivi, p. 124.
12. Marco Aime, Rubare l'erba, Milano, Ponte alle Grazie, 2011.
13. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, cit., p. 53.
14. Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni, ovvero scene della vita di un italiano, Liber Liber, edizione elettronica dell'8 maggio 2007, p. 4.

continua


martedì 19 dicembre 2017

Il fascismo nell'Italia repubblicana



La presenza politica dei fascisti è stata una costante nella storia repubblicana, fin dall'estate del 1945. Altrettanto costante il loro peso elettorale, stabile attorno ad un 5%. Il vero problema è cosa accadrà in una situazione diversissima dal passato in reazione alla crisi dei partiti, al populismo crescente e al fenomeno inedito di una immigrazione di massa. Un mix che può diventare esplosivo.

Giorgio Amico

Per non dimenticare. Il fascismo nell'Italia repubblicana dalla nascita del MSI alle stragi degli anni '70

I recenti avvenimenti che hanno visto militanti di Forza Nuova e Casa Pound, protagonisti di azioni intimidatorie o xenofobe pensate in funzione delle ormai prossime elezioni politiche del 2018, non sono una novità nella storia della Repubblica. Il neofascismo in Italia fin dai suoi inizi si presenta sotto il duplice aspetto del manganello e del doppiopetto: l'azione clandestina terroristica e squadrista da un lato, accompagnata al tentativo di inserimento con pari dignità delle altre forze politiche nel quadro istituzionale dall'altro.

Immediatamente dopo il 25 aprile 1945 tra gli ex-combattenti della RSI nascono numerosi gruppi clandestini, soprattutto a Milano e a Roma, che si propongono, più che una improbabile conquista del potere, di dimostrare con una serie di azioni spettacolari che il fascismo non è morto. L'organizzazione più importante è quella dei Fasci di Azione Rivoluzionaria, gruppo politico-militare clandestino attivo soprattutto a Roma, guidato da Pino Romualdi, una delle figure chiave del neofascismo. Tra il 1946 e il 1951 i FAR compiono decine di attentati a Roma, Napoli, Milano, Brescia, contro sedi dei partiti di sinistra e del sindacato, case del popolo, luoghi dove si svolgono attività antifasciste (librerie, cinema, teatri).


La nascita del MSI

Ma non c'è solo l'attività militare. I fascisti sono fin dall'immediato dopoguerra attivissimi anche sul piano politico. In vista del referendum del 2 giugno 1946, che deve decidere la natura monarchica o repubblicana dello Stato, vengono presi contatti con esponenti dei partiti antifascisti per trattare la neutralità elettorale degli ex-repubblichini in cambio di una larga amnistia e dell'accettazione di un ritorno ad una attività politica legale. A questo scopo Romualdi tratta con uomini di primo piano della DC, del PSI e dell'area liberale, mentre Stanis Ruinas si incontra addirittura con il vicesegretario del PCI Luigi Longo. 

E' una vera e propria richiesta di legittimazione, in attesa della quale i fascisti iniziano a riorganizzarsi all'interno della formazione politica dell' “Uomo Qualunque”, il movimento fondato nell‟agosto 1945 dall'ex commediografo Gugliemo Giannini che si caratterizza per l'insofferenza verso i partiti (considerati tutti ugualmente corrotti), il rifiuto della politica istituzionale (sostituita dall'appello alla piazza), la denigrazione della Resistenza e dell'antifascismo, il rifiuto di ogni distinzione fra destra e sinistra. Insomma la prima manifestazione di un sentimento antipolitico , populista e protestatario, che, riassorbito negli anni Cinquanta in nome dell'anticomunismo dal sistema di potere DC, riappare alla luce con la crisi della prima Repubblica e l'instabilità politica degli ultimi trent'anni, in varie forme (dipietrismo, leghismo, grillismo) ma sempre nel segno di una sostanziale acquiescenza nei confronti dell'estrema destra.

Il 22 giugno 1946, pochi giorni dopo la nascita della Repubblica, Togliatti vara l'amnistia per migliaia di ex-repubblichini, compresi gli autori di atroci crimini di guerra tra cui il tristemente noto Luciano Luberti, il “boia di Albenga”, autore di oltre duecento omicidi. “L'amnistia – si legge in una pubblicazione della casa editrice di estrema destra il “Settimo sigillo” – fu l'elemento decisivo del processo di istituzionalizzazione del neofascismo verso la nascita del nuovo partito”.

Partito che viene alla luce a Roma nel dicembre 1946 con il nome di Movimento Sociale Italiano e che si richiama esplicitamente all'esperienza ideale e storica della Repubblica Sociale, ma che sceglie fin dal primo Congresso la legalità. Scelta che non impedisce però al nuovo partito, che già nelle elezioni dell'ottobre 1947 per il consiglio comunale di Roma ottiene oltre il 4% dei voti e 3 consiglieri, di continuare a mantenere stretti rapporti con i gruppi clandestini. Ufficialmente il MSI si dichiara contro l'uso della violenza, ma non scoraggia chi, gruppi interi o singoli membri del partito, intraprende azioni di tipo squadristico o terroristico prevalentemente contro associazioni partigiane e partiti della sinistra. 

Il partito neofascista fin da subito si inserisce nel clima della guerra fredda e della politica di contenimento del comunismo finanziata e coordinata dagli USA tramite gli apparati della CIA e della NATO. Nell'agosto 1952 si tiene indisturbato il primo campo paramilitare della gioventù missina, significativamente denominato “Ordine Nuovo”, un nome che ritornerà frequentemente nella storia dell'eversione nera e dello stragismo degli anni Settanta.


Un polo escluso?

A partire dalla fine degli anni Ottanta nell'ambito della politica di sdoganamento della destra fascista che porterà poi alla trasformazione del MSI in Alleanza Nazionale e all'assunzione di responsabilità di governo di esponenti ex-missini nell'ambito del “Polo delle libertà” berlusconiano, si inizia a parlare dei fascisti come di“esuli in patria” e del MSI come di “polo escluso” dalla vita politica dell'Italia repubblicana. Un'operazione ideologica, nonostante la serietà dei contributi di studiosi come Piero Ignazi, perchè in realtà, nonostante l'apparente marginalità, il MSI per tutto l'arco degli anni Cinquanta riesce a condizionare in più occasioni il quadro politico e istituzionale, consentendo, fra il 1953 e il 1960, con i propri voti la nascita di ben quattro governi a guida democristiana (Pella, Zoli, Segni e Tambroni), nonché l'elezione nel 1955 del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Successo bissato poi nel 1972 con Giovanni Leone. 

Favori che non restano privi di contropartite importanti, come la non applicazione della Legge Scelba del 1952 sulla riorganizzazione del partito fascista e l'occhio di riguardo degli apparati di sicurezza e del Ministero degli Interni verso le attività eversive e violente dei gruppi giovanili missini e di organizzazioni come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo esterne al MSI, ma di fatto legate a filo doppio alla politica del partito.

La politica di graduale inserimento del MSI negli assetti di potere dei governi centristi a guida DC ha una battuta d'arresto solo con la sconfitta del governo Tambroni, nato con il sostegno determinante dei parlamentari missini, costretto alle dimissioni dalla rivolta di Genova del luglio 1960. La stagione dei governi di centro-sinistra, pure non priva di momenti di tensione dovuti a strategie occulte interne e internazionali (vedi nel 1964 il progettato golpe De Lorenzo e nel 1965 il Convegno all'Hotel Parco dei Principi a Roma sulla “guerra rivoluzionaria”, vero incubatore della strategia della tensione e dello stragismo), vede un ripiegamento del MSI su se stesso.

    1968 Roma: assalto squadrista all'Università occupata

Gli anni delle stragi

Gli anni Sessanta segnano dunque la marginalizzazione politica dell'estrema destra e il sostanziale fallimento della strategia del “doppio petto”, rimpiazzata sotto la nuova direzione di Giorgio Almirante dal ritorno al manganello. Sono gli anni in cui in nome dell'anticomunismo vengono stretti duraturi legami con apparati dei Servizi segreti e delle Forze Armate in funzione del condizionamento da destra della politica italiana sia sul versante di governo (blocco delle istanze riformistiche del PSI nenniano) sia su quello dell'opposizione di sinistra (drastico contenimento dell'espansione elettorale del PCI).

Una strategia della tensione, sintetizzata nel motto “destabilizzare per stabilizzare”, mirante a creare un forte sentimento di insicurezza nell'opinione pubblica in modo da portare consensi alle forze moderate, che sboccherà dopo il biennio 1968-69 delle lotte studentesche e operaie nella politica delle stragi: da Piazza Fontana a Milano nel 1969 (17 morti) alla Stazione di Bologna nel 1980 (85 morti), passando nel 1974 per gli attentati del treno Italicus (12 morti) e di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e innumerevoli altri eventi minori fra cui le bombe di Savona del 1974/75.

Un progetto eversivo che solo la mobilitazione popolare, democratica e di massa seppe sconfiggere grazie soprattutto all'unità e alle fermezza delle forze antifasciste. Una mobilitazione dal basso che, come nel caso delle bombe di Savona, si rivelò il vero antidoto al diffondersi della paura.

Da: I Resistenti n°3/2017


mercoledì 13 dicembre 2017

Andrea Corsiglia, "Noi eravamo tutto"


Mercoledì 20 dicembre ore 18
Libreria Ubik Savona
proiezione del documentario
"Noi eravamo tutto"
di Andrea Corsiglia

Autobiografia della Compagnia portuale di Savona attraverso le voci dei suoi camalli.
Partecipa Diego Scarponi Goz Scotto. A cura del Laboratorio Audiovisivi Buster Keaton, in collaborazione con gargagnanfilm.


Racconti densi di vita e di lavoro, di solidarietà e di libertà: sono le parole dei camalli che raccontano il loro mondo.

Un mondo capovolto dove non ci sono capi o superiori ma solo compagni di squadra con i quali condividere rischio, fatica e soddisfazioni: un mondo dove non ci sente oppressi ma liberi.

Quello che le voci dei portuali non ci dicono lo fanno i documenti e questi ci portano indietro al fino 1822, quando un editto del Comune di Savona annuncia la nascita della Compagnia di San Venanzio. É da qui che tutto ha inizio, da quell’editto, dove stanno scritte parole che diverranno sacre per i camalli: i guadagni del lavoro vanno equamente distribuiti fra i lavoratori.

Attraverso le decine di testimonianze raccolte, il libro racconta la vita del porto di Savona in un saggio di storia orale vivo e partecipe delle sorti dei portuali savonesi.



Dalla prefazione di Marco Bellonotto:


«Ecco allora che leggendo il libro di Andrea Corsiglia entriamo nelle stive delle navi durante le operazioni di carico e scarico; ci muoviamo tra cordami, bighi, imbragature, gru, e marinai provenienti da tutto il mondo; assistiamo alle prime giornate di lavoro dei giovanissimi portuali (non sono pochi fra loro ad avere cominciato a frequentare le banchine a quindici anni), veniamo a conoscere i rischi di un mestiere molto pericoloso... ma non c'è nulla di impressionistico, anzi il lavoro di Corsiglia smentisce, grazie a una ricostruzione puntale quanto efficace, luoghi comuni e stereotipi».

Cinema dipinto


martedì 5 dicembre 2017

Un ribelle concreto. Ricordo di Arrigo Cervetto.


Ristampato il libro di memorie di Giovanni Burzio che ricostruisce la realtà savonese dal dopoguerra agli anni '60. In appendice anche un nostro ricordo di un personaggio già allora centrale nella vita culturale e politica della città.

Giorgio Amico

Un ribelle concreto

Cresciuto nell'Italia fascista, giovanissimo partigiano, nei primi mesi del dopoguerra funzionario del PCI, “uomo in rivolta” secondo la felice espressione di Camus, militante anarchico alla scuola di Marzocchi (altra grande figura di quegli anni), fondatore poi con Pier Carlo Masini dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) che mescolavano pensiero libertario e marxismo, il giovane Arrigo Cervetto incarna quanto di più vivo abbia espresso una Savona operaia in cui si intravvedevano già i segni di una crisi che avrebbe nello spazio di due decenni portato alla pressochè totale deindustrializzazione e alla città amorfa di oggi, del tutto priva di un'identità o, forse meglio, di un'anima.

Operaio metallurgico, licenziato dall'ILVA, in giro per l'Italia nel duplice ruolo di rappresentante della Casa Editrice Einaudi e di militante libertario incaricato di reggere le fila piuttosto fragili dei GAAP, Cervetto intrattiene con la sua città un rapporto intensissimo di amore-odio.

«Passavo mesi tra una città e l'altra. Mi fermavo solo quando l'organizzazione non aveva più soldi per sostenere le spese di viaggio. Ritornavo, allora, a Savona maledicendo tutto. Ingenerosamente me la prendevo anche con una città che non ha mai ostentato bellezze che non ha ma che può essere orgogliosa del suo vento che pulisce le colline e il mare e rende gli uomini concreti, fattivamente e meschinamente concreti».1

É un passo dei Quaderni in cui Cervetto ricostruisce il suo percorso di formazione politica negli anni Cinquanta, offrendo di sè un'immagine sorprendentemente calda e ricca di umanità, assai lontana dalla figura asettica di teorico marxista e di costruttore del “Partito” che si è venuta affermando sempre più dopo la sua morte in Italia e non solo.

Insomma, l'immagine di un giovane che sta cercando con passione di trovare la sua strada, che crede fermamente di aver qualcosa di importante da dire, che, come annota in un altro passaggio, «serve a qualcosa, che ha da parlare non più ai portici di Savona».2

Certo, nella Savona di quegli anni, dove l'egemonia politica e culturale di un PCI ancora largamente stalinista si faceva sentire spesso anche con modalità non prive di una certa rudezza proletaria, il ruolo di oppositore non era facile e concreto era il rischio di svolgere una funzione di pura testimonianza, insomma davvero di predicare nel deserto.


Eppure quegli anni restano tra i più ricchi e intereressanti dell'intero excursus teorico cervettiano. Nel periodo 1952-1960 appaiono una serie di lavori che Cervetto compie per conto del neonato Istituto Storico Feltrinelli dedicati a ricostruire la storia del movimento operaio savonese. Studi pubblicati poi da quelle che sono le più prestigiose riviste della sinistra di allora (Rivista Storica del Socialismo, Movimento Operaio e Contadino in Liguria, Movimento Operaio).

In questi scritti Cervetto si applica a ricostruire la storia della sua città, rompendo drasticamente con una storiografia locale ossificata per la quale la storia di Savona finisce con il periodo aureo del prefetto Chabrol. Nelle ricerche del trentenne Cervetto, invece, vere protagoniste della vita cittadina diventano le classi subalterne, quelle masse senza storia a cui egli con rigore cerca di ridare un volto e un'identità: i contadini inurbati venuti dall'entroterra e dal basso Piemonte a lavorare nelle fabbriche, i camalli del porto, gli artigiani eredi di una storia secolare di libere corporazioni e ora costruttori di un mutalismo di tipo nuovo che si rifà a Mazzini e Bakunin.

Antagonista” nel senso più elevato del termine, il giovane Cervetto sa descrivere in pagine di grande efficacia anche narrativa la quotidiana fatica del vivere di quegli uomini e quelle donne, la loro fame di dignità e libertà, consapevole, da operaio figlio di operai, che la lotta proletaria è stata fin dai suoi esordi lotta per il pane, ma anche (e forse soprattutto) per le rose.

    Mirco Bottero

Un impegno di ricerca e di studio che diventa poi confronto di idee negli affollati e partecipati incontri del Circolo Calamandrei, vero cuore culturale di una Savona aperta al mondo, ma anche per certi aspetti laboratorio politico cittadino, animato da un personaggio, Mirco Bottero, che a Savona ha dato tanto e che oggi è purtroppo colpevolmente dimenticato anche da chi a quella storia afferma di rifarsi.

In quegli incontri, che nel ricordo di chi scrive hanno l'odore un po' malinconico delle innumerevoli sigarette fumate, Cervetto riporta i risultati delle sue ricerche, ma anche la sua impostazione politica che con gli anni sta evolvendo dall'originario anarchismo ad un marxismo prima con forti connotazioni gramsciane e luxemburghiane, poi sempre più rigidamente leninista. In quei dibattiti, che spesso diventano scontro anche aspro, Cervetto non cerca un consenso facile a scapito della coerenza, ma espone le sue idee senza mai scadere nella polemica fine a se stessa o nella diatriba personale.

Una lezione di stile, quasi impensabile oggi, tempo di una politica spettacolo tanto più urlata quanto più povera di contenuti e di riferimenti ideali. Cervetto, dunque, come occasione di primo incontro con la politica e il marxismo per molti giovani savonesi che in quegli anni si formarono e ciò indipendentemente da successivi percorsi personali che avrebbero poi portato ad approdi molto diversi fra loro, spesso anche molto lontani da un impegno politico rivoluzionario o anche solo di sinistra.

1. Arrigo Cervetto, Quaderni 1981-1982. Ripreso in Guido La Barbera, Lotta comunista. Verso il partito strategia 1953-1965, Edizioni Lotta comunista, Milano 2015, p.51.
2. Ivi, p. 64.


(Da: Giovanni Burzio-Bruno Marengo, Prima di voi, Savona, 2017)

domenica 3 dicembre 2017

I segreti dell'alambicco



Storia dello strumento del gabinetto chimico alchemico più conosciuto e affascinante . Raffaele Salinari, che ha appena pubblicato su questi temi un libro molto interessante “Alias:Aleph”, continua il suo affascinante viaggio alla riscoperta della Tradizione.

Raffaele K. Salinari

I segreti dell’alambicco


L’espressione «lambiccarsi il cervello» rimanda immediatamente a pensieri complicati ed astrusi, forse insensati, ma che alla fine, generalmente, portano ad elaborare quella forma di pensiero che lo psicologo maltese Edward de Bono, nei lontani anni Settanta del secolo scorso, definiva «laterale». De Bono pensava che il campo cognitivo fosse come una sorta di gelatina e che una certa maniera, che lui definiva «verticale», di affrontare un problema, fosse come una goccia di brodo caldo che ci cadeva sopra tracciando un solco. Ogni volta che un problema si ripresentava la soluzione non poteva che generare un’altra goccia di brodo caldo che sarebbe caduta immancabilmente nel solco precedente, approfondendolo ancor più, e così generando percorsi stereotipati.

Il «pensiero laterale», titolo di un suo libro famoso tra la Beat generation per la sua componente psichedelica, suggeriva invece che si dovessero fare, appunto, dei passi laterali per risolvere certi problemi apparentemente insolubili, non utilizzando le solite strade oramai tracciate dall’esperienza passata – i solchi nella gelatina del pensiero – ma «lambiccandosi il cervello» per trarne nuove essenze immaginali.

Un esempio famoso è quello dell’elettricista e dei tre interruttori. In una stanza chiusa è contenuta una lampadina ad incandescenza, nella seconda stanza ci sono tre interruttori. Solo uno di questi accende la lampadina e l’elettricista può controllare solo una volta. Stando queste condizioni come si può determinare l’interruttore giusto? Le condizioni iniziali sono due: la lampadina è spenta e gli interruttori in posizione off.

L’approccio diretto al problema si rivela impossibile da un punto di vista puramente «verticale»: una lampadina può essere solamente accesa o spenta, ma gli interruttori sono tre, dunque che si fa? L’unico modo per risolverlo è percorrere una condizione parallela, «laterale» (il fatto che una lampadina accesa si scaldi) che permette di aggiungere un terzo stato. E allora si mettono due interruttori (chiamiamoli 1 e 2) su ON, si attende qualche minuto e se ne spegne uno (diciamo il numero 1). Si va quindi a controllare la lampadina: se la lampadina è accesa l’interruttore giusto è il numero 2, se è spenta ma calda è l’1, e se è spenta e fredda è il numero 3.

Oggi le neuroscienze, ed anche la neuro-paleontologia, ci dicono che forse l’Homo Sapiens ha vinto la gara per la specie dominante su altre popolazioni di ominidi, tra cui il Neanderthal, perché era in grado di formalizzare in qualche modo il pensiero astratto di ordine superiore, simbolico, e dunque di pensare in modo «laterale», creativo, rispetto alle altre specie.

Il pensiero creativo è allora quello che viene prodotto dal «lambiccamento» del cervello, che distilla, per così dire, un percorso nuovo, a volte in grado di fornirci soluzioni originali ed utili. E dunque questo «lambiccarsi» ed i suoi eventuali prodotti, i suoi distillati immaginali, fantastici, simbolici, ben si confanno all’etimologia del verbo che, ovviamente, deriva del noto strumento alchemico-chimico: l’alambicco.



L’Alambicco

L’alambicco è certamente lo strumento del gabinetto chimico-alchemico più conosciuto ed affascinante. La sua stessa forma, come vedremo, riassume il principio sul quale si basa la Grande Opera, quel «solve et coagula» che ne rappresenta il procedimento cardine. Ma cominciamo con l’etimologia di «alambicco», che deriva probabilmente dal vocabolo ambix, una delle parole che i Greci utilizzavano per designare i vasi a matraccio o pallone. Gli Arabi l’hanno fatta precedere dal loro articolo al, ed ecco nata la parola che tutti conosciamo. Infatti, in origine ed ancora oggi, l’alambicco è sostanzialmente un vaso che viene chiuso da un coperchio con la caratteristica di non far entrare nulla, ma di poter far uscire solo ciò che si produce all’interno; in una parola: ermetico.

La parte che chiude il vaso, che lo sigilla, termina a sua volta con una protuberanza e poi con un oggetto per la condensazione. Ora, se analizziamo bene queste parti e le loro rispettive funzioni, ritroviamo nella semplicità allusiva dei loro nomi molta della simbologia alchemico-spagirica di base.

La prima osservazione, come dicevamo, è che l’alambicco si presenta come uno strumento ermetico. L’aggettivo designa appunto questa capacità di non far entrare nulla all’interno e, più estensivamente, di preservare un contenuto. La parola deriva notoriamente dal dio Ermes-Mercurio, la divinità del transito, della trasformazione, degli scambi, ma anche del segreto iniziatico, dei Misteri. Il caduceo di Ermes raffigura i due serpenti, simbolo degli opposti polari che risalgono l’Asse del mondo, bevendo, o riversando, poi nella coppa i loro principi opposti affinché possano ricongiungersi.



Ermes greco è il Thot egizio, la divinità che presiede esplicitamente alle trasmutazioni alchemiche. Nel Medio Evo, verso l’anno mille, riemerse, per così dire, in Europa il famoso Corpus Ermeticum, attribuito al mitico Ermete Trismegisto, cioè il «tre volte grande», autore della famosa Tavola smeraldina: «Cioè che è in alto è come ciò che è in basso per il potere di una cosa sola», summa alchemica in grado di tramandare la saggezza trasmutatoria nel tempo a chi fosse stato capace di comprenderla e di farne saggiamente buon uso. L’Ars Magna è dunque legata al dio Ermes dai tempi dell’antico Egitto, la «terra nera» irrorata dal limo del Nilo, al kema in arabo, da cui deriverebbe il termine «alchimia».

Non è questo il luogo per entrare nelle procedure alchemiche; qui ci basti riprendere l’assunto che l’alambicco è ermetico proprio perché risponde, sia a livello funzionale, sia a livello simbolico – aspetti che nella Grande Opera sono uno specchio dell’altro – all’operazione principale, cioè quella della dissoluzione prima e della ricomposizione dopo, della materia operata. E per fare questo servono appunto le sue tre parti, immutate nei secoli: il vaso per il riscaldamento, il suo coperchio per l’evaporazione e l’apparato di condensazione. Ecco allora che si chiarisce la corrispondenza tra simbologia e operatività alchemico-spagirica.

Per quanto concerne il vaso, la «cucurbita», o «caldaia», essa deve non solo contenere la materia da operare, ma anche proteggerla mentre il calore la dissolve (solve). La parte contenitiva viene detta «cucurbita» dato che ricorda una zucca: è l’analogo della zucca che i pellegrini sulla via di Santiago di Compostela, spesso alchimisti essi stessi, utilizzavano per l’acqua, la Prima Materia senza la quale il viaggio non era possibile.

Si passa poi all’«elmo» o «capitello» o «duomo»: «Se la porta stretta vuoi passare sempre l’elmo devi portare». Così recita una filastrocca ermetica, in cui la «porta stretta» è l’ingresso per la via operativa, mentre l’«elmo» è appunto la parte che chiude ermeticamente il vaso dell’alambicco, consentendo al tempo stesso l’apertura della porta simbolica.

Una discorso a parte meriterebbero le varie tecniche che, nei secoli, hanno consentito di unire questi due pezzi ermeticamente. Solo per citare l’antica Roma, era noto il Lutum, una specie di mastice per sigillare fatto a base di farina e bianco d’uovo spalmati su pezzi di carta o stoffa che venivano poi applicati alla giuntura tra «cucurbita» ed «elmo».

Si arriva così al «becco di pellicano», come viene chiamato il raccordo tra «elmo» e apparato condensante. Dice la leggenda che il pellicano è in grado, col potente becco, di squarciarsi il petto e farne uscire il sangue per donarlo ai suoi figli, in caso ne avessero bisogno per nutrirsi. Ecco allora spiegata l’analogia tra il pellicano ed il Cristo, il «nostro pellicano», che nella simbologia dell’alchimia di ascendenza cristiana, ma non solo, rappresenta il sacrificio della Prima Materia verso la sua stessa purificazione: l’opera al nero.

Per finire la «serpentina», il cui scopo è quello di raffreddare il liquido ottenuto e di farlo così precipitare (coagula). Anche qui il simbolismo relativo al serpente, animale altamente ambivalente, buono e cattivo, saggio e folle, terrestre e celestiale, e via enumerando, che abbiamo già trovato tra gli attributi di Ermes, ben si confà a questa parte fondamentale dell’alambicco. È allora evidente che il serpente rappresenta un principio di trasmutazione, con la sua muta di pelle, e dunque l’essenza stessa dell’Opera che, prima ancora di consistere in una serie di operazioni materiali su un elemento, delinea idealmente una scala con i gradini per la trasformazione spirituale dell’operatore, il suo stesso «mutare la pelle». Come ci ricorda Fulcanelli nel suo Il Mistero delle Cattedrali, questa scala è effigiata insieme alla figura della Filosofia, alla base del pilastro centrale, quello detto del Giudizio Universale, di Nostra Signora di Parigi.



Alambicco e distillazione

L’Alambicco è legato, abbiamo detto, al fondamentale processo della distillazione, dal latino stilla, cioè goccia. In Occidente già Aristotele sosteneva che era possibile potabilizzare l’acqua facendola bollire e poi raccogliendone i vapori in via di raffreddamento. Questo ci porta all’evidenza che il processo fu innescato probabilmente… dalla scoperta del fuoco! e che dunque civilizzazioni antiche (Sumeri, Ittiti, Assiri, Inca, Maya etc.), o addirittura preistoriche, possano aver sperimentato qualcosa di simile. Certamente una primitiva distillazione di cereali, specialmente il riso, era presente in Cina e in India, mentre nell’antico Egitto compaiono geroglifici su papiri e dipinti musivi che rappresentano alambicchi rudimentali; ad Alessandria esistevano già vasi per la distillazione delle erbe e delle piante. La ricetta dell’olio di rose che poi divenne nel Medio Evo il famoso olio di Costantino Porfirogeneta, viene da qui, come un famoso procedimento, ancora oggi usato, il cosiddetto «bagno-maria», probabilmente una scoperta di Ippazia.

Ciò significa semplicemente che, come tutti gli apparati per le operazioni fondamentali, l’alambicco non è stato inventato in nessun luogo ed in nessun tempo particolare, ma ne troviamo esempi basati sullo stesso principio di evaporazione-condensazione in tutte le parti del mondo ed in diversi periodi, anche arcaici. Queste evidenze smentiscono ulteriormente, se ce ne fosse ancora bisogno, la visione eurocentrica che vuole certi procedimenti appannaggio specifico della cultura europea, al massimo con il contributo residuale di quella araba.

Per quanto concerne l’Europa, dunque, sembra che la storia dell’alambicco cominci in un’area corrispondente nell’odierna Slovacchia sud-occidentale. Qui, nel sito archeologico di Abrahám, sono stati rinvenuti i resti del più antico alambicco. Si tratta di uno strumento costruito nientemeno che nel 4000 a. C. composto da tre pezzi distinti assemblati poi in un unico corpo. Il liquido veniva riscaldato nel recipiente basso, vaporizzava e condensava sulle pareti di un coperchio convesso che convogliava a sua volta il distillato in un collettore anulare; una tecnologia definita «estrazione ad anello di recupero». Alambicchi simili ci sono pervenuti dall’alta valle del fiume Tigri, a Tepe Gawra, vicino a Mosul, dove sono stati rinvenuti frammenti di apparecchi in ceramica risalenti al 3500 a. C..

Recentemente l’archeologo John Bartholomew (2015) ha ricostruito un apparecchio sul disegno di quello slovacco ottenendo un buon distillato alcolico. Lo stesso studioso ha ipotizzato come una curiosa ceramica ritrovata nell’antica capitale degli Hittiti – Hattusa – e datata agli inizi del II millennio a.C. in forma di teiera ma con una particolare struttura interna a doppia parete, potrebbe avere svolto la stessa funzione di alambicco, basato sullo stesso principio di evaporazione e condensazione.

Infine, ceramiche simili sono venute alla luce anche in Sardegna, negli scavi della cultura nuragica del II millennio a.C.. Anche qui sono presenti manufatti come quelli trovati in Mesopotamia, cioè ad anello di recupero. I siti sono il Nuraghe Nastasi (Tertenia, Nuoro, XIV-XIII secolo a.C.), e la cosiddetta «capanna delle riunioni» del villaggio nuragico La Prisgiona presso Arzachena.

Una innovazione tecnologica rispetto a questi modelli arcaici la si deve alla civiltà di Pyrgos, nell’isola di Cipro. Scavi recenti hanno riportato alla luce strumenti in cui un «elmo» vero e proprio era appoggiata sopra la «cucurbita» di ceramica, mentre il «becco di pellicano» traportava i vapori in una camera di condensazione immersa in acqua, come nei moderni alambicchi è raffreddata la «serpentina». Dato che vicino sono stati rinvenuti semi d’uva e una giara per vino, l’ipotesi è che il sito fosse attrezzato per compiere una distillazione alcolica a partire da liquidi fermentati.



Passando in Oriente, una tecnica simile a quella cipriota caratterizza i ritrovamenti di Shaikhān Dheri, nella valle di Peshawar, in Pakistan. Reperti del I secolo a. C. mostrano un oggetto del tutto simile agli odierni alambicchi, con camere di condensazione unite ad un distillatore a due corpi. Un importante particolare consiste nel ritrovamento, nel medesimo sito, di numerosi bacini in terracotta dentro ai quali, riempiti d’acqua fredda, veniva poi immerso il recipiente condensatore.

Questa sarebbe la più antica evidenza della pratica di raffreddamento del condensatore a posteriori per aumentare il rendimento del prodotto finito, il distillato, in contrasto con l’affermazione della studiosa cinese Lu-Gwei-Djen, secondo la quale: «Nessun distillatore ebbe un sistema di raffreddamento prima del 1000 d.C.».

Arrivando alle Americhe, troviamo un apparato per distillazione in uso presso gli antichi Peruviani in epoca precolombiana. Un contenitore di ceramica veniva posto a ebollizione, sulla sommità veniva messo un coperchio concavo sulla cui superficie inferiore si formava la condensa, mentre un collettore in forma di cucchiaio dotato di un lungo manico concavo sotto alla sua parte inferiore trasportava il distillato verso un contenitore esterno. Un apparato identico fu commercializzato in Inghilterra nel XIX secolo spacciandolo come una nuova invenzione inglese!

Anche la cultura Capacha del Messico occidentale, nell’odierno stato di Colima, e datata al Formativo Arcaico (1500-1000 a.C.), potrebbe aver sviluppato una particolare tecnica di distillazione: qui veniva impiegato come contenitore principale una sorta di vassoio di ceramica a doppia convessità, cioè con una costrizione centrale che ricorda la forma di una zucca di Lagenaria siceraria.

Per la condensazione e la raccolta del vapore venivano impiegati altri due tipi di contenitore, sempre in ceramica, che sono stati ritrovati negli stessi siti archeologici, e che si adattano alla forma del corpo principale. Il vaso che fungeva da condensatore veniva appoggiato ermeticamente al collo del primo contenitore; al condensatore sarebbe stato poi applicato, mediante un legaccio, un ulteriore piccolo contenitore di raccolta che pendeva internamente al contenitore principale. Sperimentazioni eseguite con modelli ricostruiti ne hanno dimostrato l’efficienza ai fini della distillazione di bevande alcoliche.

Nel corso dei secoli, l’alambicco si è poi ulteriormente evoluto sino a diventare l’apparecchio odierno che conosciamo, a volte altamente sofisticato, come quelli usati nell’industria della fermentazione dei liquori di lusso, ma il suo «corpo spirituale» è sempre il medesimo, perché le regole dello Spirito, sia esso quello che tutto permea, sia quello che sotto forma di «acqua della vita» si beve, sono sempre le stesse.


Il Manifesto/Alias – 2 dicembre 2017