Biamonti e Boine come
testimoni della crisi della civiltà dell'olivo. Prima parte del
nostro intervento al Convegno su Francesco Biamonti tenutosi
recentemente a San Biagio della Cima.
Giorgio Amico
Biamonti, Boine e gli olivi
cattedrale dei Liguri
In
navigazione al largo della Sardegna su una nave carica d'armi diretta
ad un incerto approdo Edoardo, il protagonista di “Attesa sul
mare”, guarda un cielo coperto di stelle che gli ricorda il
paesaggio del suo paese:
“Giove
splendeva enorme, ma come franto, i satelliti stavano passando sopra
il disco. Le stelle intorno sembravano minerali perduti. Smise di
guardare per non soccombere ad un senso di malinconia. Pensò al suo
paese, agli ulivi dei suoi costoni, che s'accordavano alla maestà
del cosmo, quasi sogni
di pietra”.1
E
“sogni di pietra” erano stati per Boine gli oliveti delle vallate
di Imperia. Sogni concreti, duri e tenaci, come concreti e tenaci
erano gli uomini che li avevano eretti, anno dopo anno, generazione
dopo generazione. Sogni impastati di fatica e di sudore a divenire
preghiera, salda fiducia nel futuro. Testimonianza di un passaggio
sulla terra che doveva lasciare una traccia indelebile fatta di olivi
e di pietra. La vera cattedrale dei Liguri, secondo Boine
attribuzione di significato ad una vita aspra, interamente compresa
in un lavoro senza soste, ad una quotidiana fatica fondata su di
un'etica del sacrificio che per quegli uomini assumeva quasi
carattere di preghiera:
“Terrazze e muraglie
fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a
secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri,
pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su
pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e
secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri
padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria
delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente,
hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi
ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla
montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a
testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di
volontà e di forza...”.2
Una visione religiosa,
quasi mistica, della vita che non appartiene a Biamonti che già nel
suo primo romanzo riprende quasi alla lettera il testo boiniano, ma
spogliandolo di qualsiasi afflato religioso:
“Erano stati tenaci
lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero
fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena
blandita dalla «buona
morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci
inventati per consolare ed uniti all'idea di questa fatica, da sola
insostenibile. E Morte sparsa come una promessa sulla sofferenza
ineluttabile”.3
Quella che per Boine è
prima di tutto “la coscienza d'una razza, la forza di una razza, la
sicura religione della razza”4 diventa in Biamonti
soprattutto pena, sofferenza, autoillusione. Nulla può davvero
compensare la feroce fatica del vivere. Se “dagli ulivi e dal mare
di Liguria Boine si apre all'ascesi e al misticismo delle terre di
Spagna”,5 per Biamonti, cresciuto alla scuola di Camus
e di Benjamin, non esistono vie di fuga praticabili. Boine si sente
parte della narrazione, partecipe di quel mondo di cui lamenta la
crisi. Il suo articolo sulla crisi degli olivi in Liguria vuole in
qualche modo essere anche un manifesto politico, una chiamata alla
resistenza e alla lotta. Per Biamonti, che pare assistere dal di
fuori alla catastrofe in corso, quella storia è finita, quel mondo è
in piena disgregazione, non c'è più nulla da salvare, se non forse
il ricordo.
“Qui da noi, sulla
costa ligure occidentale, è morta la civiltà dell'olivo (…). Non
c'è più niente. E un'altra civiltà non s'intravvede”.6
Gli oliveti abbandonati
non ricordano più “l'opera trionfale” dei padri, ma un un
rassegnato adattarsi ad una condizione umana la cui durezza neppure
l'azzurro luminoso del cielo riesce più a mitigare. Solo la fatica e
una pazienza che, generazione dopo generazione, si trasforma
ineluttabilmente in una sorta di fatalistica rassegnazione:
“Ce n'é voluta di
pazienza, pazienza nell'azzurro, per innalzare tutti questi muri”.7
“Generazioni dei miei vi si sono consumate le braccia”.8
Un mito moderno: la
civiltà degli olivi
Spesso nei suoi articoli
e nelle interviste Biamonti parla di una millenaria civiltà
dell'olivo, addirittura “greca e fenicia”, probabilmente
inconsapevole di riecheggiare un mito moderno. Certo, gli ulivi in
Liguria ci sono da tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico
da sempre. Ma la civiltà di cui vediamo i resti nella rete di
muretti a secco che ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea
di oliveti che sommergono le nostre vallate, quella no, non è
millenaria, i Fenici e i Greci non c'entrano molto. E neppure i
Benedettini, così tante volte citati a sproposito. Quella degli
oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben
più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad
esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che, Boine non
ce ne voglia, anche in Liguria si presenta fin dal Quattrocento sotto
il segno di un capitale mercantile che cerca nel ritorno alla terra
una possibilità di valorizzazione che la crisi del commercio
mediterraneo, causata dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e
dal controllo turco del Levante, non offre più. Processi ben
descritti da Massimo Quaini nel suo studio seminale sulla storia del
paesaggio agrario in Liguria, apparso nei primi anni Settanta nella
rivista della Società Ligure di Storia Patria.
Sulla base di una grande
mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi del
Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le
vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già
attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua.
Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e
fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di
Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si
trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite
la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire
dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia
locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che
emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in
Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande
monastero di Bobbio dove l'approvigionamento d'olio per gli usi
liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del
Garda.9
Perse le colonie
d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le grandi
famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e dall'altro
tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle campagne
ponentine totalmente inserita nel più generale processo di
riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee
così ben studiato da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi
investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio
compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo
diventa “coltura esclusiva”. Una società, basata sull'uso
promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto
all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche
del mercato.
Un processo che non sarà indolore, ne deriverà la
disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle vallate. Non è
un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle
streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di
Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi
Marittime e da Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”.
Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una
trasformazione imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni,
all'abolizione dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno
mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte
con campagne di devozione e il richiamo alla fede. Uno dopo l'altro
nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani,
posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di
transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario
popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una
cinquantina. Valle dopo valle l'arrivo degli oliveti si accompagna
alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla
rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia.10
Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido
controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste
popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via
via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito
religioso che da momento comunitario diventa spettacolare
ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un
popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo
attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un
mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare.
Ma non muta solo il
paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta l'atteggiamento
verso i pastori transumanti, signori delle vie di crinale, questi si
rappresentanti la vera civiltà millennaria della Liguria di Ponente,
di cui si regolamenta in modo sempre più restrittivo il passaggio.
Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come
Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo
estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare
riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis”
causato dalle pecore e dalle capre.11
Dopo secoli di convivenza
il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba”12
secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime. Una
chiusura brutale che sedimenta echi tanto profondi da riemergere
all'improvviso in tutta la sua forza nell'Angelo di Avrigue,
nell'episodio citatissimo dell'incontro del protagonista Gregorio con
il vecchio pastore occitano:
«Gregorio
lo invitò a scendere negli ulivi, ché tanto erano abbandonati:
danno non ne poteva fare. Ma il pastore negò con la mano. I
contadini non amavano “lou pastre”, aggiunse. Al pastore, a “lou
pastre”, disse rassegnato, erano destinati solo pietrischi e
terreni magri, o quelli rocciosi sul mare, ove cresceva un'erba dura
come spago e cespugli che nessuna bestia gradiva».13
Un mercato in espansione
per almeno due secoli. Nel giro di cinquant’anni, tra il Settecento
e l’Ottocento, solo nella Valle di Oneglia vennero impiantate
250.000 nuove piante di olivo, destinate soprattutto ad alimentare la
crescente produzione industriale di saponi nell'area di Marsiglia.
Una vita felice tutto sommato breve, chè già dagli ultimi anni del
Settecento fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un
vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente
della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno
rigoglio, ma interessa anche noi perchè precorre nelle
argomentazioni molte tesi degli attuali avversari di una monocultura
manifestazione di una politica neo-colonialista subordinata alle
scelte delle multinazionali.
Discussione frutto dei primi segni
evidenti della crisi del settore, riflessa anche nel sentire comune
delle popolazione delle vallate. Ne è autorevole interprete Giovanni
Ruffini che, nelle prime pagine del Lorenzo Benoni, libro
straordinario per comprendere Genova e il Ponente del primo
Ottocento, fa esprimere al suo giovanissimo protagonista tutta
l'insofferenza provata per la centralità invadente che gli olivi
hanno ormai assunto non solo nel territorio, ma nella vita stessa
delle persone. Per il rivoluzionario Ruffini l'olivo diventa il
simbolo stesso del carattere autocratico, conservatore e reazionario,
dell'ancien régime:
«Mio
zio, sulla sessantina, era un povero spirito, ma in fondo una pasta
d'uomo più buona che cattiva: il quale passava una metà dell'anno
in fare grandi prognostici sulle raccolte, e l'altra metà in
deplorare le fallite speranze, oscillando così tra una sconfinata
fiducia ed una assoluta disperazione. La sola idea distinta che
avesse nel cervello erano le ulive; il solo interesse della sua vita
le ulive; il solo tema dei suoi discorsi, in casa e fuori, le ulive.
Ulive d'ogni forma e qualità, salate, secche, indolcite,
ingombravano la tavola a desinare e a cena; non v'era piatto che non
avesse una guarnizione d'ulive. Tutte le passeggiate sue, nelle quali
io ero il compagno obbligato, non avevano altro scopo che di
osservare le ulive sulle piante e la loro maturazione. In una parte
dell'anno si camminava addirittura sopra strati d'ulive all'altezza
di un piede, stese sul pavimento di un'ampia sala della casa. L'aria
stessa che si respirava, era pregna di ulive».14
1. Francesco Biamonti,
Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994, p. 47.
2. Giovanni Boine, La
crisi degli olivi in Liguria, a cura di Paolo Morganti, Milano,
2010, p. 14.
3. Francesco Biamonti,
L'angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983, p. 4.
4. Giovanni Boine, cit.,
p. 15.
5. Francesco Biamonti, La
terra decaduta, in La città di Boine, Imperia, 1987, p.
131.
6. Francesco Biamonti,
L'angelo della distruzione e i popoli migranti, in Scritti
e parlati, Torino, Einaudi, 2008, p. 137.
7. Francesco Biamonti, Vento largo,
Torino, Einaudi, 1991, p.27.
8. Francesco Biamonti, Attesa sul mare,
cit., p.53.
9. Massimo Quaini, Per la storia del
paesaggio agrario in Liguria, Atti della Società Ligure di
Storia Patria, XII (LXXXVI),1972, II, p. 254.
10. Ivan Arnaldi, Nostra Signora di
Lampedusa, Leonardo, Milano, 1990, pp. 95-96.
11. Ivi, p. 124.
12. Marco Aime, Rubare l'erba,
Milano, Ponte alle Grazie, 2011.
13. Francesco Biamonti, L'angelo di
Avrigue, cit., p. 53.
14. Giovanni Ruffini,
Lorenzo Benoni, ovvero scene della vita di un italiano, Liber
Liber, edizione elettronica dell'8 maggio 2007, p. 4.
continua