TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 31 gennaio 2011

Nuovo Teatro e Nuova Musica: una coesistenza possibile?




Gli anni '60 e il nuovo teatro italiano
Ciclo di incontri organizzato dalla Provincia di Genova
in collaborazione con la Fondazione Novaro e il Museo dell'Attore

* * * * *
Mercoledì 2 febbraio 2011 - ore 17,00
Nuovo Teatro e Nuova Musica:
una coesistenza possibile?

Intervento di
Paolo Petazzi
Conservatorio G. Verdi di Milano

Sala Govi del Museo Biblioteca dell'Attore
Genova, Via 4 Novembre 3

domenica 30 gennaio 2011

Guido Seborga, Poesie


Accanto al Seborga romanziere e pittore c'è anche un Seborga poeta capace di grandi slanci, di dipingere con pennellate luminose la solitudine di un uomo che in un mondo di automi sognava di farsi portare dal vento, di navigare per mari lontani.

Guido Seborga


DI STIRPE MARINARA

Questo mio oscuro risentimento
di stirpe marinara
nasce da secoli antichi
Da esso cola la mia collera
Si gonfia la vela sulla mezzana
E l'albero maestro cigola
Eccomi febbrile
Ma se tutto va alla malora
M'inchiodo



TRAMONTANA

Mi trascinavo nei carrugi tristi
Genova nervosa in un ammanco di sole
Le pozze d'acqua nel selciato nero
E il vento di tramontana

Una donna puliva una mela
come fosse una scarpa
Un uomo saliva una scala
e guardava in cielo
Un cane randagio abbaiava ai muri
Un gatto su di una colonna rotta
Disgustato che non ci fosse il sole
E il vento di tramontana

Mai ti dissi
che ero a Genova
Per venire
A trovarti a Levante
Ma ero tornato
Sui miei passi
Troppo sentivo
Che ero spezzato
L'animo malato
Il corpo ostacolato
L'accendisogno scattato
Perchè faticare
Meglio badare
A un me stesso

Impossibile
Il mio carattere
Da combattente suicida
Genova s'accende al neon
Le ombre nei vichi fetidi
Il vecchio rigattiere ridacchia
nella piccola bottega

Ripartire dimenticarti per sempre
Imparerai a tue spese cos'è la vita
La mia sete la mia fame la solitudine
E il vento di tramontana


(Da: Guido Seborga, Sangue e cerebrum, 1980)

mercoledì 26 gennaio 2011

Da leggere: Marino Magliani, La spiaggia dei cani romantici

E' da pochi giorni in libreria l'ultimo libro di Marino Magliani. Ne pubblichiamo l'incipit.



Marino Magliani

La spiaggia dei cani romantici


Alla fine di febbraio a Lincoln finiva anche l’estate. Con la negra i posti dove farci a pezzi si riducevano a due o tre. Negra solo perché era ordinaria, a Lincoln se uno è ordinario è negro anche se è biondo, ma scura di pelle la negra lo era davvero. Per me era semplicemente negrita e la cominciai a chiamare così prima ancora di impalmarla. Questa parola che sentirete parecchio da qui in avanti non significa mica sposarla, da noi si impalma quando a una donna le si conosce il cuoio, e si scende al presepe.
Non credo che la negra se la prendesse per come la chiamavano, forse perché a Lincoln, come dappertutto, non c’è niente di peggio che incazzarsi se ti danno un nome. E quando lo capisci è tardi.
Quell’anno avevo deciso che sarei andato in Europa. Tolti i dieci mesi trascorsi tra caserma, guerra e ospedale militare, il resto della mia vita era marcato pampa, aveva l’odore delle sgommate e della benzina bruciata sul Falcon del vecchio, per le strade larghe di avenida Rivadavia, a dar di retromarcia contro i pali della luce per vedere se se ne muoveva uno, o quello di borotalco delle carte, le sere passate al club a farmi spellare, e l’odore della negra, quando ho smesso di andare a manuela.
Ventidue anni così, e ogni estate, durante il periodo della raccolta, una settimana di vacanza all’estancia, a centoventi chilometri da casa, tra Lincoln e Chacabuco, dove abbiamo i campi; così il vecchio poteva tenere d’occhio gli asalariados che non ci rubassero il raccolto. Eppure siamo una delle migliori famiglie di Lincoln e la gente come noi d’estate se ne va un mese a Mar del Plata. Ma noi siamo i Dronero, siamo dei pidocchiosi. E lo sanno tutti. Dietro casa il nonno piantava la verdura e papà ha mantenuto l’usanza. A Lincoln non glielo perdonano, per la gente se pianti i pomodori sei un tirchione che non vuol dar vita al verdurero…
E questa è Lincoln.
Dicevo che la negra non si è mai incazzata ma il nome non gliel’hanno tolto lo stesso. Come a me che da bambino mi chiamavano Almeja, ostrica, perché avevo poco collo, poi il collo m’è cresciuto e mi hanno continuato a chiamare Almeja.
In Europa mi chiameranno matado o colgado, che significano entrambi morto di fame, ma ora in Europa devo ancora andarci.
Impalmerò un mucchio di donne in Europa, ucciderò militari inglesi, venderò dragoni ai soldati americani, e molto altro. Così dicono. Sarà vero?
Non ho cominciato dalla soledad di Lincoln per parlarvi di questa storia e della fine dell’estate, ma solo perché quando muore l’estate in Sudamerica ne comincia una in Europa. E poi anche da voi, certamente, i posti più tristi non sono mica quelli turistici, i litorali pieni di gelaterie e spiagge che a un certo punto restano deserti, ma i posti come Lincoln dove tutto finisce, anche l’estate, senza mai iniziare.
Eppure a Lincoln, credete a me che non ci torno da mille anni, e non so neanche più se ci sia ancora qualcosa che si chiama così, avvengono lo stesso delle cose speciali che fanno dire addio all’estate. Non parlo dei bambini che un giorno rivanno a scuola, o del primo vento tra gli alberi del parque o della chiusura della piscina pubblica, ma dei chicos piola, la banda di perdigiorno nata e cresciuta in queste strade che alla fine di febbraio, regolarmente, ogni anno, riattraversa la pozzanghera ed emigra in Europa.
Un giorno questo me l’ha detto anche mio padre, con quel tono severo e misurato che usa quando crede d’inventare qualcosa di importante per l’economia argentina: «L’estate, Almeja» mi chiama così anche lui, «a Lincoln termina quando spariscono dalle strade i chicos piola».
Dovete sapere che questa dei chicos piola (significa «i ragazzi all’occhio» e sono una decina in tutto) è una cosa nata solo qualche anno fa: e da allora, quando i chicos piola tolgono le tende, la gente vive la loro partenza come un cambio climatico.
Rumbo Europa. Fanno Baires-Madrid-Las Palmas. Si fermano marzo e aprile a Playa del Inglés, Gran Canaria, o a Tenerife, o a Lanzarote, e a maggio si trasferiscono a Lloret de Mar, sulla Costa Brava.
Vivono praticamente di notte e d’estate, pare, e si mantengono lavorando nelle discoteche.
Cosa facciano in realtà lo scoprirò fra poco.
Una cosa è certa: ce li ritroviamo ciclicamente a Lincoln a novembre, con il primo caldo australe, e allora siamo tutti lì che ci facciamo dire com’è andata, quante ne hanno impalmate, gli scoli che hanno preso.
E chiediamo loro di farci registrare la musica nuova e mostrarci come si balla quest’anno in Europa.

Gennaio 1983, l’altr’anno ci sono stati i mondiali, persi da stupidi, e quest’estate, oltre alla musica e alla collezione di camicie colorate da putos e alle pastiglie che fanno ridere e vedere i dragoni, i chicos piola si sono portati a Lincoln Gregorio, un italiano, un tano, come vi chiamiamo noi in Argentina, che a Lloret de Mar lavora con loro.
Diciamo pure che per non contraddirsi i chicos piola dal l’Europa non potevano che portarsi dietro un apparato del genere, uno per cui il mondo ha la forma della fica e il resto si esaurisce in erba da fumare.
Una sera i chicos piola e il tano Gregorio sono venuti a mangiare la pizza dove vado anch’io, da Romero Morsa. Il tano, con la sua camicia variopinta, i pantaloni di pelle, la faccia pesta e le labbra gonfie che si aprono storte, passa dal mio tavolo e mi saluta militarmente. Forse qualcuno gli ha detto che sono stato alle Malvinas. Gli faccio un gesto di interrogazione, lui alza le spalle. Vengo a sapere poi dal cameriere che i milicos l’hanno menato per farsi dire chi vende l’erba e se c’è davvero qualcuno, come gira voce, che intende portarsi in Spagna qualche etto di coca rosada boliviana.
Il tano non sapeva nulla e così hanno insistito, poi l’hanno dovuto rilasciare perché della faccenda se ne sono occupati il padre e lo zio di Julio Pantelic, un ragazzo amico dei piola, gente mezzo mischiata con la junta.
Quando i chicos piola vanno in pizzeria o nei bar, paga sempre la gorda Raja, una bestiona di Lincoln che gira con loro, studentessa in farmacia, i genitori grandi proprietari terrieri, forse ancora più dei miei. La gorda la impalma un piola, il Gatto Luque, tipo alto e secco che in Europa gira voce svuoti i portafogli delle donne.
Il Gatto Luque se ne sta abbracciato alla gorda, circondato dai chicos piola, aspettano la pizza e bevono caraffe di vino mendocino. Anch’io da Romero Morsa bevo mendocino, lo mischio a gaseosa o Coca-Cola, una moda giunta dalla Spagna.
Ogni tanto il tano Gregorio si alza, mi passa accanto, mi saluta militarmente e rientra nel cesso a guardarsi la faccia gonfia allo specchio.
Il tano si sta impalmando un’amica della gorda Raja, la Carmen Botti, figlia del fabbro che vende lotteria illegale.
Ma del tano gira voce che non scende al presepe e la Carmen di questa cosa ne ha parlato alla gorda Raja, come fanno le donne, sapete, e questa alle amiche. Ora lo sa tutta Lincoln: il tano Gregorio al presepe non ci scende.
Così son tutti che gli danno addosso, specie i chicos piola, che hanno un’immagine da difendere: «Tano» gli dicono, «vergüenza, alle argentine se non ci scendi al presepe le lasci zoppe!» La voce è arrivata fino al fabbro Botti, e gli hanno chiesto se sua figlia era zoppa. Sono dovuti intervenire i milicos…
È la peggior pizzeria della pampa questa di Romero Morsa, un vino pessimo, e quella della moda europea di tagliarlo con Coca-Cola o gaseosa è una buona scusa per farlo scendere.
Non so perché ci vengo. Perché ci sono i chicos piola immagino, sono loro l’attrazione.
Sono entrati attirando subito gli sguardi, con le loro camicie e le loro battute in inglese, e Romero Morsa, che è stato anche lui a Lloret de Mar una stagione – poi il padre, per farlo rimanere a Lincoln, gli ha aperto la pizzeria.





Marino Magliani (Dolcedo, Imperia, 1960), scrittore e traduttore, ha soggiornato a lungo in Spagna e in America Latina prima di stabilirsi in Olanda, dove attualmente vive e lavora. Ha pubblicato: L'estate dopo Marengo (Philobiblon 2003), Quattro giorni per non morire (Sironi 2006), Il collezionista di tempo (Sironi 2007), Quella notte a Dolcedo (Longanesi 2008), La tana degli alberibelli (Longanesi 2009) e, con Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa 2010). Con La tana degli alberibelli ha vinto la prima edizione del Premio Frontiere-Biamonti "Pagine di Liguria".

Marino Magliani
La spiaggia dei cani romantici
Instar Libri, 2011
€ 14,00

domenica 23 gennaio 2011

Antonio Gramsci e lo stalinismo


Il 22 gennaio 1891 nasceva Antonio Gramsci. Lo ricordiamo con questo scritto apparso originalmente in francese nel 1999 sui Cahiers du mouvement ouvrier.

Giorgio Amico

Antonio Gramsci e lo stalinismo

Ancora nel 1958, due anni dopo il XX Congresso, Togliatti non aveva esitazioni a presentare l'immagine di un Gramsci in carcere convinto stalinista; in realtà sono numerose le fonti che testimoniano prima di un radicale dissenso di Gramsci rispetto alla politica della "svolta" con argomentazioni sostanzialmente simili alle tesi della Nuova Opposizione Italiana e poi di una totale ripulsa dello stalinismo come sistema di governo.

Scrive Ercole Piacentini, operaio meccanico, compagno di Gramsci a Turi: "Gramsci batteva particolarmente sul fatto che nel partito non si doveva guardare all'uomo ma alle direttive del CC. Parlava di Stalin come di un despota e diceva di conoscere il testamento di Lenin, dove si sosteneva che Stalin era indatto a diventare il segretario del partito bolscevico. Ci parlava di Rykov, di Kamenev, di Radek e soprattutto di Bucharin, per il quale aveva un'ammirazione particolare. Una volta ci parlò della Rivoluzione francese (...) E a proposito di ciò, accennò anche a un 'termidoro' sovietico".

Ricorda Bruno Tosin, stalinista convinto, dal dicembre 1930 a Turi che Gramsci "si dimostrava molto impensierito per la ripercussione che la lotta all'interno del partito bolscevico aveva avuto nell'Internazionale, la cui opera di direzione collegiale, secondo il suo parere, era paralizzata o indebolita in conseguenza di tali lotte. In questa occasione deplorò anche il fatto che Stalin nel passato non avesse mai avuto occasioni di svolgere una certa vita internazionale, a differenza di altri capi bolscevichi, e ciò restringeva la sua visione del processo generale del movimento mondiale" Tesi ribadita all'ex deputato comunista Ezio Riboldi nella primavera del 1931, una volta appresi con irritazione gli esiti del IV Congresso del PCd'I a Colonia: "Bisogna tener presente che l' habitus mentale di Stalin è ben diverso da quello di Lenin (...) Stalin è rimasto sempre in Russia, conservando la mentalità nazionalista che si esprime nel culto dei Grandi Russi. Anche nell'Internazionale, Stalin è prima russo e poi comunista: bisogna stare attenti". (1)



Ma la testimonianza principale è dello stesso Gramsci: il 13 luglio 1931 questi scrive a Tatiana: "Mi pare che ogni giorno si spezzi un nuovo filo dei miei legami col mondo del passato e che sia sempre più difficile riannodare tanti fili strappati". (2) La lettera non verrà pubblicata nell'edizione Platone-Togliatti del 1947 delle Lettere dal carcere, così come verrà censurata un'analoga considerazione presente nella lettera a Tatiana del 3 agosto dello stesso anno: "Non essendoci da parte mia mutamento di terreno culturale, si tratta di sentirsi isolato nello stesso terreno che di per sé dovrebbe suscitare legami affettivi". (3) Il messaggio è trasparente: Gramsci si considera ancora un comunista, ma non si identifica più nel movimento comunista, così come si è andato via via definendo a seguito dell'affermarsi dello stalinismo. (4)

Ma cosa Gramsci, seppellito da anni in un carcere fascista, è in grado di conoscere di quanto accade fuori, che ragionevole fondamento hanno i suoi giudizi che, come si è visto, sono netti ? A questo proposito illuminante è il seguente passo di una lettera a Tania del 1933: "Sebbene viva in carcere, isolato da ogni fonte di comunicazione, diretta e indiretta, non devi pensare che non mi arrivino ugualmente elementi di giudizio e di riflessione. Arrivano disorganicamente, saltuariamente, a lunghi intervalli, come non può non accadere, dai discorsi ingenui di quelli che sento parlare o faccio parlare e che di tanto in tanto portano l'eco di altri ambienti, di altre voci, di altri giudizi ecc. Non ho ancora perdute tutte le qualità di critica 'filologica': so sceverare, distinguere, smorzare le esagerazioni volute, integrare ecc. Qualche errore nel complesso ci deve essere, sono pronto ad ammetterlo, ma non decisivo, non tale da dare una diversa direzione al corso dei pensieri". (5)

Gramsci, dunque, non solo conosce a grandi linee gli avvenimenti sovietici, ma ci tiene a farlo sapere, quasi fosse preoccupato di controbattere eventuali obiezioni fondate sul suo status di prigioniero. Ad una lettura attenta anche i Quaderni, nella più recente edizione critica, riservano più di una sorpresa rispetto alla tradizionale versione di un Gramsci convinto stalinista che non perderebbe occasione per stigmatizzare dal carcere le colpe di un Trotsky divenuto "puttana del fascismo". (6) "Sta di fatto - scrive Vacca - che, al di là della polemica con Trotsky del 1924-1926, che è il solo tema per cui Stalin viene nominato, di lui nei Quaderni Gramsci non parla se non indirettamente accennando all'URSS in modi critici. Né si può sottovalutare il fatto che tutte le critiche di Gramsci all'URSS staliniana convergano nel sottolineare le conseguenze politiche e statali della rottura dell'alleanza fra operai e contadini". (7)



D'altronde, se Gramsci pare mantenere un costante atteggiamento critico verso le posizioni di Trotsky, come non pensare che nel pieno della politica di industrializzazione forzata e dopo la "svolta" avventurista del '29, questo non cambi di segno e non vada a colpire direttamente quello stesso Stalin che per Gramsci subordina, lo abbiamo appena visto, la rivoluzione mondiale agli interessi nazionali russi. (8) Netta è nei Quaderni, anche se espressa con le cautele dovuta alla particolare situazione della prigione, la messa in guardia nei confronti di una possibile involuzione bonapartista dell'URSS a causa di un'industrializzazione fondata sulla mera coercizione invece che sul consenso. Scrive Gramsci nel Quaderno 22 proprio in riferimento ai pericoli di un industrialismo fine a se stesso: "Il suo contenuto essenziale (...) consisteva nella 'troppo risoluta (quindi non razionalizzata) volontà di dare la supremazia, nella vita nazionale, all'industria e ai metodi industriali, di accelerare, con metodi coercitivi esteriori, la disciplina e l'ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Data l'impostazione generale di tutti i problemi connessi alla tendenza, questa doveva sboccare necessariamente in una forma di bonapartismo..." . (9)

Come già al tempo della polemica antibordighiana del 1924-1926 sono gli interessi del movimento proletario internazionale a fungere da criterio di giudizio. L'abbandono di Stalin della politica leninista di alleanza degli operai e contadini quale base del potere proletario agevola la rivoluzione mondiale ? E l'uso generalizzato di metodi polizieschi dentro e fuori il partito come deve essere valutato dai marxisti senza cadere in un democraticismo fine a se stesso ? L' uso della violenza da parte di un partito politico, anche espressione "di gruppi subalterni", cioè detto in chiaro di un partito comunista al potere, ha carattere comunque reazionario o può avere valenza positiva ? La risposta di Gramsci è netta e coerentemente marxista: "La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva o regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell'orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. E' regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto, il funzionamento del partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona 'democraticamente' (nel senso di uncentralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona 'burocraticamente' (nel senso di un centralismo burocratico). Il partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di 'partito politico' è una pura metafora di carattere mitologico". (10)


Il carcere di Turi

Concetto ripreso, a sostanziare ulteriormente la sua analisi della degenerazione burocratica e autoritaria del modello sovietico, nel Quaderno 15: "Dato che anche nello stesso gruppo esiste la divisione fra governanti e governati, occorre fissare alcuni principi inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli 'errori' più gravi, che cioè si manifestano le incapacità più criminali, ma più difficili a raddirizzare. Se crede che essendo posto il principio dello stesso gruppo, l'obbedienza debba essere auttomatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di 'necessità' e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa, e ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che l'obbedienza 'verrà' senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata). Così è difficile estirpare dai dirigenti il 'cadornismo', cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perchè il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, 'la colpa' viene riversata su chi 'avrebbe dovuto', ecc. Così è difficile estirpare l'abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili. Eppure, il senso comune mostra che la maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono perchè non si è cercato di evitare il sacrificio inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con la pelle altrui". (11)

E' una condanna senza attenuanti di un modello di sviluppo, industrialistico e statalista, fondato sul più assoluto disprezzo dei costi umani e della volontà delle masse, sull'obbedienza automatica, sul culto del capo ("cadornismo") che non solo ha da tempo perso ogni residua connotazione progressiva, ma che rappresenta il principale ostacolo sulla via della ripresa rivoluzionaria. Posto di fronte alla necessità di "apprendere troppe e troppo tremende cose" (12), messo al bando dal partito, dal profondo del carcere Antonio Gramsci non cessa di combattere con le uniche armi a sua disposizione, la sua mente e la sua penna, contro la controrivoluzione, fiducioso come tutti i grandi rivoluzionari, in un "futuro limpido e luminoso dell'umanità". (13)

NOTE

(1) Ibidem, p. 48.
(2) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 1°, Roma 1988, p. 299.
(3) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 2°, Roma 1988, p. 18.
(4) Sull'isolamento di Gramsci in carcere cfr. le ricerche di Spriano (Gramsci in carcere e il partito, Roma 1977) e di Fiori ( Gramsci Togliatti Stalin, cit.). E' opportuno comunque ricordare la testimonianza terribile di Terracini relativa alla morte di Gramsci. "Per i compagni detenuti o confinati, Antonio ormai era estraneo al partito. Perciò la notizia della sua morte passò come tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni" (Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 115).
(5) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 2°, cit., p. 191.
(6) La citazione, falsa, è dovuta alla penna di uno fra i più raffinati esponenti di quell'area di intellettuali passati tranquillamente dal fascismo al "partito nuovo" di Togliatti (L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo, Torino 1947, p. 56). Nel volume vengono a piene mani diffuse calunnie su Bordiga e "la provocazione di tipo trotzkista al soldo dell'Ovra". (ibidem, p. 57).
(7) G. Vacca, L'URSS staliniana nell'analisi dei Quaderni dal carcere, in Gorbacev e la sinistra europea, Roma 1989, p. 75.
(8) Tesi peraltro già avanzata sul finire degli anni Sessanta da Silverio Corvisieri (Trotskij e il comunismo italiano, cit., pp. 95-96).
(9) A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino 1975, p. 2164.
(10) Ibidem, p. 1691.
(11) Ibidem, p. 1752.
(12) La frase, rivolta al giovane Gramsci, è di Bordiga. (A. Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, cit., p. 97).
(13) E' un passo della deposizione di Trotsky davanti alla Commissione Dewey nell'aprile 1937 che rappresenta il suo testamento politico e ben si addice a un marxista indomabile e generoso come fu Antonio Gramsci. "L'esperienza della mia vita - scrive Trotsky - in cui non sono mancati successi e fallimenti, non soltanto non ha distrutto la mia fede in un futuro limpido e luminoso dell'umanità, ma anzi l'ha temprata e resa incrollabile. Questa fede nella ragione, nella verità, nella solidarietà umana, che a diciotto anni portai con me nei quartieri operai (...), l'ho conservata piena e intatta. E' diventata più matura, ma non meno ardente...". (Cfr. I. Deutscher, Il profeta esiliato, Milano 1965, p. 483).

(Da: Cahiers du mouvement ouvrier, CERMTRI, Paris, n° 6 Juin 1999)

sabato 22 gennaio 2011

Ricordo di Guido Seborga


Ancora un ricordo di Guido Seborga, questa volta dell'artista ponentino Sergio "Ciacio" Biancheri.


Sergio "Ciacio" Biancheri


Ricordo di Guido Seborga



Le mie visite negli ultimi anni avvenivano nella tarda mattinata, fra le undici e mezzogiorno. In quelle ore era solo. Allora lo spronavo a parlarmi del dramma dell’uomo. Volevo sentire le sue parole sul destino e sulla morte. “Credimi – mi diceva – la morte è tutto un mistero come la vita”. E fuggiva subito verso pensieri di sogno, ricordando, ricordando per esempio la bella svedese che visse con lui alcuni mesi a Ventimiglia e che gli aveva anche tradotto un libro. Al ricordo i suoi occhi si illuminavano. Io lo assecondavo in questa réverie perché mi piaceva sentirlo parlare e avvertirlo ancora vivo. La sua salute era gratificante per noi, come la sua gioia e il suo sorriso.

Un giorno però, a sorpresa mi parlò di Cristo, una figura che lo affascinava. Quest’uomo – mi diceva – con le sue idee ha rivoluzionato il mondo, la vita!” Ne ammirava il coraggio, la libertà. Aveva dato la libertà, introdotto la parità fra l’uomo e la donna. Il suo insegnamento lo riteneva ancora attualissimo. Le lotte per la libertà che sono dei nostri giorni, il Cristo le aveva combattute da solo. La forza dimostrata da quell’uomo di pace aveva per Guido un valore straordinario in quanto egli ha sempre subito il fascino degli uomini che si battono per la libertà. Spartaco, per lui, ne era un esempio significativo: l’uomo che muore per la libertà, l’uomo straordinario, la forza, il coraggio. Cristo però, per Seborga, si presentava nudo di fronte alla forza. Egli non combatteva con le armi. Nel dire queste cose, gli occhi di Guido si riempivano di ammirazione incredula. “Sei fortunato – gli dicevo - , la Madre divina ti protegge”. Mi rispondeva, ridendo, che era proprio vero. Non osava darmi una risposta sbagliata. Mi guardava ed era contento.

L’ho seguito fin quasi alla fine. L’ho salutato accompagnandolo alla macchina, sulla via Romana di fronte alla sua casa di Bordighera. La macchina era carica di bagagli. Alba, sua moglie si era messa alla guida. E’ stato il mio ultimo saluto a Guido e Alba. E’ strano, ma il giorno del suo funerale non sono andato a Torino. Ho preferito meditare nel nostro spazio consueto sugli scogli di Cap Martin, di fronte al mare.

Si era molto preoccupata Alba, negli ultimi anni per lo stato di salute del marito, tant’è che morì prima di lui. Per Guido, per cui era normale averla vicina piena di premure, fu un duro colpo. Da allora sua figlia Laura Hess ritorna a Bordighera con la sua famiglia. Ho suonato alla villa qualche volta per portare dei cataloghi di mostre, ma non essendoci più Guido mi trattengo poco e in giardino. Un giorno Laura mi telefona per ricordarmi il decennale della morte del padre. Ne parlo con Seila Covezzi della Biblioteca Civica Internazionale ed informo l’amico Giorgio Loreti. Giorgio ne parla con Enzo Maiolino che avverte Luigi Betocchi e il gioco è fatto. Tutto si compie in nome di Guido Seborga. Viene allestita una mostra dei suoi quadri alla Biblioteca, con documenti, libri, foto, articoli di giornali. Sia alla mostra, sia alla conferenza ho rincontrato tutti gli amici di Guido: Marzio Pinottini, Angela Calice e il marito musicista. Laura l’ho vista felice.

Con Giorgio Loreti al Centro Culturale della Chiesa Anglicana ho conosciuto Massimo Novelli. Ha in mano un manoscritto su Guido Seborga che spera di pubblicare. Alla conferenza parlerà di queste sue difficili ricerche su Guido e delle notizie ottenute con molta fatica. Non si spiegava i molti silenzi di tanti uomini di cultura su Seborga. I critici avevano dimenticato Guido perché uno scrittore scomodo. Laura ha consegnato a Novelli, giornalista di “Repubblica”, il materiale in suo possesso. Ora Laura raccoglie e cataloga l’opera completa del padre. Domenico Astengo imposta la sua conferenza sul romanzo Gli innocenti, la cui storia si svolge tra Savona e Vado Ligure, una realtà che Domenico conosce benissimo. Elogia Seborga per la verità storica e si augura che il libro venga ripubblicato, anche perché interessante per la conoscenza delle trasformazioni avvenute nella città.

Da Laura ricevo l’invito a recarmi a Torino il 13 maggio 2000 per una conferenza su Seborga, a cura di Nico Orengo e Marzio Pinottini, al Centro Studi e Ricerche “Mario Pannunzio”. Non mi sarà possibile essere presente all’appuntamento. Un anno dopo circa – il 20 aprile – presenzio a Torino a una mostra di Eugenio Comencini e in quest’occasione conosco il dott. Lisa, che era stato
amico di Guido in gioventù. Erano nella stessa scuola. Lo ricordava felicissimo alla fine della guerra. Gridava: “Libertà, finalmente libertà”. Scendeva da Moncalieri in bicicletta. Il dott. Lisa lo aveva intervistato per la Rai per una serie di servizi culturali. Con Guido aveva intervistato anche il pittore Paolucci. Spero di ritrovare questo nastro e di consegnarlo alla figlia.

(Da: "Paize Autu", periodico dell'Associazione "U Risveiu Burdigotu", n.12, dicembre 2009)



Sergio "Ciacio" Biancheri nasce a Bordighera nel 1934 dove tuttora vive. Ha studiato pittura e scultura con Roman Bilinsky e Giuseppe Balbo. Nel 1960 è stato insignito del Premio San Fedele di Milano per la giovane pittura italiana. Ha studiato nudo all’Accademia di Brera e all’Ecole des Arts Plastiques de Monaco e litografia a La Spirale di Milano. Dal 1970 si dedica anche alla scultura e dal 1993 alla ceramica. Sue opere figurano in collezioni pubbliche e private sia in Italia che all’estero.

venerdì 21 gennaio 2011

Flavia Steno (1877-1946), scrittrice e giornalista




Il giorno 24 gennaio 2011, alle ore 17,
nella Sala dei Chierici della Biblioteca Berio di Genova, Pino Boero e Franco Contorbia (Università di Genova), Ombretta Freschi (giornalista), insieme alla curatrice Carla Ida Salviati, presentano il quaderno della “Riviera Ligure” (n. 61/62) dedicato a Flavia Steno, scrittrice e giornalista.
Letture a cura di Maria Comerci e Stefano Stefanacci

* * *
Nata a Lugano nel 1877 da famiglia italiana, Flavia Steno si trasferisce ventenne a Genova, che diviene la sua città di adozione.
Nel quaderno a lei dedicato sono approfonditi alcuni risvolti della sua biografia e indagati certi suoi interessi meno noti, ad esempio il côté cinematografico. Degna di attenzione appare senza dubbio la campionatura che la pubblicazione offre della sua scrittura, così da verificare l’abilità della giornalista e la finezza della narratrice, la non superficiale conoscenza della cultura europea del tempo, l’attenzione per i temi femminili, sempre inseriti in un preciso contesto sociale.
Il quaderno contiene anche una bibliografia dei romanzi pubblicati dalla Steno (oltre settanta). Un’impresa riepilogativa tutt’altro che facile per la vastità della sua produzione, le infinite ristampe, la scarsa considerazione che la cultura accademica ha mostrato nei confronti di una narrativa ingiustamente valutata come “marginale”.
Per altro, la Steno era già apparsa sulle pagine della «Riviera Ligure» (n. 16/1995), “messa in scena” da un commediografo d’eccezione, Vico Faggi, che appunto “rievocava” il primo, ormai famoso, incontro della giovane aspirante giornalista con Luigi Arnaldo Vassallo (“Gandolin”), allora direttore del «Secolo XIX».



Volti a visitare le eredità intellettuali di Liguria, i quaderni quadrimestrali della «Riviera Ligure» vengono realizzati dalla Fondazione Mario Novaro quale occasione di incontro e di sollecitazione per quanti, a diverso titolo, sono interessati alla cultura novecentesca. Costituiscono un veicolo di partecipazione alle attività dell’Ente e pure uno strumento di analisi e di intervento, caratterizzato dalla forma monografica dei fascicoli, così da diffondere, di volta in volta, le tematiche e le figure intorno alle quali si articola il lavoro di ricerca dell’istituzione.

giovedì 20 gennaio 2011

21 gennaio 2011 il PCI avrebbe compiuto novant'anni


Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lunga e approfondita riflessione di Franco Astengo sulla storia di quello che nel secondo dopoguerra è stato il principale partito della sinistra. Crediamo tuttavia che l'aver basato l'analisi su ciò che il PCI "diceva"- e non solo per motivi di mera propaganda - di essere (la cosidetta "anomalia" comunista), tralasciando di analizzare il peso determinante dell'ideologia staliniana e del culto dell'URSS nella cultura comunista e il ruolo di "partito russo" di fatto svolto dal partito fino a quasi il suo scioglimento, costituisca un limite grave e impedisca una reale comprensione e dunque anche un bilancio della storia di questo partito che neppure nell'ultimo periodo (quello berlingueriano, che ci pare anche in questa occasione mitizzato) riuscì di fatto ad uscire dal togliattismo, forma italiana dello stalinismo. Mancanza di bilancio che sta poi, su di un piano più complessivo, alla base del sostanziale fallimento dell'esperienza di Rifondazione comunista.


Franco Astengo

21 gennaio 2011 il PCI avrebbe compiuto novant'anni

21 gennaio 2011 il PCI avrebbe compiuto novant'anni se, vent'anni fa (più o meno nello stesso periodo dell'anno) una improvvida decisione non ne avesse spezzato l'esistenza dando vita a due formazioni politiche, PDS e Rifondazione Comunista, rivelatesi fragili e inadeguate al compito storico di rappresentare i ceti popolari del nostro Paese. Saranno molte, probabilmente, le rievocazioni e le ricostruzioni (tanto più che, proprio nell'ultimo periodo molti dirigenti del defunto Partito si sono impegnati in pubblicazioni di alto livello culturale per rievocare quell'evento e i passaggi storici che lo determinarono: da Reichlin a Magri a Macaluso).

Pur tuttavia abbiamo pensato di sviluppare qui alcuni interrogativi che, a distanza di tanti anni, ci appaiono ancora come inevasi. Sistema di valori? Identità politica? Senso di appartenenza ad una grande comunità solidale? Quale il lascito del PCI, nella realtà quotidiana vissuta da coloro che sono stati militanti di quel partito, a distanza di vent'anni dal suo scioglimento (uno "scioglimento negato", mai formalizzato ma mascherato da "trasformazione", ma in realtà reso reale ed evidente dal rifiuto di centinaia di migliaia di compagne e di compagni a proseguire il proprio impegno politico in un diverso contesto)? Questo l'interrogativo cui cercheremo di fornire una parzialissima risposta attraverso questo intervento.

La premessa di carattere generale può essere così riassunta: nei sistemi contemporanei difficile immaginare che vi possa essere attività politica senza (o al di fuori) dei partiti. Probabilmente esperienze particolari sono costituite da società tradizionali governate da famiglie con relazioni di potere di tipo patrimoniale e personale oppure da sistemi che hanno messo al bando le organizzazioni politiche (regimi militari o autoritari). Tuttavia, le moderne democrazie sono democrazie partitiche, ed un sistema rappresentativo post partitico sembra ancora lontano dall'orizzonte della politica democratica.

L'analisi politologica contemporanea abbonda di termini quali "tramonto", "crisi", "declino" dei partiti e affolla le proprie indagini di metafore quali "destrutturazione", "deallineamento" o "terremoto" dei sistemi partitici, ma l'osservazione delle dinamiche politiche reali indica come i partiti politici, benchè abbiano molti critici, molti antagonisti ed un numero crescente di competitori, sembrano avere ben poche alternative concrete e attraenti.

Il PCI, cui intendiamo riferirci in questa occasione, agiva in un quadro politico italiano contraddistinto, per un lungo periodo, da partiti dal forte radicamento di massa, prevalenti per un lungo periodo (almeno fino alla fine degli anni '70 del XX secolo) sulla societcivile, che agivano all'interno di un sistema pluripartitico di tipo classico, imperniato su un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto da uno sbarramento, derivante dal conseguimento di un quoziente pieno in almeno un collegio. Il nostro riferimento sarà rivolto al "partito nuovo" di Togliatti che nacque, all'indomani della Liberazione, con la decisione di abbandonare la concezione del "partito di quadri" e trasformare il PCI in un partito di massa, largamente radicato, come già si faceva cenno, nella società.

Il Partito cercò elettori ed iscritti in quasi tutti i gruppi ed i ceti sociali: dagli agricoltori, ai fittavoli, ai braccianti, agli operai dell'industria, ai nuovi ceti medi ed ai piccoli e medi industriali. Malgrado gli sforzi dei dirigenti questa presenza sociale del PCI, fino a buona parte degli anni'60, si limitò essenzialmente alla classe operaia del Nord ed ai vecchi "ceti medi" al Centro e in misura minore al Sud. La massiccia emigrazione interna, la crescente urbanizzazione, la laicizzazione diffusa attenuarono tuttavia i vincoli determinati dalla antica tradizione culturale. Di conseguenza, di fronte all'aggravarsi della crisi sociale ed economica, aumentò sempre più il numero delle persone che si sentivano attratte da quelle forze politiche che propugnavano un superamento della crisi, un ammodernamento dello Stato e della Società oltre che una maggiore giustizia sociale. Il PCI guadagnò così in misura più che proporzionale, ed in modo spettacolare, con le elezioni del 1975 e del 1976, un gran numero di voti fra le donne, i cattolici praticanti e i ceti urbani occupati nel settore dei servizi ed in quello dell'istruzione. In quella fase il PCI riuscì anche a compiere notevoli puntate in quelle zone precedentemente dominate dalla DC, grazie soprattutto alla sua forte caratterizzazione cattolica come nel Veneto, nel Mezzogiorno, nelle Isole.

L'espansione della presenza nella Società che dal punto di vista della struttura dell'elettorato fece apparire il PCI come un "partito popolare di sinistra", in verità portò solo ad una in una minima misura ad una modificazione nella composizione di massa dei suoi iscritti. Gli operai continuarono a costituirne il nerbo (circa il 50% nel 1977). Se si calcolano i pensionati e le casalinghe, il potenziale classico del Partito salì in quel periodo al 79%. Quei gruppi sociali che, negli anni '70, contribuirono fortemente ai successi elettorali del PCI, ossia l'intellighenzia scientifica e tecnica, liberi professionisti e gli addetti ai settori dei pubblici servizi, furono invece chiaramente sottorappresentati nelle fila del Partito.

La composizione sociale dei quadri intermedi rivela invece, una tendenza opposta. Infatti, mentre nel 1975 gli operai costituivano oltre il 50% dei segretari di sezione, rappresentavano soltanto il 36% dei delegati al XV congresso e scendevano al 24,9% nei componenti dei Comitati Federali. Il PCI ebbe così sostanzialmente i caratteri di un Partito con una strategia radical-socialista rivolto alle riforme. In questo modo il PCI divenne il principale antagonista e concorrente della DC.

I Comunisti Italiani, se furono soddisfatti dalla tendenza dell'elettorato tradizionale di centro-sinistra a scivolare verso il loro partito furono, invece, contrari, ad una mera identità con il PSI e ad una polarizzazione del sistema partitico italiano. La creazione di un "grande partito della Sinistra" di cui si parlò subito dopo il 1945 e più tardi nel 1964/65 non risultòpraticamente attuabile. Il PCI non riuscì in sostanza, a sciogliere il nodo decisivo di una pratica dell'opposizione, attraverso il modello dualistico tra un Partito cristiano-conservatore ed un grande raggruppamento socialista, o un tentativo di sostituire la DC come partito egemonico accelerando da una posizione di preminenza, la sperimentazione della "via italiana al socialismo". Un dilemma non risolto che fu alla base della mancata realizzazione del "compromesso storico", di cui fu testimonianza parziale il tentativo della "solidarietà nazionale" (1976-1979) il cui fallimento aprì la via ad un declino lento, ma inarrestabile.

La linea del PCI fu orientata, nel corso dei decenni centrali del secolo scorso e fino alla vigilia della liquidazione del Partito, da almeno quattro grandi coordinate strategiche, che possono essere così riassunte:
1. Il rapporto tra la teoria e la prassi.
Questo elemento ha rappresentato un punto decisivo nell'identitàdel PCI, legato all'idea dello sviluppo delle forze progressive, di una scienza in grado di produrre una tecnica sulla quale basare una linea di sviluppo "naturalmente" progressista. In questo ambito avveniva la rivalutazione del cosiddetto "intellettuale organico" (nella definizione gramsciana) cui Togliatti aveva affidato la concretizzazione della linea politica;
2. L'intreccio tra politica e cultura
Un intreccio molto stretto, al limite dell'indissolubilità quello tra politica e cultura, con una concezione della cultura di tipo "classico", di studi robusti e solidi, riservando alla base sociale il livello "nazional-popolare". Fu attraverso il rapporto stretto tra politica e cultura che, in particolare nella strategia togliattiana, avvenne la selezione dei quadri dirigenti: mentre per la classe operaia questa stretta relazione tra politica e cultura, risultalla base della ricerca del riscatto sociale.
3. la relazione tra ideologia e razionalità politica.
La continua ricerca della trasformazione in linea politica dell'ideologia può far definire il PCI come un partito "neo-illuminista", fortemente impregnato di positivismo e contrario all'idealismo. In realtà il PCI presentava al suo interno una molteplicità di modelli culturali (si pensi alle diverse case editrici, da Einaudi a Feltrinelli, cui il partito faceva capo, al di là delle "ufficiali" Rinascita e, successivamente, Editori Riuniti) che, appunto, l'applicazione della linea politica concreta permetteva di far convivere fruttuosamente, attraverso un meccanismo definibile davvero come "neo-illuminista".



4. Il peso del filtro della concezione di classe nell'agire politico.
Questo fattore stato sicuramente presente in una dimensione massiccia, sulla realtà operativa del Partito fino agli anni '70 inoltrati. La concezione di classe sull'agire politico ebbe grande importanza, oltre che nel definire il rapporto tra trasformazione e gestione nell'iniziativa quotidiana del Partito, nello stabilire la relazione tra moralismo e rigore politico, che stava alla base della concezione berlingueriana, prima del "compromesso storico" e poi dell'alternativa, basata, appunto per iniziativa del segretario Enrico Berlinguer, sulla "questione morale" intesa come piena "questione politica".

Dall'inizio degli anni'80 l'emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, coscome nell'elaborazione e nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento raccoglievano i più facili consensi. In pochi anni, anche in un paese come l'Italia considerato paradigmatico di un "caso" proprio perchè vi si trovava presente il più grande Partito Comunista d'Occidente, l'offensiva "neocons" (definita sbrigativamente reaganian-techteriana) modificò in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell'area della opinione pubblica progressista, compresa buona parte della sinistra di opposizione, con conseguenze fortemente negative che poi si sarebbero manifestate, anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici.

In primo luogo comincia raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di "socialismo reale" dell'Europa dell'Est, sia nelle forme programmatiche delle politiche keynesiane e dello esperienze di stato sociale, sviluppatesi ad Ovest e nel Nord Europa, principalmente per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell'impraticabilitdi serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto "libero mercato", dell'individualismo consumistico.

In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni '80, l'insistente campagna sulla "crisi" e sulla "morte" delle ideologie. Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di gran parte dell'opinione pubblica. E' quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui ad esserci, alla base della tesi della "crisi" e della "morte" delle ideologie. Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l'essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica ai "partiti ideologici" ma anche come demistificazione dell'idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell'azione politica. Si assumeva così una inedita categoria di contraddizione, quella del cosiddetto "nuovismo" inteso come criterio di commisurazione della validitdell'iniziativa politica.

In terzo luogo va ricordato, ancora, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via, nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno. Si era passati, infatti, da una domanda di "rinnovamento della politica", così come era stata formulata da Berlinguer, ad una proposta di mutamento del solo "sistema politico" (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali. Si spalancò così in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all'idea che bastasse "sbloccare" il sistema politico per realizzare l'alternanza e mettere cosfine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. Per "sbloccare" il sistema politico il PCI avrebbe dovuto, così mettere in discussione se stesso, ponendo fine al "partito diverso" omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano.



Tutto questo avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni'80, a un punto di estrema gravità. Lo scioglimento del Partito, compiuto con la svolta del 1989, non è dunque avvenuto nell'affermazione di una necessità di innovazione radicale, che segnasse nelle forme più risolute possibili il netto distacco da quel sistema sociale e politico, che stava franando in Unione Sovietica e negli altri Paesi dell'Est. Lo scioglimento del PCI è avvenuto, invece, senza approfondire e sviluppare quegli aspetti peculiari dell'elaborazione e della politica dei comunisti italiani che erano sostanzialmente alternativi al modello sovietico ma, al contrario, ponendo in atto una generica rottura con la tradizione comunista. La liquidazione del PCI fu compiuta, a questo modo, oscurando anche ciò che aveva rappresentato la specificità e l'originalità dell'esperienza del PCI.

Ma le vere ragioni di quella scelta furono, probabilmente, ancora più profonde: stavano nella crescente subalternità ideale e culturale, e di conseguenza anche politica che già negli anni precedenti era venuta caratterizzando le posizioni del gruppo dirigente comunista. E' stato come se, conclusa la fase convulsa del "compromesso storico" e dell'affermazione della "diversità berlingueriana fondata sulla "questione morale", fossero andate, poco a poco, inaridite le stesse fonti della identità peculiare del PCI.

La preoccupazione fondamentale, per larga parte del gruppo dirigente comunista, sembrava essere quella di trovare un decoroso approdo nella grande famiglia dei partiti socialdemocratici ci europei e di riuscire, finalmente, ad infrangere in Italia la "conventio ad excludendum". In questa prospettiva fu sottovalutata la crisi complessiva del sistema politico italiano, già prossimo a franare su se stesso per ben diversi motivi da quello della mancata alternanza, ossia a causa del montare dell'onda di Tangentopoli, della crescita oltre ogni previsione della protesta leghista, dell'esplodere del deficit pubblico al di là di ogni ragionevole livello di guardia.



Mentre il PCI si scioglieva l'Italia si apprestava ad essere dominata da una politica fondata sulla personalizzazione, sull'uso spregiudicato dei mass-media, sul liberismo più aggressivo intrecciato ad un populismo di basso profilo: proprio nel momento in cui la "diversità" dei comunisti italiani avrebbe potuto rappresentare un argine a questo dilagare di mediocrità culturale e politica, questa veniva dismessa aprendo la strada alla più completa omologazione "governista" della sinistra storica italiana.

La grave debolezza del punto di partenza rappresentato dalla svolta del 1989 non fu affatto colmata (proprio per la radicalità dell'errore politico iniziale) nel corso del dibattito che, portò prima al XIX congresso del PCI che, nel marzo del 1990 ratifica maggioranza la "svolta" e poi al XX congresso che si tenne a Rimini nel febbraio del 1991 e che fu anche il congresso costitutivo del Partito democratico della Sinistra, con la scissione però di una parte dell'opposizione interna che diede vita prima al movimento, e successivamente al partito della Rifondazione Comunista.
Il dibattito che si sviluppò in quel periodo e i processi che l'accompagnarono misero, anzi, in evidenza il deficit ideale, culturale, di proposta politica e programmatica che segnava l'intera operazione. Si parlò molto della novità della formazione politica cui si intendeva dar vita: dei nuovi interlocutori (i circoli, i club, la "società civile") insieme ai quali realizzarla: dei "nuovi processi" da avviare nella società italiana. Ma non bastarono le affermazioni sul "nuovo che stava avanzando" per produrre un effettivo rinnovamento. Gli interlocutori esterni si rivelarono troppo scarsi o troppo poco rappresentativi perchè si potesse parlare di un effettivo processo costituente di una più ampia sinistra; la nuova formazione politica (la "Cosa") fu in realtà modellata, al di là delle ambizioni, secondo le strutture della tradizionale "forma partito" con un riconoscimento di principio del pluralismo interno, ma con una forte preminenza del centralismo e della gerarchia piramidale; la carta di fondazione del nuovo partito rimase assai povera di connotazioni tanto culturali come programmatiche; cosicchè il Partito Democratico della Sinistra finì con l'essere comunemente definito più per quello che aveva cessato di essere, che per quello che era diventato: ossia come un partito postcomunista. Anzi i partiti postcomunisti che dopo il congresso di Rimini del '91 sorsero dal vecchio tronco del PCI furono due, cioè il PDS e Rifondazione Comunista.

Il PDS riprese una parte consistente dell'insediamento sociale, amministrativo ed elettorale del PCI (anche se la prima prova fu disastrosa: il 16% alle elezioni politiche del 1992), ma non la ricchezza complessiva di quella esperienza politica. Si era fortemente indebolita quella che Togliatti aveva definito come capacità di operare costantemente una sintesi fra preminenza del ruolo di responsabilità nazionale e guida effettiva di forti lotte e di grandi movimenti di massa impegnati per obiettivi di riforma, di libertà di rinnovamento. Emerse da subito un fenomeno, via, via accentuatosi fino alla formazione del PD: quello di un appiattimento verso il centro, verso posizioni tendenzialmente moderate.

La posizione attuale del PD, a di là delle valutazioni circa "l'amalgama non riuscita" e la "fusione a freddo",è quella di una acquisizione pressochè completa di tendenze centriste e moderate. D'altro canto Rifondazione Comunista (la cui esperienza sta vistosamente declinando, mentre emerge una parte di sinistra che appare completamente legata, ormai, al modello della personalizzazione e della cosiddetta "americanizzazione" della politica al di là dei contenuti enunciati) ha espresso nel corso di questi anni, una certa cultura di radicalismo sociale.



Rifondazione Comunista ha dato voce alla protesta, subendo un certo tipo di subalternità ai movimenti come nel caso del movimento "no-global", non riuscendo ad affrontare proprio quel dato di sintesi politica cui si accennava poc'anzi: così può essere valutato il fallimento dell'esperienza di governo tra il 2006 ed il 2008, mentre il processo di personalizzazione e di autonomizzazione del gruppo dirigente cresceva all'interno del partito, e la sostanziale incapacità, nelle situazioni di governo locale, di esprimere una propria capacità di impostazione programmatica e di conseguente iniziativa politica.

Entrambe le formazioni, il PDS-DS-PD e Rifondazione Comunista, anche nelle attuali versioni FdS, da un lato, e SeL dall'altro, hanno completamente abdicato ad alcuni decisivi insegnamenti metodologici che discendono dalla riflessione di Gramsci: per esempio le considerazioni sulla "rivoluzione passiva", la critica all'economicismo e al politicismo, l'insistenza sulla complessità dei rapporti tra struttura e sovrastruttura nella costruzione dell'egemonia, che pure avrebbero potuto servire più di tante analisi della sociologia e della politologia correnti.

Per concludere ciò che mancato in questi vent'anni di post PCI e dubitiamo fortemente possa essere, anche parzialmente recuperato, è stato in ultima analisi di porre alla base di un impegno per la costruzione di una sinistra radicalmente rinnovata, all'altezza dei problemi della nostra epoca, una capacità di espressione di una critica della realtdi porre le basi per la ricerca di nuovi livelli di compromesso politico e insieme di visione della società del futuro: si direbbe, mancano, nello stesso tempo progetto e programma.



Franco Astengo, politogo e storico della sinistra, collabora con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova. E' autore di numerosissimi saggi apparsi su giornali e riviste.

lunedì 17 gennaio 2011

Per capire: Iraq vent'anni di guerra. Ultimo numero di "Guerre & Pace"



E' disponibile l'ultimo numero di "Guerre & Pace", dedicato alla questione irakena e di cui pubblichiamo il sommario e l'editoriale. Pensiamo sia una lettura indispensabile, per ricchezza di materiali e riflessioni, per chiunque voglia farsi un'opinione sul conflitto irakeno che vada oltre la dis/informazione corrente offerta da giornali e televisioni.

SOMMARIO

3 Presentazione Venti anni dopo, la guerra - Piero Maestri
5 Cronologia della guerra
7 Crimini della guerra e crimini di guerra
10 La strategia Usa - Intervista a Gilbert Achcar
14 Una finta partenza - Charles-André Udry
18 L'eredità Usa in Iraq - Nir Roseni
22 Dopo le elezioni - Ornella Sangiovanni
25 Oil for ice-cream - Sankara
28 Scheda - Consorzio italiano al lavoro per il nuovo porto di Fao
29 Chi vuole gas e petrolio? - Osservatorio Iraq
33 La repressione sindacale - Sherwood Ross
35 Il doppio tradimento - Domenico Chirico
37 Scheda - Vent'anni di Un ponte per...
39 Vent'anni contro la guerra - Piero Maestri
42 Scheda - Senza se e senza ma. Il pacifismo radicale
43 Lo spartiacque dell'informazione - Eri Garuti
46 La verità su Calipari - Gigi Malabarba
48 Il golfo palestinese - Maria Alunni

oltre il monografico
50 La Nato dopo il vertice di Lisbona - Alberto Stefanelli
53 La crisi coreana alla luce della storia - Rafael Poch
57 Honduras: Non è democrazia - Anna Camposampiero
61 Le piaghe di Haiti - Martin E. Iglesias
64 Recensioni a cura di Gianluca Paciucci


Vent’anni dopo, la guerra…

Sono passati vent’anni dal 17 gennaio 1991, una data in cui molti di noi si sono svegliate/i con negli occhi le immagini dei missili statunitensi e alleati su Baghdad e nella testa la consapevolezza che da quel momento si stava aprendo una nuova epoca delle relazioni internazionali.
Lo avevamo in qualche modo previsto fin da quando – come “reazione” all’invasione irachena del Kuwait – le navi dei paesi Nato e di altri paesi alleati si avviavano verso il Golfo. Già alla fine dell’agosto 1990 molte manifestazioni avevano portato nelle strade un nuovo movimento contro la guerra, dopo gli anni di “latenza” seguiti alle proteste contro il dispiegamento degli “Euromissili” nei primi anni ’80.
Malgrado le proteste, i dibattiti, le prese di posizione contrarie alla guerra – e alla partecipazione italiana – i bombardamenti su Baghdad furono comunque uno shock, che portò centinaia di migliaia di persone a manifestare la loro opposizione alla guerra.
Ma ancora non si poteva parlare di un movimento stabile e capace di mantenere una costante mobilitazione (vedi l’articolo specifico in questo stesso G&P).
In ogni caso per molte/i già da allora era chiaro che non solo si apriva una nuova fase delle relazioni internazionali nella quale la guerra, l’occupazione militare, la distruzione di interi paesi e tessuti socio-economici diventavano strumenti fondamentali nell’imposizione di un “nuovo ordine globale” guidato ancora dagli Stati uniti; ma che in questa fase anche l’Italia avrebbe “fatto la sua parte”: era il primo vero e gravissimo atto di rottura costituzionale, di cui troppi finsero di non accorgersi, o perché in qualche modo complici e conniventi (come i dirigenti di quella “sinistra” che appoggerà tutte le trasformazioni delle forze armate, il riarmo del paese e le guerre dal Kosovo all’Afghanistan) o perché troppo occupati in un pacifismo “etico” o troppo dipendente dalle relazioni con quella stessa sinistra istituzionale che si limitava ad astenersi e cercava di frenare lo sviluppo di mobilitazioni crescenti e radicali.
In quelle settimane,accanto alle tante donne e ai tanti uomini che si mobilitavano generosamente in tutta Italia, si sviluppava anche un’importante riflessione e organizzazione di intellettuali di diversa provenienza culturale uniti dalla totale avversione alla guerra e consapevoli della novità pericolosa che quel attacco all’Iraq rappresentava.
Quegli intellettuali – Ernesto Balducci, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Manlio Dinucci, Walter Peruzzi, Franco Fortini, Fabio Marcelli, Luigi Ferraioli, Fabio Alberti e altre/i – diedero un contributo importante al movimento, che non si fermò al termine dei combattimenti alla fine del febbraio 1991 (l’appello che pubblichiamo – che risale al 31 gennaio 1991, con i bombardamenti ancora in corso – rappresenta un esempio di questa riflessione e della sua diffusione).
Da quel nucleo nacque il “Comitato per la verità sulla guerra del Golfo” (poi diventato Associazione “Comitato Golfo per la verità sulla guerra”, da cui prese avvio successivamente l’idea e la produzione di questa rivista nel 1993) e, parallelamente, il progetto di “Un Ponte per Baghdad”, campagna promossa inizialmente da Dp che sviluppò una solidarietà diretta con le popolazioni colpite dalla guerra e poi dall’embargo.
Il “Comitato Golfo” cercò immediatamente di affrontare – attraverso rassegne stampa, circolazioni di materiali, dibattiti e convegni (in un epoca nella quale non esisteva internet e le comunicazioni veloci di oggi) - le questioni principali che quell’intervento militare poneva, ovviamente accanto alla necessità di una mobilitazione permanente contro la guerra:
la conoscenza del contesto mediorientale, delle questioni ancora aperte e dell’ingiustizia che dovevano affrontare le popolazioni dell’area (palestinesi e kurdi in primo luogo), le “ragioni” di un intervento nell’area;
la conoscenza di quella che un libro fondamentale (edito appunto dal Comitato Golfo e scritto a Dinucci, Gallo e La Valle) definì “La strategia dell’impero”, cioè i motivi e gli strumenti che Usa e alleati stavano approntando e utilizzando per garantirsi quel “nuovo ordine mondiale” dichiarato da Bush padre. Strategia che in Italia prendeva il nome di “nuovo modello di difesa” (analizzato in quel libro e che divenne “ossessione” di questa stessa rivista…);
la denuncia del “crimine della guerra” e dei crimini di guerra (come la relazione di Marcelli, Ferraioli e Gallo che presentiamo in questo numero), resi ancora più presenti e pesanti dalla forma dell’embargo, che avrebbe in 12 anni ammazzato circa un milione di persone in Iraq (oltre la metà bambini sotto i 5 anni – secondo i dati dell’Unicef e di altre istituzioni internazionali, incapaci peraltro di frenare questo crimine contro l’umanità). L’iniziativa contro l’embargo fu al centro di diverse campagne proposte da “Comitato Golfo” e “Un Ponte per Baghdad” negli anni successivi, spesso nell’indifferenza anche di grandi associazioni pacifiste;
la denuncia delle responsabilità dei media nazionali, che producevano disinformazione e creavano le condizioni per una crescente indifferenza a quanto succedeva in Iraq (e nel nostro paese). Il progetto della rivista “Guerre&Pace”, in un momento in cui l’informazione internazionale era scarsa – per esempio, non esistevano ancora Limes, Internazionale, LeMonde Diplo in italiano, mentre una rivista interessante come Quetzal aveva da poco chiuso – cercava di trasformare quella denuncia in analisi e produzione di informazione alternativa.
Dopo 20 anni cosa sta succedendo in Iraq nell’insieme della regione mediorientale? Siamo ancora nella fase della “guerra globale permanente e preventiva”, come fu definita successivamente? Quel è oggi la “strategia dell’impero” sotto la guida del presidente Barack Obama? E cos’è stato il movimento contro la guerra in questi 20 anni, perché non riesce più ad avere una dimensione altro che testimoniale o ambigua?
Questo speciale della rivista – che esce proprio nel mese di gennaio che segna 20 anni da quel 17 gennaio 1991 – prova ad affrontare nuovamente i quesiti posti da quella guerra e dai vent’anni di guerra ininterrotta, riproponendo testi di vent’anni fa, riflessioni originali sui vent’anni passati e articoli sulla situazione attuale.
Perché questi vent’anni di guerra hanno cambiato molte/i di noi. E ancora adesso proviamo a farci i conti con la nostra iniziativa.

Costo del numero monografico IRAQ VENTI ANNI DI GUERRA è di euro 8 (comprensivo delle spese di spedizione) L’abbonamento annuo -5 numeri- costa euro 40,00.
Il versamento va effettuato ccp 24648206 intestato GUERRE E PACE, MILANO.
Per richiedere una copia, arretrati o info scrivi a guerrepace@mclink.it

domenica 16 gennaio 2011

Guido Seborga: Abbiamo cominciato, poi si vedrà



Qualche anno dopo "Gli innocenti", il romanzo della Savona operaia, Guido Seborga scrive "Ergastolo", una storia ambientata nel porto di Genova in cui descrive la condizione dei lavoratori negli anni del boom economico. Ancora la storia di una lotta, il racconto drammatico di una battaglia per il lavoro e per la difesa della propria dignità di uomini liberi. Una storia bellissima di cui proponiamo qualche pagina. Un romanzo attualissimo, come ci ha scritto Laura Hess Seborga, che ancora una volta ringraziamo per l'attenzione con cui segue Vento largo.

I fatti di questi giorni alla FIAT e la foto del vecchio operaio sui giornali mi hanno fatto pensare che non tutto è cambiato dal mondo raccontato da mio padre in “Ergastolo”.

Laura Hess Seborga



Guido Seborga

Abbiamo cominciato, poi si vedrà



In una curva spezzata Genova appare con le sue case alte e grigie. Un sole invernale illumina le colline. Il fumo delle fabbriche e del porto blocca il sole nel cielo e in alto mare; non permette ai raggi di penetrare nel porto, le vecchie case dell'angiporto di sottoripa sono nere. In porto l'acqua è dominata dai ponti dalle banchine dalle calate; le navi stanno nell'acqua pigre e stanche; le grues svettano al cielo, in questa grande sacca nera dall'acqua stagnante melmosa, non c'è riposo. Silos, vagoni, carrel­li, rotaie, opifici, bar, cassoni, sacchi, balle, ceste; ed in mare chiatte, rimorchiatori, vapori, navi, petroliere; e tanti tanti uomini in lavoro.

I cancelli, i varchi che si aprono nascostamente nelle mura per i contrabbandieri, per uscire e entrare clande­stinamente, per mille diversi motivi. Ogni sezione del porto con la sua specialità. Industriale per le riparazioni alle navi, più a levante ancora il mercato del pesce, più a ponente la darsena, la stazione marittima per i grandi viaggi romantici o d'affari, vicino alla Lanterna il carbone, poi la legna, e le cisterne per i carburanti e o1ii, e il materiale grezzo, il ferro d'ogni genere e forma per la Sinigalia.

Porto e fabbriche, altiforni e laminatoi, metalmeccaniche. E i casoni alti e grossi di Genova, sporchi, sono luoghi tristi, dove gli uomini si rifugiano dopo tanto lavoro. Genova tenace che lavora duramente, che spende poco, ricchezze dentro palazzi antichi e i nuovi grattacieli, e traffico immenso nelle poche strade mai larghe.. (...)

Un uomo anziano che conosceva tanta vita passata: «Tirano il colpo di farci ritornare al tempo dello "scrollino".»«Sta a noi di non permetterlo!» - esclamò il console. Questo era un punto sul quale tutti avrebbero dato battaglia.
Il console disse: «Giocano sul fattore psicologico della libertà, leggete certi giornali, cosa dicono? È tanto semplice! È assurdo - dicono - che non si possa scegliere liberamente il lavoratore
Alcuni cadono nel tranello, per fame (…). Occorre che nella propaganda, nei nostri giornali, spieghiamo chiaramente a tutti cos'era l'epoca dello «scrollino», quando il lavoro veniva tirato a sorte con un soldo, quando non c'erano tariffe precise di lavoro e orario stabilito.»
«Ormai molti sanno.»
«Sì, ma non tutti sanno: dobbiamo insistere con convinzione.»
Giovanni affermò: «E soprattutto su questo punto che i lavoratori vanno mobilitati, (...)siamo-noi dalla parte del giusto, la Costituzione ci dà ragione, così possiamo batterci bene.»
Un sindacalista che dirigeva un giornaletto del porto, redatto dai portuali, disse: «Ci accusano di essere noi con i costi a far salire i prezzi del porto, imbarchi, sbarchi, noli... Questo è falso. Scriveremo articoli contro questa fandonia.».. (...)

Alcuni se ne andavano via per riprendere i turni dei lavori, o essere presenti alle chiamate…..«Fatemi parlare ancora», disse il console, e continuò: «Anche gli occasionali devono veder rispettati i loro diritti. Il punto è questo: stabilire una assemblea permanente consultiva. Molti dissero: "Questa è la proposta valida, questo è quanto deve esser fatto, tutti siamo d'accordo su questo punto.» Era un coro concorde a più voci (...) Giovanni disse: «Non siamo più ai tempi del fascismo!» (...)


Ululavano le sirene per l'inizio dello sciopero. (…) Era una secolare battaglia che in quei giorni si riaccendeva, terribile e triste. Non si poteva far ritornare in vita il mondo vecchio e sepolto della libera scelta. II nome è suggestivo, può far lacrimare i nostri buoni nonni liberali, inebriati a parole di un astratto concetto della libertà (...). Ma sono forse proprio questi uomini di carne e sangue che vogliono spezzare il loro secolare ergastolo. E così gli uomini -si devono di nuovo difendere; difendere la vita e la produzione, integrare il mondo del lavoro nella tecnica attuale; impadronirsi a poco a poco della scienza. Mentre da certi palazzi vetusti, alcuni bellissimi, gli equivoci monopoli in essi installati chiedono senza nessun discernimento politico e morale la libera scelta e vorrebbero farci precipitare indietro nella storia dei tempi. Ciò è anche nella vita moderna economicamente antiproducente. (…)

I portuali con dei gruppi di operai della metalmeccanica disoccupati e che cercavano lavoro nel porto da occasionali, s'erano asserragliati in una casetta del porto sul mare, una casetta della Compagnia, ma sciopera anche la grande fabbrica per il ferro e l'acciaio. Scaricatori sono fermi di fronte a sacchi e carrelli manovrati a mano o a forza; dalle tanche appaiono uomini alti con i volti rugosi un poco mummificati dalla sabbia, essi per pulire le navi gettano sabbia, e questa ritorna sui loro corpi, gli occhi sono rossi e infiammati anche se lavorano con maschere, colati per ore e ore nel bacino umido, le loro membra sono ritorte dall'artrosi, qui l'acqua è molle.

Uomini si raggruppavano di fronte alla casetta della Compagnia, altri erano già dentro presi da discussioni lunghe e mai finite... (...). Quella loro casetta se l'erano conquistata il 25 Aprile, quando nel porto c'erano i nazifascisti, e avevano difeso sempre il porto rendendo difficile la vita agli invasori; attaccarono con coraggio i reparti occupanti, e diedero nuovamente vita alle loro organizzazioni sindacali, democraticamente ammesse dalla Legge.

Essi si sentivano uomini che agivano in conformità della legge. Non erano più le rivolte chiamiamole romantiche del secolo passato certi diritti erano ormai ben precisati dalla Costituzione, ed erano costati tanto sangue italiano. Sarebbe retorica questa, brutti ceffi della viltà umana ben pagata? Gli operai non pensavano che, fosse retorica o demagogia, come alcuni usano dire; ma realtà vivente che prende gli uomini di oggi. I monopoli,…. volevano infrangere i diritti già sanzionati dalla costituzione italiana. Volevano diminuire i salari perché dicevano che troppo incidevano sugli alti costi, mentre si sa che il salario alto è una buona legge dell'economia moderna; volevano la libera scelta per potere stabilire in modo arbitrario il prezzo del lavoro e la paga; volevano abolire la libertà di riunione e di sciopero; volevano quella casetta dove i lavoratori si riunivano e che avevano conquistato con le armi della liberazione, per impedire anche ogni riunione, ogni ritrovo di discussione e di ricerca sociale… (…)

Il sole rosa del mattino si stava sperlando tra gli alti mucchi del carbone e le nuvole della polvere nera, quando avvenne il primo arresto del lavoro.
Il Console in agitazione diceva ai lavoratori: «Dobbiamo essere prudenti, e non dimentichiamo che la legge è dalla nostra parte!»
I più anziani lo guardavano stupiti, non credevano neppure che esistesse una legge, per loro del resto non era mai esistita, alcuni giovani forse afferravano meglio la situazione. (Essi meglio capivano i nuovi tempi, che poi nella sostanza tanto rassomigliavano al passato, un passato che molti pensavano defunto, ma che poi molto spesso rinasceva, anche per la mancanza d'intelligenza e di fantasia di un capitale, che troppo spesso sapeva essere solo prepotente e drastico. La vita scorreva già in altro modo nel cuore e nel sangue della maggioranza degli uomini. Così nasceva una contraddizione grave, un conflitto stringente (...)

Le ore erano lunghe da far passare, e sembrava che più nulla accadesse o dovesse accadere, agenti e scioperanti si guardavano alla distanza, mentre una delegazione sindacale regolarmente eletta, era a Palazzo Tursi per discutere con il governo.
Forse si attendevano i risultati di questa discussione. Sulla libera scelta non si poteva cedere: la discussione sarebbe stata dura estrema; l'oltraggio subito con quella pretesa legge era stato troppo infamante, l'umiliazione bruciava la pelle di tutti, i ricordi riaffioravano per renderla ancora meno accettabile. (...)

Palazzo Tursi e Roma tacevano complici. (...)

Il tempo passava lento ed ogni istante aumentava di significato, una corrosione artificiosamente creata da certi uomini cercava di distruggere la vita. Ognuno lo sapeva. Ognuno aveva il cuore in ansia e intimorito; più lontano oltre i cancelli le mogli, i figli. Ma i lavoratori erano decisi a non cedere, sapevano di avere assolutamente ragione, questo era il segreto della loro forza.
Si attendevano notizie da Palazzo Tursi dove si continuava a trattare.
Poi si seppe che nulla era stato concluso, lo sciopero doveva continuare, forse estendersi ad altre compagnie, ad altre fabbriche.
La giornata non era troppo fredda e non spirava la tramontana. Ma il cielo era coperto, grigio e basso, e si concentrava nell'aria una grande quantità di fumo e di polvere, così l'esasperante attesa diventava ancora più triste. Il tempo non riusciva ad infrangersi, pareva d'essere chiusi in un sacco, e come le risoluzioni non giungevano, si passò ad una certa abulia angosciata, che opprimeva. Un grande quotidiano settentrionale, un giornale bor­ghese, scriveva che il porto doveva essere tutto riorga­nizzato, che non era un fatto genovese, ma nazionale, che non era più all'altezza degli altri porti europei, e che la causa dei costi alti non erano i salari. E si richiedevano migliori collegamenti col Piemonte e la Lombardia in modo particolare. Non erano mai arrivati tanti rottami di ferro per le acciaierie, mai tanti tronchi di mogano o di teck per i mobili razionali italiani delle nuove costruzio­ni; non erano mai partiti tenti tessuti, tante automobili, tanto vino. Ogni giorno entravano nel porto non meno di cinquanta navi, e una ventina stavano aspettando per giorni di poter attraccare. Nuove banchine, nuove ferro­vie, nuove strade.Verso sera nacque un'umidità spessa e avvolgente, e gli uomini si sentirono invadere da fremiti di freddo, poi cominciò a cadere una pioggerellina fitta e penetrante, coperte e impermeabili apparirono numerosi, gli agenti erano stufi e stanchi, i lavoratori cercarono di asserra­gliarsi tutti nella sede, ma il posto mancava, molti anda­rono a casa a dormire, si aveva la sensazione che almeno per il momento non sarebbe accaduto nulla, e le volontà si allentavano un poco. 'I dirigenti impartivano disposizioni per la notte, una notte di catrame e di acqua molle e puzza di marcio. I bar dell'angiporto erano pieni di marittimi e di operai, molti incappucciati negli impermeabili lucidi e neri venivano a curiosare e s'informavano di cosa stava accadendo, a palazzo, Tursi la discussione notturna continuava, chi era andato a dormire a casa si sentiva un po' in colpa, e dopo poche ore tornava, tutti sarebbero ritornati al mattino, anche i più stanchi o semplicemente i più pigri.

«Abbiamo cominciato, poi si vedrà...» Questa frase correva sulla bocca di molti


(Da Guido Seborga “Ergastolo” Ceschina 1963, Spoon River 2009)


Guido Seborga
Morte d'Europa/Ergastolo
Spoon River, 2009
15 euro

venerdì 14 gennaio 2011

Santoun. Presepi della Provenza e delle Alpi


SANTOUN A ESPACI OCCITAN A DRONERO


A Espaci Occitan, sino al 30 gennaio 2011

“Santoun. Presepi dalla Provenza alle Alpi”

mostra a cura di Elisa Salvalaggio,
per gentile concessione del Parco Naturale Val Troncea.


In esposizione nei locali del Museo Sòn de Lenga di Espaci Occitan a Dronero, la mostra accompagna il visitatore attraverso la storia e la tradizione del presepe dei Santoni, (divenuto celebre non solo in Provenza ma in tutto il mondo), fino ad illustrare anche tutte le usanze correlate, culinarie, artistiche e musicali. Per l’occasione è stato allestito un presepe in perfetto stile provenzale che conduce il visitatore in un suggestivo viaggio tra immagini, testi ed ambientazioni sulle tradizioni natalizie provenzali. Dalla Provenza fino a giungere in Piemonte con un interessante e colorato percorso attraverso le tradizioni natalizie di due terre da sempre strettamente legate.


La mostra è visitabile ogni domenica in orario 14.30-18.


giovedì 13 gennaio 2011

Primum vivere




Confessiamo che il testo, che presentiamo oggi, ci ha suscitato non poche perplessità, più sulla forma che sul contenuto che comunque condividiamo solo parzialmente. Pensiamo che alcuni passaggi, chiari per chi già si colloca all'interno del quadro teorico a cui il testo fa riferimento, andrebbero maggiormente sviluppati se ci si rivolge a un pubblico più vasto e indifferenziato come quello di Vento largo. Abbiamo comunque deciso di pubblicarlo sperando che questa intelligente "provocazione" susciti altri interventi. A tal fine pubblicheremo nei prossimi giorni il testo del gruppo di lavoro della Libreria delle donne di Milano a cui l'intervento di Betti fa riferimento.


Betti Briano

Primum vivere



L’attuale contesa sul lavoro ed il discorso pubblico che è cresciuto intorno alla ‘questione Fiat’ mi appare persino più straniante – e temo che in questo caso non sia un bene- delle vicende degli anni ’70, per non parlare degli anni ’80, che, a fronte della presa di coscienza femminista, hanno portato me, come molte altre donne, a ritrarre lo sguardo dalla politica ‘maschile’.
La prima semplicissima domanda che mi viene è: dove stanno le donne in quel contesto e cosa pensano a partire dalla loro condizione? In questi 40 anni esse sono entrate in massa anche nelle fabbriche e ciononostante, a parte i casi in cui costituiscono la totalità della forza lavoro, la loro esperienza stenta a prendere vita in parole e racconti originali. Penso, d’altronde, che non sia per nulla scontato che il loro sentire risulti contenuto ed espresso dalle parole e dagli atti di chi ne detiene la rappresentanza.
Oltre alla generale crisi di tutti i legami di rappresentanza, non si può in questo caso non registrare un ulteriore elemento degenerativo delle dinamiche sociali, una sorta di regressione maschilista, quasi un colpo di coda o un disperato tentativo di restaurazione di perdute certezze patriarcali. La polarizzazione e la violenza del conflitto, mettendo fuori gioco qualunque espressione di intelligenza mediatrice e capacità relazionale e unitiva, comporta l’inevitabile cancellazione della soggettività femminile e l’esaltazione del tradizionale processo di ‘reductio ad unum’ ad opera del discorso maschile.
L’oggetto del contendere e le armi in uso non risultano meno escludenti. Tanto accanimento non si sviluppa intorno alle sorti del pianeta o a progetti di buona vita e di felicità collettiva, ove di solito le donne si trovano ad essere protagoniste e spesso trainanti, ma a causa del Mercato con i suoi classici componenti e derivati ( Pil, produttività, redditività, sviluppo, crescita, ecc..), come se da questi dipendesse necessariamente l’esistenza e il benessere dei viventi sulla terra. Gli argomenti a confronto risultano comunque interni e subalterni a quella ‘cultura del mercato’, tanto quelli di chi scende in campo sotto il segno della rivincita del capitale, quanto quelli di chi si schiera pur in vario modo a favore del lavoro, entrambi brandendo categorie, griglie concettuali e principi che trovano corrispondenza nella nostalgia e nel rimpianto più che alla realtà.
In questa esaltazione edipica, ciò che proprio non entra in scena è intanto il pensiero autentico di chi è coinvolto/a in prima persona, e tra quelli che dibattono almeno un embrione di coscienza critica rispetto alla ‘divinizzazione del mercato’, sia che esso rappresenti un dio/padre amato oppure odiato, e al suo divenire misura delle relazioni sociali e umane.
Tanta prova di ottusità del reale spiazza a fronte dell’evidenza che le donne stanno invece dimostrando con pratiche politiche e soprattutto con le proprie strategie esistenziali che altre sono le misure della civiltà: la qualità della vita dei singoli e della collettività, l’armomia con l’ambiente, l’amore per il passato e la preoccupazione del futuro dei viventi e della natura, la cura dei più deboli, ecc.. Esse contrattando ogni giorno, anche nelle situazioni più orribili e discriminanti, le condizioni dell’esistenza propria, dei figli e delle famiglie, indicano i principi di una differente economia al cui centro non stia la produzione per il profitto ma la produzione e lo scambio per la vita e per tutto ciò che la promuove e la rende felice.

La massima ‘Primum Vivere’ che compare nel titolo racchiude il senso della ‘rivoluzione’ avviata dalla politica delle donne: mettere al centro della scena la vita di uomini e donne in carne ed ossa, proprio in quanto l’essere viventi costituisce imprescindibilmente la prima determinazione dello stare al mondo ed il sapere primario degli esseri umani.
Il motto non è mia invenzione, ma è preso da un eccezionale testo, che, mentre in Italia e anche all’estero, ha riscosso grande interesse, a Savona sarebbe passato completamente inosservato, se le Eredi della Biblioteca delle Donne non ne avessero fatto occasione di discussione nel 2010, tentando anche di informare e coinvolgere donne che per ruolo politico si riteneva potessero essere interessate, ma constatando ancora una volta l’impermeabilità agli stimoli della classe politica savonese di ambo i sessi.
Il testo, scritto dal Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano, è stato pubblicato un anno e mezzo fa, ma risulta quanto mai attuale ed appropriato al contesto cui ho fatto riferimento e in grado di parlare a donne e uomini; è il motivo che mi ha convinta a estrapolare alcuni i punti che mi paiono più significativi e portarli all’attenzione di un pubblico più vasto.
Si tratta di un manifesto politico sul lavoro, ‘Immagina che il lavoro’ è il suo titolo, esce non a caso come numero speciale di Sottosopra ( prendendo il nome di ‘Sottosopra Rosso’), la rivista che negli ultimo quattro decenni ha segnato e indirizzato le più importanti svolte della politica delle donne.
La svolta scaturisce dalla presa d’atto che le politiche di parità e di eguaglianza, non sussistendo un reale desiderio delle donne a rendere la propria vita uguale a quella degli uomini, si sono rivelate inefficaci e non fanno più presa, e che il femminismo, che abbiamo conosciuto finora non è più sufficiente a fronte del cambiamento epocale in atto con la fine del patriarcato.
Nel manifesto si legge “ primum vivere è possibile purchè si riesca a portare sempre più uomini ad agire nella quotidianità della vita”, affinchè anch’essi vengano coinvolti nel processo, già iniziato dalle donne, di presa di coscienza che ‘ l’esperienza e il sapere della quotidianità sono una leva per cambiare il lavoro e l’economia’.
L’esperienza del lavoro che le donne hanno al proprio attivo è sufficiente per portare a concludere che c’è una profonda discrasia tra il mondo del lavoro e le sue regole ( carriera, successo,merito, ecc..) e la possibilità di una libera espressione di sé e delle proprie aspirazioni. Il lavoro retribuito, inoltre, risulta avulso e anche in conflitto con l’altro lavoro non retribuito che ogni donna svolge con grande impiego di energie, ma anche di invenzione e creatività.
Nonostante che le aziende ricerchino nel lavoro femminile la maggiore competenza cognitiva e relazionale, che deriva proprio dall’esperienza del lavoro di cura dell’esistenza, questo di più non trova riconoscimento e non entra in alcun modo nella contrattazione( se non in pochi fortunati casi individuali).
Si pone, pertanto, il problema di far emergere tutta la massa del lavoro ‘necessario per vivere’
e di farlo divenire ‘una leva per il cambiamento dell’economia’. Solo se il mix vita/lavoro diverrà misura e riferimento della contrattazione, la donna potrà far divenire il differente modo di stare nel mercato del lavoro leva e punto di forza per negoziare la propria condizione.
Il discorso paritario di redistribuzione del lavoro di cura tra i sessi, d’altronde, non ha mai fatto presa, perché si scontra con l’ineliminabile realtà rappresentata dalla differenza sessuale e dall’esperienza materna. Le donne, che pure hanno accettato il lavoro fuori casa, non solo per meri motivi economici, ma come realizzazione e proiezione di sé nella società, non intendono rinunciare ad occuparsi in prima persona dei figli in tutte le fasi della loro crescita; ove sono costrette a delegare anche in parte i propri compiti, ciò avviene non senza angoscia e traumi emotivi.
Il mondo del lavoro che conosciamo si è costituito sul presupposto che chi svolge il lavoro produttivo si affida e fa riferimento a chi sta a casa per quello riproduttivo. La possibilità di tenere insieme produzione e riproduzione è invece la sfida del nostro tempo e la competenza femminile nel portare avanti e conciliare lavoro e maternità non solo non deve più costituire un handicap sociale, ma divenire risorsa e ricchezza da portare al mercato.
Il ‘di più’ che le donne oggi possono far emergere e portare a contrattazione rappresenta la risposta nuova alla crisi del mercato e al dissolvimento delle ideologie vecchie e nuove che l’hanno sostenuto e rappresenta anche la ‘radice’ di una economia sociale, nella quale trovino composizione le ragioni della produzione con quelle della vita, ove il mercato non è più il luogo dove si scambiano le merci, ma ove si confrontano risorse e desideri, aspirazioni individuali e progetti collettivi.
La proposta di Sottosopra Rosso parte dalle donne ma , come si è detto, interessa anche gli uomini, già oggi e non in un lontano futuro, poichè la possibilità di negoziare non solo reddito, tutele o diritti ma anche libertà e opportunità, qualità e finalità e non solo quantità della produzione, tempi di vita insieme a tempi di lavoro, costituiscono un guadagno per tutti e indicano una prospettiva di civiltà cui, chiunque oggi abbia percezione del rischio di barbarie che stiamo correndo, dovrebbe guardare.

Per ritornare alla crisi industriale, mi viene da pensare che se le donne potessero dire con proprie parole, anziché attraverso luoghi comuni e schemi altrui, la loro esperienza di vita e di lavoro, potremmo trovarci di fronte a desideri e richieste impensati ed incompresi nei discorsi correnti, che più vengono ripetuti più suonano ‘vuoti’ e ridondanti. Se le donne come gli uomini, da qualunque parte della barricata si trovino in questa fase particolarmente drammatica, assumessero il ‘primum vivere’, a misura delle loro strategie, forse vedremmo in campo proposte che uniscono anziché anatemi e incomunicabilità, forse vedremmo all’opera un barlume di intelligenza creativa al posto della smania distruttiva, che non può non apparire il paradigma dell’agonia del sistema patriarcale.

Betti Briano, rappresenta da sempre il perno centrale su cui ha ruotato l'intera esperienza del movimento femminista a Savona di cui rappresenta anche la memoria storica. Fondatrice della Biblioteca delle Donne, anima oggi il gruppo di lavoro Eredi della Biblioteca delle Donne.