TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 28 maggio 2020

Quando le BR uccisero Giulio Cesare




La Repubblica di oggi ospita un paginone sull'uccisione del giornalista Walter Tobagi a firma di uno dei "maestri" della stampa italiana.

Abbiamo ben chiaro che, tutto preso a scrivere libri, il nostro illustrissimo articolista abbia poco tempo per leggerne, ma forse anche solo una veloce scorsa a wikipedia gli avrebbe permesso di scoprire che:

"Tobagi venne ucciso a Milano in via Salaino, alle ore 11 del 28 maggio 1980, con cinque colpi di pistola esplosi da un "commando" di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo, buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese." (Wikipedia)

E allora, come avrebbe detto un altro illustre personaggio oggi un po' dimenticato, le BR che ci azzeccano?

O Ezio Mauro pensa davvero che due decenni di violenza politica in Italia si riducano alla storia delle Brigate Rosse, in questo allineandosi alla cialtroneria imperante sulla stampa e non solo?

Tanto si sa, le BR hanno le spalle larghe e tutto fa brodo per aumentare le vendite con titoli ad effetto. A questo proposito ci permettiamo di avanzare una modestissima proposta all'illustre giornalista: perché non continuare la serie, così brillantemente iniziata, riaprendo il caso Giulio Cesare e rivelare al mondo che Bruto e Cassio erano in realtà i capi della colonna romana delle BR?


Imago Sanguineti


Assolutamente da non perdere.

martedì 26 maggio 2020

«Le ceneri di Guy Debord» di Afshin Kaveh. Una biografia di un «dottore in niente» dedito alle imprese smisurate




«Le ceneri di Guy Debord», di Afshin Kaveh, edito da Catartica. Afshin Kaveh,  un giovane e promettente ricercatore, è un caro compagno e un fraterno amico. Per questo sono particolarmente lieto di riprendere la bella recensione del suo ultimo libro apparsa oggi sul Manifesto. Un libro da leggere e a cui sono particolarmente affezionato anche perché contiene  una mia prefazione frutto delle discussioni avute con l'autore al momento della stesura.


Alberto Giovanni Biuso

Nella biografia di un «dottore in niente» dedito alle imprese smisurate

Il «pensiero furiosamente variegato» di Guy Debord sembra inseparabile dalla sua persona, altrettanto molteplice, disseminata, estrema. Afshin Kaveh gli ha dedicato un libro dal titolo Le ceneri di Guy Debord (Catartica, pp. 164, euro 14) in cui compare in modo plurale.
«Il più grande avventuriero della nostra epoca», capace di crearsi avventure e non semplicemente viverle. Un «accanito e appassionato lettore» in grado di metabolizzare tutto ciò che leggeva in una costante pratica o di disprezzo o di détournement, di deviazione, trasformazione, inglobamento, metamorfosi dentro la propria scrittura ed esistenza. Uno stratega «della rivoluzione, della sovversione, in cui la definizione di strategia è il regno della sorpresa e dell’imprevisto». Un «dottore in niente», avverso all’accademia, all’università, a ogni istituzione culturale.
Un «burattinaio egocentrico», secondo l’accusa che gli rivolsero i situazionisti di Strasburgo quando furono espulsi dall’organizzazione, come accadde a numerosi altri che vennero cacciati prima dall’Internazionale Lettrista e poi da quella Situazionista, tanto che nel periodo dal 1957 al 1969 «fecero parte dell’Internazionale Situazionista 70 persone in tutto – le donne furono sette soltanto – di cui 45 furono escluse e 19 si dimisero».

Debord fu soprattutto un «teppista delle situazioni» che costruiva ambienti momentanei di vita dentro i quali avveniva la metamorfosi dell’esistenza individuale e collettiva, trasformata «in una qualità passionale superiore».

AMBIENTI E SITUAZIONI non escludenti nessuna circostanza, luogo, funzione, istituzione. Strutture dentro le quali il teppistaggio diventa per Debord un modo d’essere, divertirsi, immergersi nel nichilismo consapevole delle risse, dell’alcol, della violenza e nella lucidità strategica della loro trasformazione in azioni irrecuperabili da qualunque polizia, gerarchia, ideologia, dottrina, arte, rappresentazione.

Se quest’uomo/opera contribuì in modo determinante all’inizio e alla tensione del Maggio francese, si pronunciò assai presto contro la sostanza autoritaria e insieme imbelle del Movimento, contro il suo precoce diventare «moda». Legato soltanto alla radicalità del proprio sguardo/azione, Debord riconobbe «l’esaurimento irreversibile del proletariato, del classico movimento operaio o dei movimenti di liberazione terzomondisti» e il dominio dello spettacolare, prima nelle due forme dello Spettacolare diffuso (capitalista-occidentale) e concentrato (burocratico-sovietico), poi convergenti nello spettacolare integrato «ormai imbattibile e penetrato in ogni dove, in ogni spazio, in ogni angolo, dilatazione oggi sempre più manifesta soprattutto negli attuali rapporti sociali di consumo e produzione della realtà digitalizzata e virtuale».

È ANCHE A CAUSA dell’attuale dominio della sostanza spettacolare che Debord può apparire un visionario e «un insolitamente piacevole e armonioso disco rotto», risuonante la canzone di una rivoluzione necessaria e impossibile. Di se stesso Debord disse infatti: «Bisogna dunque ammettere che non c’erano né successo né fallimento per Guy Debord e per le sue imprese smisurate».
Questo avventuriero, lettore, stratega, egocentrico, teppista, è diventato a pochi anni dalla morte (1994) un classico. Sì proprio un autore ufficialmente definito dal governo francese tra i più grandi del suo tempo e il cui archivio personale venne acquistato dallo Stato nel 2010 per la cifra di 2,7 milioni di euro, versati alla vedova Alice Becker-Ho.

Una classicizzazione che sembra confermare il titolo-palindromo di uno dei suoi film: In girum imus nocte et consumimur igni, «‘Giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco’. Che altro si potrebbe aggiungere?» si chiede Kaveh a chiusura del suo libro. Solo questo, forse: si tratta in ogni caso di un fuoco che dà luce.

il Manifesto del 26 maggio 2020

sabato 16 maggio 2020

Diego Giachetti, Storia di Azione comunista




Il sito "Dalla parte del torto" pubblica la recensione della nostra storia di Azione Comunista di Diego Giachetti, storico del trotskismo e autore di numerose pubblicazioni sul biennio rosso 1968-69.

Diego Giachetti

Storia di Azione comunista


Il libro di Giorgio Amico, Azione comunista. Da Seniga a Cervetto (1954-1966), appena pubblicato da Massari editore, si presta a vari livelli di lettura intersecati tra loro. Da un lato restituisce al lettore il clima politico e culturale degli anni Cinquanta svelando la dignitosa presenza di gruppi e partiti minori, che si collocano alla sinistra dei partiti del movimento operaio, dando respiro a esperienze di lotta e correnti politiche trascurate o cancellate da certa storiografia, tutta tesa a fare la storia dei partiti maggiori, in particolare di quello comunista, finché è esistito. Dall’altro entra nel merito di storie articolate e complesse di percorsi politici, di incontri e scontri, di scissioni, di figure autorevoli e di personaggi ambigui, sfiorando il rischio di conferire al tutto il sapore di una spy story, che avrebbe ridotto la valenza di quelle che furono militanze politiche serie e di elaborazioni di pensiero critico di un certo livello.

A sinistra del Partito comunista

Due fatti nuovi si presentano sulla scena della critica da sinistra al Partito comunista e socialista nella prima metà degli anni Cinquanta, aggiungendosi alle già presenti forme politiche minoritarie preesistenti: il movimento anarchico, i Gruppi comunisti rivoluzionari (Gcr), la sezione italiana della Quarta Internazionale e i due tronconi della sinistra comunista internazionalista, distinguibili per i loro organi di stampa: Battaglia Comunista e Programma Comunista. Il primo fatto nuovo è dato dalla costituzione dei Gruppi anarchici di azione proletaria (Gaap). Fuoriusciti dall’area anarchica tradizionale, si danno come scopo politico quello di inserirsi nel perimetro del dissenso a sinistra dei partiti parlamentari. Prioritario diventa lavorare per una nuova organizzazione politica in grado di sconfiggere l’egemonia del Partito comunista, spezzare la sua alleanza con quello socialista al quale riconoscono l’originalità di un percorso indipendente, diverso da quello delle socialdemocrazie europee. L’altro fatto è rappresentato dalla clamorosa uscita dal Pci nel luglio del 1954 di Giulio Seniga, uomo di fiducia di Pietro Secchia, con “armi e bagagli”, cioè sottraendo al partito documenti interni riservati e un’ingente somma di denaro, stimata, tra 300 e 600.000 dollari statunitensi (equivalenti all’incirca a 2,5-5,5 milioni di euro attuali), scrive Paolo Casciola nell’introduzione, che erano “parte del finanziamento da Mosca per il 1954” destinati, secondo quanto affermato da Togliatti alla riunione della Segreteria del PCI del 1° settembre 1954, all’acquisto di una tipografia per l’Unità. Parallelamente e per impulso dello stesso Seniga, a partire dal 1955 una forma di dissenso si profila nel partito di Togliatti con la corrente denominatasi Azione comunista.

Quando gli esponenti di Azione comunista decidono di uscire allo scoperto pubblicando il periodico omonimo, sono espulsi dal Pci, nel giugno 1956, in concomitanza con la diffusione del rapporto segreto di Krusciov nel mondo occidentale. Pochi mesi dopo vengono i fatti di Polonia e la rivoluzione ungherese, repressa dall’intervento delle truppe sovietiche. È in quel contesto che, anche per impulso dei dirigenti dei Gaap, si sviluppano contatti tra Azione comunista e forze politiche del dissenso a sinistra – principalmente i Gcr e il Partito Comunista Internazionalista (Battaglia comunista) – che portano alla costituzione del Movimento della sinistra comunista (Msc), sulla base di un accordo abbastanza generico, data la persistenza di analisi e impostazioni di lavoro politico e sindacale non omogenee, che emergono quasi subito. Quelli della Quarta Internazionale sollevano la questione della natura sociale dell’Urss, stato operaio degenerato, mentre per gli altri è un paese capitalista e imperialista quanto gli Stati Uniti; poi c’è la questione sindacale: aderire alla Cgil? Votare nelle elezioni per le Commissioni Interne per i loro esponenti? Partecipare o meno alle elezioni politiche e amministrative? E che indicazione di voto dare? Nel 1957, a fronte del persistere di evidenti divergenze non appianate, tra “trotskisti” e “bordighisti”, i comunisti libertari propongono una fusione, che prevede lo scioglimento di tutte e quattro le organizzazioni, per promuoverne una nuova. La proposta trova il consenso della sola Azione comunista, mentre “bordighisti” e “trotskisti” abbandonano il progetto.

La seconda puntata della storia di Azione comunista

Tutte queste vicende sono trattate e sviluppate nella prima parte del libro che comprende il periodo 1954-1959 durante i quali forte è l’influenza di Seniga – da lui dipendono i finanziamenti per le spese dell’organizzazione – a cui si affiancano militanti quali Bruno Fortichiari, uno dei fondatori del Partito comunista nel 1921, Luciano Raimondi, Giorgio Galli e altri, come Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Pier Carlo Masini di provenienza gaapista. La seconda puntata della storia, iniziata con l’espulsione di Seniga, l’uscita di Pier Carlo Masini e Giorgio Galli, apre una nuova stagione del Msc, caratterizzata dall’affermazione progressiva dell’egemonia teorica e organizzativa della corrente “leninista”, che rimanda al ruolo di Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi. Il passaggio dalla gestione Seniga a quella di Cervetto, per il periodo che va dal 1959 alla scissione del 1965, comporta un radicale cambiamento di atteggiamento da parte del Movimento nei confronti del Pci. Mentre per Seniga lo scopo principale era l’attacco sistematico alla politica della direzione del Pci e in particolare alla figura di Togliatti, per Cervetto le prospettive sono diverse. Il problema non è tanto il Pci in se stesso, quanto il sistema capitalistico nel suo complesso di cui occorre saper interpretare con precisione le tendenze di fondo economiche e politiche. La questione centrale diventa la tendenza del neocapitalismo di stato a favorire il processo di socialdemocratizzazione della classe operaia.

Senza più il supporto finanziario di Seniga, aumentano i problemi finanziari e con essi quelli organizzativi. A fronte di queste oggettive difficoltà, la scesa in campo dei giovani antifascisti dalle magliette a strisce nel giugno-luglio del 1960 consente, ai genovesi in particolare, di rafforzare i contatti con realtà sia giovanili che operaie collocate al di fuori dei partiti della sinistra. A differenza degli anni Cinquanta, gli anni Sessanta vedono emergere le prime forme di una nuova sinistra a cominciare dall’esperienza “operaista” inaugurata dai Quaderni Rossi e poi, a seguito del dissenso cino-sovietico, con la nascita del movimento marxista-leninista filo maoista che alimenta tentazioni unitarie all’interno del Msc.

Nel 1963 il convegno nazionale del Movimento raccoglie una realtà di piccoli gruppi presenti in poche città dove nessuno supera i dieci militanti. Lo scontro avviene tra chi vuole un’apertura nei confronti delle tesi maoiste e chi caratterizza come massimalista il movimento marxista-leninista. Si va verso la divisione. Nel 1965 nel convegno che si tiene a Perugia, dopo l’abbandono polemico dei lavori da parte dei leninisti, prevale la tesi della componente filocinese propensa a confluire nel movimento marxista-leninista. Poco dopo a Roma la componente leninista promuove un suo convegno e annuncia la nascita dei Gruppi leninisti della sinistra comunista, meglio conosciuti col nome del loro giornale Lotta Comunista. Il giornale Azione comunista continua a uscire fino a maggio del 1966 su posizioni filocinesi per poi confluire nella Federazione marxista leninista d’Italia.

15 Maggio 2020

www.dallapartedeltorto.it/2020/05/15/storia-di-azione-comunista-di-diego-giachetti/


giovedì 14 maggio 2020

Sergio Givone, Metafisica della peste




Sergio Givone, docente di Estetica all'università di Torino nel 2012 pubblica per Einaudi un libro, Metafisica della peste, molto interessante, ma che allora passò per stravagante. Oggi, in pieno Covid 19, siamo in grado di apprezzarne in pieno la profondità. Ne presentiamo una pagina come invito alla lettura di un libro affascinante che può aiutarci a convivere meglio con noi stessi nei tempi oscuri di una pandemia giunta,come sempre accade, inattesa e dunque distruttiva di ogni certezza.

Sergio Givone

Metafisica della peste


Com’è possibile la peste?

La peste è un enigma. Intanto, non ha a che fare con l’ordine naturale delle cose. Quest’ordine in genere è piú forte delle potenze distruttive che lo minacciano. Se la sciagura colpisce e distrugge le persone e il loro mondo, tuttavia la comunità resiste, finendo addirittura rafforzata. Non c’è evento catastrofico che non lasci intatti spazi d’esistenza in cui la vita continua a scorrere tranquillamente. Sarà pure indifferenza all’altrui dolore, questa; ma alla radice bisogna pur sempre riconoscere un incondizionato atto di fiducia nel futuro.

Solo la guerra è in grado di mutare la percezione che abbiamo del mondo, costringendo tutti, sia chi è al fronte sia chi è a casa, a prendere coscienza di una rottura irrimediabile e di una discontinuità irreversibile. Nessuno può credere veramente alla guerra. È una cosa troppo stupida. Cosí si pensa che non possa scoppiare o, una volta scoppiata, non possa durare: non sia insomma altro che un incubo. Da cui, prima o poi, ci si sveglierà. Anche durante la guerra i caffè sono pieni di gente e la burocrazia manda avanti il suo lavoro come se niente fosse. La vita continua. L’ordine entro cui la vita si svolge non è veramente messo in questione dalla guerra.

Con la peste le cose vanno un po’ allo stesso modo e un po’ diversamente.

Il ragionamento è: se la peste fosse reale, la vita sarebbe impossibile. Ma la vita non solo è possibile, è reale, realissima, con le sue banalità quotidiane, con le sue urgenze, le sue necessità, e dunque evidentemente è la peste a essere irreale. All’annuncio della peste molto ragionevolmente reagiamo dicendo: non è possibile! E se le autorità, fin da subito, minimizzano, occultano, mentono, forse lo fanno in tutta sincerità…

Ciò non toglie che la peste faccia la sua comparsa. Come proveniente da un’altra dimensione: che non è la nostra, infatti con la nostra è incompatibile. Questo significa che la peste (in questo simile alla guerra) fa segno a una originaria dismisura. Il flagello della peste, dice Camus, «non è commisurato all’uomo» . Ciò che non doveva e anzi non poteva accadere, in base alla capacità umana di previsione, accade, e l’uomo vi si espone inerme, sgomento, senza capire: quasi fosse annichilito e non solo messo a nudo. Reagisce a questa specie di derealizzazione dichiarando priva di realtà la sola cosa reale; ma a diventare irreale e allucinata è la sua vita, che vorrebbe continuasse come prima e invece è già precipitata nell’assurdo e nel non-senso.

Il fatto è che l’uomo, prima ancora che rispetto alla peste, non è «commisurato» rispetto a se stesso – e la peste lo costringe a prendere atto di questo paradosso. A misura che vive ingenuamente appagato, pieno di confidenza e di fiducia, abita l’assoluto come se fosse un orizzonte naturale: la sua fede, quale che sia, e per quanto ingannevole, pretende di essere vera, la sua dedizione a questa o a quella causa vuol essere incondizionata, e cosí via. Ma in tal modo si fa tentare dall’assoluto. Ne viene per cosí dire sedotto, al punto da cercarlo fuori di sé e come altro da sé. Senza poterlo trovare se non per negazione. E a misura che nello specchio dell’assoluto tutto gli si rivela incerto e confuso oltre che rovesciato, viene riconsegnato al relativo, al caduco e al mortale, che indubbiamente è roba sua. Ma com’è roba sua l’eterno.

Smisurata misura. Fin dal suo primitivo annunciarsi, la peste detta legge per bocca di coloro che vorrebbero ignorarla o disconoscerla. La città viene isolata. Mondo chiuso nei propri confini, mondo fuori del mondo. Però tutt’altro che autosufficiente e pacificato. Chi vi dimora si sente prigioniero e in esilio, costretto com’è a vivere un’esperienza di crudele separazione: dai famigliari, dai corrispondenti, dalle persone amate. (...)

E se fosse questa la nostra condizione? Se la dismisura e la scissione appartenessero non già a una determinata situazione esistenziale bensí all’essere stesso? Se la crepa che si apre nella realtà al sopraggiungere della peste, spaccandola in due; se lo smarrimento che ci coglie e il conseguente senso di estraneità a noi stessi avessero un rilievo ontologico prima ancora che psicologico?
(...)
Il problema sarà dunque come fondare un’etica della resistenza al male.

Sergio Givone
Metafisica della peste
Einaudi, 2012

venerdì 8 maggio 2020

Jean Giono, Provence




Tempo di riflessioni, tempo di letture, tempo di scoperte. Provence, un piccolo grande libro, mai tradotto in italiano, di Jean Giono è stato uno dei doni che questo isolamento forzato ci ha portato.
Ne proponiamo un passo dalle prime pagine in cui Giono descrive con amore la varietà della sua terra illuminata dal sole che all'alba spunta da dietro i monti del Piemonte. E' un passo bellissimo, in un francese dolce e musicale che non abbiamo avuto il coraggio di tradurre proprio per non disperderne l'armonia. (G.A.)

Jean Giono

Provence

Mais dès que le jour se lève, la plus extraordinaire diversité s’étale sous le soleil. L’aube sortant du Piémont installe d’abord ses théâtres italiens dans les forêts du Briançonnais, sur les glaces du Pelvoux, les pâtures de l’Isère, les dents de scie du Vercors.

Elle saute plus bas, sur le sommet du Ventoux, de la montagne de Lure, plus bas encore sur Sainte-Victoire, sur Sainte-Baume. Elle ne touche encore la mer qu’au large. Près de la côte, de Marseille à Nice, ou, plus exactement, de Carry-le-Rouet à l’embouchure du Var, tout est encore dans l’ombre.

Il faudra attendre que les premiers rais du jour aient pénétré dans les sombres vallées de la Drôme, dans les noires gorges du Diois, avant de voir s’allumer la frange d’écume qui bouillonne contre les roches rouges du Trayas.

De forêts en glaciers, de pâtures en rochers, la lumière coule vers les vallons découvrant les montagnes mordorées du Nyonsais, les schistes bruns de Gap, les collines romantiques du Var, les déserts de Lure et du Canjuers; elle touche de vermeil la pointe des villages perchés dans les vallées de la Drôme, de la Durance, de l’Encrême, de l’Asse, du Buech, du Verdon.

Elle se glisse en même temps que la bicyclette du facteur dans la cour fortifiée des fermes hautes du plateau d’Albion; elle se pose enfin dans la large Crau, sur les graviers de marbre faisant mousser une longue herbe blonde transparente comme du verre. Maintenant, la mer étincelle comme le bouclier d’Achille; les yachts s’enflamment de pavois en rade de Cannes; le café fume devant les huttes de charbonniers dans les solitudes du Var; les douaniers vont chercher le journal à Montgenèvre; les flamants roses s’élèvent du Vaccarès; le pluvier fait courir son fil bleu dans les roseaux du Rhône; la grive appelle sur les pentes du Ventoux; le blaireau rentre à sa tanière, dans les déserts de Lure; les maraîchers discutent aux terrasses des cafés de Cavaillon; les pêcheurs de Cassis commencent leurs premières parties de boules; Marseille a lâché tous ses autobus dans les rues; Grenoble compte ses pitons et ses cordes; Valence se réveille au sifflet de ses chalands; l’odeur du pain frais embaume des centaines de bourgs, mille villages.

Les écoles perdues dans les bois avalent des petits enfants à la tête en boule; l’alouette grésille en Crau, le corbeau croasse dans l’Alpe, l’aigle tourne au-dessus de Lure; les troupeaux font fumer les chemins autour des Alpes; les tankers soulignés de rouge mugissent au pont de Caronte. L’étang de Berre éblouit Saint-Chamas.

Tout le Sud est en train de vivre.


Jean Giono
Provence
Édition d'Henri Godard
Collection Folio, 1995

mercoledì 6 maggio 2020

Sguardi sull’incedere delle donne




"Salambó Unbounded" di Raffaele K. Salinari per le Edizioni Punto Rosso. Nella ricchezza delle informazioni, del sapere contenuto in questo testo a emergere con maggiore prepotenza sono le domande senza risposta: perché le donne non guardano con così tanto ardore gli uomini che camminano?

Laura Marzi

Sguardi sull’incedere delle donne

L’oggetto che fa da fulcro a Salambó Unbounded di Raffaele K. Salinari (Edizioni Punto Rosso, pp. 96, euro 9) è una catenella, quella che nel romanzo di Gustave Flaubert lega le due caviglie di Salambò e che verrà rotta nel momento in cui la donna-divinità cartaginese si unirà con il guerriero Matho nell’amplesso. Questo libro stesso di Salinari è una catenella che si compone di una serie di riferimenti disparati, che spaziano dalla Bibbia a Truffaut, tracciando una mappatura dell’incedere delle donne.

Si tratta di un tema tanto specifico quanto universale, tanto – è il caso di dirlo – sotto gli occhi di tutti quanto trascurato come oggetto di studio, almeno intellettuale. Se si osserva, infatti, la foto di Ruth Orkin riportata nel testo, scattata a Firenze nel 1951, è evidente come le donne che camminano siano davvero oggetto di studio. Anche se nell’istantanea in questione a colpire più che la dedizione è la prepotenza degli uomini che guardano e la sofferenza fuggitiva di lei che deve camminare, costretta seppur donna a muoversi. La foto dimostra quanto anche quello al movimento sia stato un diritto da conquistare per il genere femminile e come esso non fosse ancora così pacificamente acquisito in Italia, a Firenze, nella metà del XX secolo.

Ovviamente nel testo di Salinari troviamo un riferimento a Gradiva, la novella di inizio ‘900 che nella sua semplicità racconta una storia mirabolante: da bassorilievo scolpito in una città abbandonata come Pompei, quella donna che incede diventa l’ossessione di un uomo in carne e ossa: «Wilhelm Jensen lascia che il suo protagonista, Norbert Hanold, si invaghisca di una virgo pompeiana che vede scolpita su di un bassorilievo: mentre avanza con passo misterioso, o forse misterico, appena immaginato tra le pieghe di un velo leggero, lo avvolgerà in un turbine di sogni e visioni».

Poi c’è l’immagine proposta da un personaggio del film di Truffaut L’uomo che amava le donne, che ha colpito anche Donata Feroldi autrice dell’introduzione al testo, che descrive le gambe delle donne come compassi che misurano il tempo.

A dare una possibile interpretazione dell’erotismo atavico individuato dagli uomini nei passi delle donne sono i versi riportati da Salinari del componimento di Baudelaire À une passante: «car j’ignore où tu fuis / tu ne sais pas où je vais».

La malia insita nella visione di una donna che cammina deriverebbe allora dall’estraneità e dall’assenza di vincoli affettivi: la totale mancanza di una qualsiasi forma di responsabilità nei confronti dell’Altra perché non c’è relazione, se non quella visiva con l’oggetto ammirato, sarebbe fonte di erotismo puro. Ti guardo e potrei amarti scrive Baudelaire alla passante e in questa libertà sconfinata dell’indefinito si accende il desiderio.

Come scrive Donata Feroldi: «noi, soggetti contemporanei iperconnessi, ci scopriamo così miseramente sconnessi da quanto autenticamente ci muove». Nella ricchezza delle informazioni, del sapere contenuto nel testo di Salinari a emergere con maggiore prepotenza sono le domande senza risposta: perché le donne non guardano con così tanto ardore gli uomini che camminano? Mentre, seppur misera, si condensa una certezza, che quel vizio di alcuni uomini di lumare le donne non è affatto innocente come vogliono farci credere: millenni di letteratura, di arte, lo testimoniano.

il manifesto - 5 maggio 2020

lunedì 4 maggio 2020

Di minestre di riso, comunisti feroci e amori sacrileghi





















Un amico ha chiesto su FB per una sua ricerca chi dei suoi contatti avesse frequentato la scuola dalle suore e quali ricordi ne avesse mantenuto. Gli ho risposto che io lo avevo fatto e da allora odiavo la minestra di riso. Ma la storia, come sempre accade, è molto più complessa.


Giorgio Amico

Di minestre di riso, comunisti feroci e amori sacrileghi

Mio padre era un militare, soggetto a frequenti trasferimenti. La cosa non fu senza conseguenza per la mia vita scolastica. Nell'autunno 1955 iniziai le elementari a Porto Maurizio, ma finii l'anno scolastico a Quiliano, in provincia di Savona, dove nel frattempo mio padre era stato trasferito a comandare la locale stazione dei carabinieri. A ottobre 1956 iniziai la seconda, ma a marzo 1957 ero già dall'altra parte della Liguria, ad Ameglia, ultimo comune prima della Toscana. Neanche il tempo di farmi delle amicizie, ricordo solo una bambina, molto carina, di nome Magda che abitava in una villotta vicino alla caserma. Alle Elementari di Ameglia finii la seconda, ma con esiti non proprio positivi.

A furia di cambiar scuole in due anni non avevo imparato quasi nulla. Ma quello del trasferimento forse è un alibi, a nascondere il mio istintivo rifiuto della disciplina scolastica. Infatti, mia sorella, che pure aveva subito le stesse perizie, non ne aveva particolarmente risentito. Comunque sia, mia madre, consigliata non so bene da chi, decise di iscriverci alla scuola privata gestita dalle suore che si diceva fornisse un insegnamento migliore della scuola pubblica ove avevamo frequentato gli ultimi mesi della seconda classe. Così ad ottobre 1957 io e mia sorella iniziammo a frequentare la terza nella nuova scuola. Il perché della stessa classe è semplice, io e mia sorella siamo gemelli.

L'orario era più lungo, ci si fermava a mensa e nel pomeriggio si facevano i compiti. Una mensa spartana. Da allora odio la minestra di riso piatto pressoché fisso e praticamente unico, spesso accompagnato da fettine di un formaggio, molto diverso dai nostri, salato e di un colore giallastro tendente all'arancione. Le suore lo estraevano da grandi latte con la scritta UNRA e il disegno di due mani che si stringevano. Chissà perché quel formaggio mi piaceva molto, tanto da ricordarne ancora oggi con nostalgia il sapore. Scoprii molti anni dopo, ormai adulto, che a dodici anni dalla fine della guerra stavamo smaltendo quello che restava degli aiuti alimentari inviati nel 1945-46 dal governo americano ad un'Italia in rovina ed affamata.

Sempre in quell'anno un bambino più grande, penso di quinta, mi fece provare a fumare la mia prima sigaretta. Vomitai per due ore. Era la primavera del 1958. In quell'anno si votava per le politiche. Le suore ci ripetevano spesso di dire a casa di non votare i comunisti che avrebbero chiuso le scuole cattoliche e le chiese. Ci chiedevano anche di pregare perché la Madonna proteggesse l'Italia dai "senzadio". Non so se la cosa abbia funzionato davvero, ma i comunisti non vinsero le elezioni e le scuole cattoliche restarono aperte. Non per noi, comunque. Mia madre, molto attenta al bilancio famigliare, decise che avevamo recuperato abbastanza e che era inutile continuare a pagare una retta per i tempi piuttosto salata. Così tornammo a frequentare la scuola pubblica.

La cosa non mi fece piacere. Mi ero fatto degli amici, ma soprattutto mi ero pazzamente innamorato della mia maestra, Suor Agnese, di cui ancora ricordo i bellissimi occhi azzurri e il sorriso dolce. Allora sognavo di portarla via dal convento e di fuggire con lei in paesi lontani, popolati da tigri e da indigeni feroci, come nei romanzi di Salgari di cui ero un lettore insaziabile.  Sarà per questo che ho sempre avuto un debole per le donne bionde e dagli occhi chiari, tanto da finire per sposarne una. Se poi anche la mia lunga militanza comunista sia stata il frutto perverso, ma alla fin fine logico, di quell'anno non so dire. Materia per strizzacervelli in cui non mi azzardo ad entrare.