TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 23 dicembre 2017

Biamonti, Boine e gli olivi cattedrale dei Liguri


Biamonti e Boine come testimoni della crisi della civiltà dell'olivo. Prima parte del nostro intervento al Convegno su Francesco Biamonti tenutosi recentemente a San Biagio della Cima.

Giorgio Amico

Biamonti, Boine e gli olivi cattedrale dei Liguri

In navigazione al largo della Sardegna su una nave carica d'armi diretta ad un incerto approdo Edoardo, il protagonista di “Attesa sul mare”, guarda un cielo coperto di stelle che gli ricorda il paesaggio del suo paese:

Giove splendeva enorme, ma come franto, i satelliti stavano passando sopra il disco. Le stelle intorno sembravano minerali perduti. Smise di guardare per non soccombere ad un senso di malinconia. Pensò al suo paese, agli ulivi dei suoi costoni, che s'accordavano alla maestà del cosmo, quasi sogni di pietra”.1

E “sogni di pietra” erano stati per Boine gli oliveti delle vallate di Imperia. Sogni concreti, duri e tenaci, come concreti e tenaci erano gli uomini che li avevano eretti, anno dopo anno, generazione dopo generazione. Sogni impastati di fatica e di sudore a divenire preghiera, salda fiducia nel futuro. Testimonianza di un passaggio sulla terra che doveva lasciare una traccia indelebile fatta di olivi e di pietra. La vera cattedrale dei Liguri, secondo Boine attribuzione di significato ad una vita aspra, interamente compresa in un lavoro senza soste, ad una quotidiana fatica fondata su di un'etica del sacrificio che per quegli uomini assumeva quasi carattere di preghiera:

Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza...”.2


Una visione religiosa, quasi mistica, della vita che non appartiene a Biamonti che già nel suo primo romanzo riprende quasi alla lettera il testo boiniano, ma spogliandolo di qualsiasi afflato religioso:

Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed uniti all'idea di questa fatica, da sola insostenibile. E Morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile”.3

Quella che per Boine è prima di tutto “la coscienza d'una razza, la forza di una razza, la sicura religione della razza”4 diventa in Biamonti soprattutto pena, sofferenza, autoillusione. Nulla può davvero compensare la feroce fatica del vivere. Se “dagli ulivi e dal mare di Liguria Boine si apre all'ascesi e al misticismo delle terre di Spagna”,5 per Biamonti, cresciuto alla scuola di Camus e di Benjamin, non esistono vie di fuga praticabili. Boine si sente parte della narrazione, partecipe di quel mondo di cui lamenta la crisi. Il suo articolo sulla crisi degli olivi in Liguria vuole in qualche modo essere anche un manifesto politico, una chiamata alla resistenza e alla lotta. Per Biamonti, che pare assistere dal di fuori alla catastrofe in corso, quella storia è finita, quel mondo è in piena disgregazione, non c'è più nulla da salvare, se non forse il ricordo.

Qui da noi, sulla costa ligure occidentale, è morta la civiltà dell'olivo (…). Non c'è più niente. E un'altra civiltà non s'intravvede”.6

Gli oliveti abbandonati non ricordano più “l'opera trionfale” dei padri, ma un un rassegnato adattarsi ad una condizione umana la cui durezza neppure l'azzurro luminoso del cielo riesce più a mitigare. Solo la fatica e una pazienza che, generazione dopo generazione, si trasforma ineluttabilmente in una sorta di fatalistica rassegnazione:

Ce n'é voluta di pazienza, pazienza nell'azzurro, per innalzare tutti questi muri”.7 “Generazioni dei miei vi si sono consumate le braccia”.8


Un mito moderno: la civiltà degli olivi

Spesso nei suoi articoli e nelle interviste Biamonti parla di una millenaria civiltà dell'olivo, addirittura “greca e fenicia”, probabilmente inconsapevole di riecheggiare un mito moderno. Certo, gli ulivi in Liguria ci sono da tempo immemorabile, forse come olivastro selvatico da sempre. Ma la civiltà di cui vediamo i resti nella rete di muretti a secco che ancora avvolgono le nostre montagne e nella marea di oliveti che sommergono le nostre vallate, quella no, non è millenaria, i Fenici e i Greci non c'entrano molto. E neppure i Benedettini, così tante volte citati a sproposito. Quella degli oliveti, della monocultura dell'olivo è tutta un'altra storia, ben più prosaica. Una storia recente e tutto sommato breve, destinata ad esaurirsi in pochi secoli. Un portato della modernità che, Boine non ce ne voglia, anche in Liguria si presenta fin dal Quattrocento sotto il segno di un capitale mercantile che cerca nel ritorno alla terra una possibilità di valorizzazione che la crisi del commercio mediterraneo, causata dall'affermarsi delle nuove rotte atlantiche e dal controllo turco del Levante, non offre più. Processi ben descritti da Massimo Quaini nel suo studio seminale sulla storia del paesaggio agrario in Liguria, apparso nei primi anni Settanta nella rivista della Società Ligure di Storia Patria.

Sulla base di una grande mole di dati Quaini dimostra come a partire dagli inizi del Cinquecento la monocultura dell'olivo si sostituisca in tutte le vallate del Ponente, con l'eccezione del Dianese dove è già attestata da almeno due secoli, alla preesistente cultura promiscua. Nei documenti (dagli Statuti agli atti notarili, giudiziari e fiscali) di Porto Maurizio, delle comunità delle valli d'Oneglia, di Albenga, Pietra L., Finale, Noli, Savona, Albisola, Celle non si trovano tracce di una preminenza dell'olivo. Quasi ovunque è la vite la coltura privilegiata. In molte realtà dell'entroterra, a partire dallo stesso Onegliese, l'olivo ha minore importanza nell'economia locale persino della produzione di fichi e castagne. Una realtà che emerge anche dagli archivi delle abbazie benedettine di San Pietro in Varatella, di San Eugenio di Bergeggi e soprattutto del grande monastero di Bobbio dove l'approvigionamento d'olio per gli usi liturgici e per la mensa si basa in larga parte sugli oliveti del Garda.9

Perse le colonie d'Oriente, soppiantato il Mediterraneo dall'Atlantico le grandi famiglie genovesi, da un lato si dedicano alla finanza e dall'altro tornano alla terra. Una sorta di rifeudalizzazione delle campagne ponentine totalmente inserita nel più generale processo di riassestamento degli assetti socio-economici delle campagne europee così ben studiato da Ruggiero Romano e Fernand Braudel. Gli ulivi investono le valli, le risalgono fino a 800 metri. Nel territorio compreso tra Taggia e Laigueglia nel giro di un secolo l'olivo diventa “coltura esclusiva”. Una società, basata sull'uso promiscuo della terra e su una produzione mirata soprattutto all'autoconsumo, deve confrontarsi per la prima volta con le logiche del mercato. 

Un processo che non sarà indolore, ne deriverà la disintegrazione del tradizionale mondo contadino delle vallate. Non è un caso che proprio questo periodo veda accendersi i roghi delle streghe, a Triora e non solo, mentre i domenicani del convento di Taggia danno la caccia agli eretici provenienti dalle vicine Alpi Marittime e da Tenda che si favoleggia essere un covo di “valdesi”. Segni della resistenza di un mondo rurale che si ribella ad una trasformazione imposta dall'alto, alla sparizione delle terre comuni, all'abolizione dei diritti d'uso di pascoli e di boschi che si stanno mutando in proprietà private. Una resistenza che la Chiesa combatte con campagne di devozione e il richiamo alla fede. Uno dopo l'altro nelle valli investite dalla nuova coltura sorgono santuari mariani, posti il più delle volte agli snodi di antichissime vie di transumanza in luoghi da tempo immemorabile segnati nell'immaginario popolare dalla presenza del numinoso. Alla fine se ne conteranno una cinquantina. Valle dopo valle l'arrivo degli oliveti si accompagna alle apparizioni miracolose della Vergine che chiama i contadini alla rassegnazione in nome della Misericordia e non della Giustizia.10 

Il clima è quello della controriforma tridentina, con il rigido controllo sulle confraternite e il disciplinamento delle feste popolari, con il barocco che si sostituisce negli edifici sacri via via ad un romanico considerato ormai troppo rozzo, con il rito religioso che da momento comunitario diventa spettacolare ostentazione di potere e ricchezza. Chiese risplendenti d'oro per un popolo impoverito, come impoverite sono le campagne nel Sud del mondo attuale che sulla monocultura vivono in balia degli andamenti di un mercato mondiale che non possono in alcun modo controllare.

Ma non muta solo il paesaggio, cambiano anche le relazioni sociali. Muta l'atteggiamento verso i pastori transumanti, signori delle vie di crinale, questi si rappresentanti la vera civiltà millennaria della Liguria di Ponente, di cui si regolamenta in modo sempre più restrittivo il passaggio. Lo documentano eloquentemente gli Statuti delle comunità; come Triora che a partire da questo periodo disciplina in modo estremamente fiscale il transito delle greggi con particolare riguardo agli oliveti e il cosiddetto “de damno dato in olivis” causato dalle pecore e dalle capre.11

Dopo secoli di convivenza il pastore diventa un intruso, un “ladro d'erba”12 secondo la bella espressione dell'antropologo Marco Aime. Una chiusura brutale che sedimenta echi tanto profondi da riemergere all'improvviso in tutta la sua forza nell'Angelo di Avrigue, nell'episodio citatissimo dell'incontro del protagonista Gregorio con il vecchio pastore occitano:

«Gregorio lo invitò a scendere negli ulivi, ché tanto erano abbandonati: danno non ne poteva fare. Ma il pastore negò con la mano. I contadini non amavano “lou pastre”, aggiunse. Al pastore, a “lou pastre”, disse rassegnato, erano destinati solo pietrischi e terreni magri, o quelli rocciosi sul mare, ove cresceva un'erba dura come spago e cespugli che nessuna bestia gradiva».13


Un mercato in espansione per almeno due secoli. Nel giro di cinquant’anni, tra il Settecento e l’Ottocento, solo nella Valle di Oneglia vennero impiantate 250.000 nuove piante di olivo, destinate soprattutto ad alimentare la crescente produzione industriale di saponi nell'area di Marsiglia. Una vita felice tutto sommato breve, chè già dagli ultimi anni del Settecento fra gli economisti della repubblica di Genova inizia un vivace dibattito sui rischi della monocultura, che certo risente della suggestione delle teorie fisiocratiche allora in pieno rigoglio, ma interessa anche noi perchè precorre nelle argomentazioni molte tesi degli attuali avversari di una monocultura manifestazione di una politica neo-colonialista subordinata alle scelte delle multinazionali. 

Discussione frutto dei primi segni evidenti della crisi del settore, riflessa anche nel sentire comune delle popolazione delle vallate. Ne è autorevole interprete Giovanni Ruffini che, nelle prime pagine del Lorenzo Benoni, libro straordinario per comprendere Genova e il Ponente del primo Ottocento, fa esprimere al suo giovanissimo protagonista tutta l'insofferenza provata per la centralità invadente che gli olivi hanno ormai assunto non solo nel territorio, ma nella vita stessa delle persone. Per il rivoluzionario Ruffini l'olivo diventa il simbolo stesso del carattere autocratico, conservatore e reazionario, dell'ancien régime:

«Mio zio, sulla sessantina, era un povero spirito, ma in fondo una pasta d'uomo più buona che cattiva: il quale passava una metà dell'anno in fare grandi prognostici sulle raccolte, e l'altra metà in deplorare le fallite speranze, oscillando così tra una sconfinata fiducia ed una assoluta disperazione. La sola idea distinta che avesse nel cervello erano le ulive; il solo interesse della sua vita le ulive; il solo tema dei suoi discorsi, in casa e fuori, le ulive. Ulive d'ogni forma e qualità, salate, secche, indolcite, ingombravano la tavola a desinare e a cena; non v'era piatto che non avesse una guarnizione d'ulive. Tutte le passeggiate sue, nelle quali io ero il compagno obbligato, non avevano altro scopo che di osservare le ulive sulle piante e la loro maturazione. In una parte dell'anno si camminava addirittura sopra strati d'ulive all'altezza di un piede, stese sul pavimento di un'ampia sala della casa. L'aria stessa che si respirava, era pregna di ulive».14

1. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994, p. 47.
2. Giovanni Boine, La crisi degli olivi in Liguria, a cura di Paolo Morganti, Milano, 2010, p. 14.
3. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983, p. 4.
4. Giovanni Boine, cit., p. 15.
5. Francesco Biamonti, La terra decaduta, in La città di Boine, Imperia, 1987, p. 131.
6. Francesco Biamonti, L'angelo della distruzione e i popoli migranti, in Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2008, p. 137.
7. Francesco Biamonti, Vento largo, Torino, Einaudi, 1991, p.27.
8. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p.53.
9. Massimo Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria, Atti della Società Ligure di Storia Patria, XII (LXXXVI),1972, II, p. 254.
10. Ivan Arnaldi, Nostra Signora di Lampedusa, Leonardo, Milano, 1990, pp. 95-96.
11. Ivi, p. 124.
12. Marco Aime, Rubare l'erba, Milano, Ponte alle Grazie, 2011.
13. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, cit., p. 53.
14. Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni, ovvero scene della vita di un italiano, Liber Liber, edizione elettronica dell'8 maggio 2007, p. 4.

continua