TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 27 ottobre 2014

Un nuovo libro sul Finalese


In uscita in libreria l'ultimo libro di Giuseppe Testa, caro amico di Vento largo, che da anni porta avanti una ricerca attenta e approfondita sulla storia e la cultura del Finalese. Ricordiamo, fra i tanti suoi contributi, "Le strade di ieri", uno studio esaustivo sulla storia delle vie di comunicazione dal neolitico al XIX secolo. 

venerdì 24 ottobre 2014

Memoria fossile



Sabato 25 ottobre 2014 alle ore 17.30 verrà presentata, con la presenza dell’autore, l’anteprima del film cortometraggio Memoria Fossile; una rilettura metaforica della storia recente della città di Savona.

Il film, della durata di 15 minuti, è stato selezionato in questi giorni al Tirana Film Festival nella sezione short film competition.

Nato da una coproduzione gargagnànfilm e Associazione Geronimo Carbonò, grazie al cofinanziamento della Fondazione De Mari, con la regia di Diego Scarponi viene presentato per la prima volta al pubblico savonese.

“E’ qui, dove la natura viene respinta oltre gli altiforni, al di là dei gasometri, che un giorno sono arrivati a lavorare alcuni dei più celebri scultori contemporanei. Fra queste strutture, fra i laminati, le bramme d’acciaio, i pani di ghisa, in un cielo sempre carico di acri velature, essi hanno realizzato le loro opere. Gigantesca e apocalittica, si erge tra i fabbricati anonimi della stazione. Le colline lontane, sembrano appiattirsi nel cielo.” Estratto da Memoria Fossile (2014)

Il cortometraggio Memoria Fossile precederà il film in prima visione della normale programmazione del NuovoFilmStudio da venerdì 24 ottobre a lunedì 27 ottobre.


mercoledì 15 ottobre 2014

Raffaele K. Salinari, Il turbamento dell’altalena. Un gioco sacro



Volare alti nel cielo, staccarsi da terra, salire. Questo in poche parole il senso dell'altalena. Una riflessione affascinante ne delinea origini mitiche e rivisitazioni rituali.


Raffaele K. Salinari

Il turbamento dell’altalena. Un gioco sacro




«Luce luce lon­tana, più bassa delle stelle, quale sarà la mano che ti accende e ti spe­gne? Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un giorno la pren­derò come fa il vento alla schiena…». Così Fabri­zio De Andrè poe­tizza, e dun­que rin­nova, una vec­chia sto­ria: quella di Eri­gone, la ver­gine sposa di Dio­niso tra­sfor­mata poi in costel­la­zione, che fondò il mito dell’altalena.

Ma che senso ha ricer­care que­ste ascen­denze arcai­che, richia­mare i signi­fi­cati sacri, gli usi visio­nari? In fondo l’altalena è solo un gioco, un inno­cente pas­sa­tempo per bam­bini che però, qui sta l’arcano, mai lascia indif­fe­renti, sem­pre turba l’anima in modo inspie­ga­bile. Forse è per­ché viene da un tempo lon­tano, quando le distanze tra l’umano e il divino non erano, come oggi, incom­men­su­ra­bili, e quel gioco sim­bo­leg­giava la loro con­giun­zione: una pra­tica esta­tica, per rige­ne­rarsi al cospetto della zōḗ.

Nell’antica Gre­cia zōḗ signi­fi­cava Vita, senza nes­suna carat­te­riz­za­zione ulte­riore e senza limiti: esi­stenza incon­di­zio­nata. E que­sta zōḗ, che non ha con­torni e nep­pure defi­ni­zioni, ha il suo sicuro oppo­sto in thá­na­tos, la morte. Ciò che in zōḗ risuona in modo certo e chiaro è «non morte»: qual­cosa che non la lascia avvi­ci­nare a sé; da que­sto Bataille vedrà nell’erotismo l’affermazione della Vita sino den­tro la morte.

Rileg­gere un mito, in realtà, signi­fica ren­derlo attuale; Schel­ling dice che nulla di ciò che è, e di ciò che diviene, può essere e dive­nire senza che un’altra cosa con­tem­po­ra­nea­mente sia e divenga, poi­ché all’interno della natura stessa non esi­ste nulla di ori­gi­na­rio, nulla di asso­luto e per sé stante: gli atti di culto che hanno pre­ce­duto quelli attuali non erano sem­plici gesti di super­sti­zione dovuti all’ignoranza dei feno­meni natu­rali, ma crea­zioni pos­senti gene­rate da que­sta consapevolezza.



La ver­ti­gine e la maschera

L’altalena è dun­que un gioco ori­gi­na­ria­mente sacro, ma che tipo di gioco è? Secondo Roger Cail­lois nel suo La ver­ti­gine e la maschera, essa risponde al prin­ci­pio dell’Ilinx, della «ver­ti­gine»: l’ebbrezza che strappa al mondo razio­nale e mette, sep­pur per un solo momento, sull’orlo dell’imponderabile, espo­sti alla visione del gorgo — que­sto signi­fica in greco la parola Ilinx- nel quale gor­go­gliano le forze che gover­nano il mondo senza che le si possa mai governare.

Ancora e sem­pre l’attrazione per la «ver­ti­gine» resta una neces­sità della vita psi­chica; anche se la civi­liz­za­zione odierna l’ha voluta con­fi­nare in luo­ghi sepa­rati — come i Luna Park nei quali l’ebbrezza “nor­ma­liz­zata” non deve aprire le porte all’incontro con le forze della natura — una libera e sem­plice alta­lena, con il suo movi­mento “lunare”, ciclico, può gene­rare un fugace incon­tro con l’Intelligenza della zōḗ.

Per­ché il cielo, ed il mondo sotto di esso, si muo­vono con movi­mento cir­co­lare? Si chiede l’egizio Plo­tino nelle Enneadi, e lui stesso risponde: per­ché imi­tano l’Intelligenza.

E il movi­mento cir­co­lare, pro­se­gue il filo­sofo: «È un movi­mento della coscienza, della rifles­sione, e della vita che ritorna su se stessa, che non esce mai da sé e non passa ad altro, appunto per­ché deve abbrac­ciare tutto in sé. Ma non l’abbraccerebbe se rima­nesse immo­bile, né avendo un corpo, man­ter­rebbe in vita le cose che con­tiene: infatti la vita del corpo è movi­mento. Sic­ché il movi­mento cir­co­lare risulta com­po­sto del movi­mento del corpo e di quello dell’anima, e sic­come il corpo si muove per natura in linea retta, e l’anima lo trat­tiene, dai due deriva quel movi­mento che ha del movi­mento e della quiete».

E allora, nes­sun gioco come l’altalena può sim­bo­leg­giare meglio la visione di un corpo e di un’anima uniti nel gene­rare que­sta com­bi­na­zione di quiete e movi­mento che riflette, sul piano del micro­co­smo umano, l’Intelligenza stessa che ordina ed abbrac­cia il Cosmo.

«Io, se non lo sapete figliuoli, vi ho data vita per mezzo della voluttà e del moto» dice la Venere rina­sci­men­tale e neo­pla­to­nica di Mar­si­lio Ficino, divi­nità della Vita che genera altra vita secondo «voluttà e moto»; prin­ci­pio fem­mi­nile che for­ni­sce alla zōḗ quell’animazione carat­te­riz­zante pro­pria delle vite par­ti­co­lari: le sin­gole bíos.

Venere, «anima del Mondo» secondo Plo­tino, agi­sce dun­que attra­verso il moto ondeg­giante che il suo pare­dro, Eros, sug­ge­ri­sce ai corpi. E come non asso­ciare que­ste carat­te­ri­sti­che alle sen­sa­zioni ecci­tanti, ero­ti­che, che pro­viamo in alta­lena: la voluttà sen­suale evoca il suo moto, il suo moto ondeg­giante porta seco la voluttà.

Ma que­sta sen­sua­lità, l’erotismo del don­do­lio, arriva a noi dalla tra­sfor­ma­zione di un gioco — l’altalena — che anti­chi miti descri­vono come sim­bo­liz­za­zione della morte; per que­sto il nesso tra morte ed ero­ti­smo sfugge a chiun­que non ne veda il senso reli­gioso! Inver­sa­mente, il senso delle reli­gioni sfugge a chiun­que tra­scuri il legame che esso pre­senta con la morte e l’erotismo.

Esten­dere la trama delle ana­lo­gie signi­fica essere soste­nuti, nella nostra ricerca, dalla tela della realtà; que­sta pre­ziosa unità ana­lo­gica poten­zia il nostro essere nel Mondo.

Un obiet­tivo esi­sten­zial­mente ed essen­zial­mente poli­tico dun­que, poi­ché que­sti ter­mini sono aspetti di uno stesso dive­nire, di una potenza dell’esserci che mani­fe­stiamo attra­verso la nostra sin­go­la­rità pie­na­mente dispiegata.



Il mito greco: Erigone

Ecco, allora, il mito delle ori­gini: un pastore di nome Ica­rio rice­vette da Dio­niso il segreto del vino. Di que­sto net­tare egli fece dono ai suoi col­le­ghi pastori che, cre­den­dosi avve­le­nati, lo ucci­sero. La fedele cagna Maira corse a cer­carne la figlia Eri­gone che, di fronte al cada­vere del padre, lan­ciò una male­di­zione prima di impic­carsi per il dolore: da quel giorno, nella ricor­renza del suo gesto, tutte le ver­gini si sareb­bero impic­cate sino a quando gli assas­sini del padre non fos­sero stati tro­vati ed il suo sacri­fi­cio espiato.

E così andò; di fronte a quel sus­se­guirsi di impic­ca­gioni ver­gi­nali gli abi­tanti di Atene si rivol­sero all’oracolo del­fico, che sen­ten­ziò la neces­sità di inven­tare un gioco che potesse sim­bo­leg­giare l’impiccagione senza cau­sare la morte. Così nac­que il rito dell’altalena.

Ma, per com­pren­dere appieno il mito, dob­biamo situarlo all’interno della sua evo­lu­zione: le sto­rie non vivono mai vite soli­ta­rie, sono inse­rite in un grande albero del quale dob­biamo ritro­vare le radici attra­verso i rami.

Il fon­da­mento sto­rico cul­tuale sul quale si basa que­sta rico­stru­zione del rito tratto dal mito risale ad un’epoca molto più remota: alla tau­ro­ca­tap­sia minoica in onore della Grande Dea medi­ter­ra­nea. Il salto tra le corna del toro, infatti, sim­bo­leg­giava il moto oscil­lante dell’altalena sulla quale stava seduta la Dea, men­tre l’animale era una sua ipo­stasi teriomorfa.

A riprova di ciò, nella zona che cir­conda il palazzo di Aghia Triada, presso Phae­stos, venne tro­vata una sta­tuina di ter­ra­cotta, risa­lente al XVI secolo a.C., che rap­pre­senta una figura fem­mi­nile che si don­dola in alta­lena. Il luogo di rin­ve­ni­mento era un pic­colo reli­quia­rio e la sta­tuetta, sor­mon­tata da due uccelli che stanno per spic­care il volo, forse media­tori tra il mondo dei mor­tali e quello degli dei, evoca, all’interno dell’arte minoica, l’ipostasi della divi­nità che, in que­sta cul­tura, signi­fica l’altro da sé, lo «spet­ta­tore divino».



A Mal­thi in Mes­se­nia e a Mari in Meso­po­ta­mia si tro­va­rono altre due sta­tuette della Dea, risa­lenti allo stesso periodo, seduta e appron­tata per la sospensione.

Una figura fem­mi­nile in trono che doveva essere desti­nata a don­do­larsi la tro­viamo anche in un san­tua­rio della dea babi­lo­nese Nin­hur­sag, risa­lente al III mil­len­nio a.C., come pure in varie parti della Gre­cia sono state rin­ve­nute figure pre­i­sto­ri­che che, come gli oscilla romani, erano desti­nate allo stesso scopo.

Alle ori­gini, dun­que, la sfera del mito e del suo rito appare molto più ampia e deci­sa­mente meno tin­teg­giata di toni oscuri rispetto al mito greco, essendo cer­ta­mente pre­sente il tema della morte ma, più ancora, quello della rinascita.

E di morte e rina­scita parla il sim­bolo più cono­sciuto di Cnosso, il regno della Grande Dea: il labi­rinto. «Una grande figura fem­mi­nile della cer­chia dio­ni­siaca apparve su una tavo­letta di Cnosso, in un con­te­sto di poche parole senza nomi; e tut­ta­via fu il primo per­so­nag­gio divino della mito­lo­gia greca che poté essere imme­dia­ta­mente cono­sciuto […] è la Signora del Labi­rinto: essa deve essere stata una Grande Dea. […] Socrate, nel dia­logo che Pla­tone pub­blicò con il titolo di Euti­demo, nominò il laby­rin­thos e lo descrisse come una figura in cui è faci­lis­simo rico­no­scere una linea a spi­rale o a mean­dro che si ripete all’infinito. […] Sia la spi­rale sia il mean­dro vanno intesi come per­corsi che si fanno invo­lon­ta­ria­mente avanti ed indie­tro, se si con­ti­nua a seguirli»; così ci dice Keré­nyi nel suo Dio­niso.

E «Io sono il tuo labi­rinto… », dirà Dio­niso ad Arianna nella poe­sia di Nie­tzsche. Arianna «moglie di Dio­niso», come dice Euri­pide nell’Ippo­lito, è una divi­nità lunare, legata alla parte umbra­tile dell’esistenza, come Per­se­fone e Demetra.



Su alcune monete di Cnosso la tro­viamo raf­fi­gu­rata su una fac­cia, men­tre su quella oppo­sta com­pa­iono i mean­dri del labi­rinto con iscritta una falce di luna. Que­sta sua carat­te­ri­stica affi­nità con la costru­zione deda­lica le con­sen­tirà di orien­tare Teseo, ma anche di iden­ti­fi­carsi con il movi­mento dell’altalena, che ripro­duce le fasi lunari nel loro con­ti­nuo muta­mento: come i mean­dri del labirinto.
Le tre fasi della luna si riflet­te­vano anche nella figura della Grande Dea come ver­gine, ninfa e vegliarda. Altra iden­ti­fi­ca­zione fu quella che vedeva la ver­gine asso­ciata all’aria, la ninfa alla terra e la vegliarda al mondo infero.

Que­ste let­ture get­tano luce anche sulla moda­lità della morte di Arianna, o di una delle sue morti, quella per sui­ci­dio mediante impic­ca­gione, che la iden­ti­fi­cherà poi con Eri­gone. Il mito, in que­sto caso «esi­sten­ziale» — come lo sto­rico delle reli­gioni Raf­faele Pet­taz­zoni defi­niva quelli che sim­bo­liz­zano le fasi della vita — non va sepa­rato dal rito che lo richiama e lo attualizza.

E allora pos­siamo pen­sare all’altalena come ad un gioco che “svolge” il labi­rinto; una sorta di tra­sfor­ma­zione del per­corso ter­re­stre, forse in ori­gine una danza, in moto pen­do­lare: la tra­iet­to­ria, che richiama la falce di luna, ne risolve i mean­dri in eterne oscillazioni.

Luna ed alta­lena diven­gono così le facce di una meta­fora aerea che richiama le fasi di una perenne ricerca inte­riore, mai ter­mi­nata, ine­sau­sta; una prova con­ti­nua, a tratti mor­tale, che sem­bra tor­nare inces­san­te­mente al punto di par­tenza, e della quale il labi­rinto è sem­pre stato il sim­bolo più immediato.

Anche nei Misteri di Eleusi le danze labi­rin­ti­che rap­pre­sen­ta­vano il cam­mino dell’anima verso la sua libe­ra­zione; i motivi a mean­dro, pre­senti in maniera ubi­qui­ta­ria in ogni tempo e luogo, sono un sim­bo­lico rife­ri­mento alla zōḗ non pas­si­bile di inter­ru­zioni. Seguendo que­ste sug­ge­stioni capiamo per­ché nel palazzo di Cnosso il cor­ri­doio dal sof­fitto a mean­dri con­duce verso la prin­ci­pale fonte di luce della costru­zione, chiara sim­bo­lo­gia della rinascita.



Dio­niso e l’altalena

Que­sti rife­ri­menti ini­ziali ad Arianna, ed al labi­rinto come per­corso ripe­ti­tivo, un «avanti ed indie­tro», ser­vono ad inqua­drare le ascen­denze dio­ni­sia­che del mito fon­da­tore: la sto­ria di Eri­gone, l’«Arianna di Ika­rion» che diverrà la prima bac­cante, ver­gine e amante del dio; una delle tante per­so­ni­fi­ca­zioni della Grande Dea che, all’inizio della sto­ria medi­ter­ra­nea, pre­sie­deva al rin­no­va­mento eterno della Vita.

E allora entriamo più a fondo nel mito greco che, per primo, come tutti i miti, ci descrive la festa delle alta­lene, e fac­cia­molo guar­dando al fir­ma­mento, alla costel­la­zione cele­ste in cui è fis­sato per sem­pre. Se l’andare in alta­lena è un rife­ri­mento polare nel cielo micro­co­smico delle nostre imma­gini arche­ti­pi­che, è natu­rale che abbia un cor­ri­spet­tivo pro­prio nella costel­la­zione che ci narra la sua sto­ria: la Ver­gine o, in altre ver­sioni, Sirio.

Nel mito, ripreso da Era­to­stene, Sirio appare come la cagna Maira, la “scin­til­lante”, un nome pro­prio per una tale stella. È la «luce lon­tana» che si vede in inverno cui fa rife­ri­mento De Andrè nella sua can­zone Ho visto Nina volare, dove il mito­lo­gema dell’altalena viene ripreso in ogni suo aspetto.

È que­sta cagna, poi tra­sfor­mata da Dio­niso in lumi­noso astro, che tro­verà il cada­vere di Ica­rio, l’eroe del dêmos di Ika­rion, al quale il dio aveva deciso di far dono del vino. Ma, come spesso accade nelle rela­zioni dise­guali tra uomini e dei, nell’asimmetria che vige tra la fini­tezza dell’umanità e l’indifferenza delle divi­nità — direbbe Var­rone: par­chis­sime di mise­ri­cor­dia — il segreto pro­ce­di­mento si rivela, per il suo por­ta­tore, una maledizione.

Ica­rio, infatti, viene ucciso dai suoi amici — man­driani dei boschi di Mara­tona presso il monte Pen­te­lico — poi­ché accu­sato ingiu­sta­mente di averli avve­le­nati pro­po­nendo loro di gustare il net­tare senza tagliarlo con l’acqua, come Eno­pione più tardi con­si­gliò di fare. Dio­niso dun­que, il dio che muore e rina­sce, pro­ta­go­ni­sta della tra­ge­dia greca, signore della zōḗ, è all’origine del mito greco dell’altalena, che a lui sarà legata anche da altre pra­ti­che tutte ricon­du­ci­bili all’essenza del «dio dell’ebbrezza», quella situa­zione par­ti­co­lare di «vor­tice» del quale il vino è l’araldo.

Gli anti­chi mito­grafi, quelli pre­ce­denti Era­to­stene, dicono che dopo l’uccisione di Ica­rio da parte dei pastori che si cre­de­vano avve­le­nati, la cagna Maira, fedele com­pa­gna dell’emissario dio­ni­siaco, torna da sua figlia Eri­gone per avver­tirla della tra­ge­dia paterna. Comin­cia così l’angosciante erranza della ragazza alla ricerca del corpo amato, un topos che include, tra molti altri, la ricerca del cada­vere smem­brato di Osi­ride da parte della sorella-amante Iside.



Signi­fi­ca­tiva pre­fi­gu­ra­zione di quello che sarà lo stru­mento sim­bo­lico che libe­rerà le ver­gini atti­che dalla sua male­di­zione, l’altalena appunto, Eri­gone, «copiosa figlio­lanza», tra­duce il suo nome Gra­ves, oppure «nata all’alba» — tutti appel­la­tivi che la inclu­dono in uno degli aspetti della Grande Dea — viene, nei miti più anti­chi, chia­mata Alê­tis, l’errante, con rife­ri­mento non solo all’errabonda e dispe­rata ricerca del cada­vere, ma anche al suo carat­tere lunare, di perenne muta­zione astrale.

La luna e la morte — aspetti della Grande Dea — si sovrap­pon­gono alla figura di Eri­gone sulla sua alta­lena, così come lo sbocco del mito sarà verso la rige­ne­ra­zione e la vita.

Eri­gone erra dun­que come la luna nel cielo, senza posa. A volte scom­pare, nera ed invi­si­bile, minac­ciosa, come inghiot­tita dal mondo infero. Se per la civiltà greca Dio­niso è ora­mai il dio dellazōḗ, la vita senza carat­te­riz­za­zioni, Eri­gone, figura epi­gona della Dea, ne è il prin­ci­pio ani­ma­tore, carat­te­riz­zante: colei che dà l’anima alle bíos.

La zōḗ indif­fe­ren­ziata, infatti, cerca l’animazione: per carat­te­riz­zare le sue forme, le sue bíos, ha sem­pre biso­gno del prin­ci­pio fem­mi­nile. Que­sto «fare anima» — mutuando la cele­bre espres­sione di Keats — è neces­sa­rio alla zōḗ per tra­scen­dere il suo sta­dio semi­nale, toti­po­tente ma indi­stinto, e tra­sfor­marlo in atto. Eri­gone, quindi, è il prin­ci­pium indi­vi­dia­tio­nis di Dioniso.

Qui la com­ple­men­ta­rietà sim­bo­lica tra le due divi­nità è evi­dente; si può dire che siano aspetti dello stesso Prin­ci­pio che si esprime attra­verso attri­buti diversi; dalla rela­zione tra Eri­gone e Dio­niso nascerà anche un figlio, Sta­fi­los, che può essere inteso come la zōḗ che si rende carne: Sta­fi­los morirà e risor­gerà, come il dio stesso.

Anche con Arianna avviene tutto que­sto: una ver­sione del mito ci narra della «Signora del Labi­rinto» che muore di parto e del figlio nato nell’Ade; una nascita mistica che riprende così il mito­lo­gema della Grande Dea che pro­crea la sua discendenza.

«E così Arianna divide con tutti coloro che appar­ten­gono a Dio­niso un destino tra­gico e, coi più eletti di que­sti, anche la sua libe­ra­zione dall’Ade dopo la morte e la sua ele­va­zione all’Olimpo», ci ricorda Otto.

In altre ver­sioni del mito, nar­rate da Igino, Apol­lo­doro ed Eliano, è Dio­niso stesso che viene ucciso dai pastori, ed Eri­gone piange il suo sposo affetta da una forma di mania che la raf­fi­gura così come la prima bac­cante. Si impicca dun­que ad un albero che potrebbe essere anche una vite sca­tu­rita dal corpo dell’amante; in tempi lon­tani que­sta svi­lup­pava un vero e pro­prio tronco, ancora visi­bile in alcuni musei di sto­ria natu­rale, come quello di Firenze.

Gra­ves sostiene invece l’ipotesi del pino, nomi­nato da Vir­gi­lio nelle Geor­gi­che: lo stesso albero sotto il quale il fri­gio Attis fu castrato. In altre nar­ra­zioni dal corpo del dio sca­tu­rirà la vite, e il suo sacri­fi­cio darà agli uomini il mezzo per rag­giun­gere l’ebbrezza, attra­verso la quale egli tor­nerà ogni volta a rina­scere, con­ti­nuando così il ciclo della Vita.

Eri­gone dun­que, come nel mito di Iside e Osi­ride, ter­mina il suo vagare al ritro­va­mento del corpo del padre o amante, Ica­rio o Dio­niso, che l’antica festa ate­niese delle Anthe­stḗ­ria — la festa dei ger­mo­gli — faceva coin­ci­dere col Giorno delle Broc­che (Choēs), nelle quali si tra­sfe­riva il vino per essere bevuto, ed in grandi paioli si cuci­nava la pan­sper­mia, una miscela di pro­dotti vege­tali che esal­ta­vano le forze vivi­fi­ca­trici della natura risorta. Lo stesso giorno le gio­vani ver­gini ricor­da­vano il sacri­fi­cio di Eri­gone andando sulle alta­lene, le Aiðra.

Era il momento in cui l’inverno vol­geva alla fine ed i fiori comin­cia­vano a spun­tare dalla neve resi­dua. Il verbo antheîn, che indica que­sto movi­mento flo­reale, dà appunto il nome alla festa,Anthe­stḗ­ria, ed al suo mese, Anthe­stē­rin.

I versi di un diti­rambo dice­vano: «Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori». Ma la scena del diti­rambo non era l’Atene nei giorni della festa, bensì un richiamo ai fiori che Per­se­fone stava cogliendo quando venne rapita da Ade, il signore del mondo infero. Ecco che torna, impe­rioso, il rac­cordo tra il gioco dell’altalena, la ver­gine impic­cata, e la sto­ria del dio che in que­sto periodo emerge dal mondo sot­ter­ra­neo por­tando con sé anche le anime dei defunti ad abbe­ve­rarsi alle broc­che col vino.

Le anime dei morti veni­vano chia­mate díspioi: le asse­tate, e non di sem­plice acqua ave­vano sete, bensì del vino dei píthoi, i grandi reci­pienti di argilla aperti nel primo giorno della festa e dai quali il net­tare dio­ni­siaco veniva tra­sfe­rito nelle broc­che, nelle choēs, che davano il nome al terzo giorno delle celebrazioni.



Qui ci tro­viamo immersi pie­na­mente in un’atmosfera fram­mi­sta di ebbrezza e spi­riti dei morti: dun­que aperta al puro ero­ti­smo, ne dedur­rebbe Bataille. Era que­sto delle Anthe­stḗ­ria, infatti, anche il tempo in cui Dio­niso, tor­nato dagli inferi, gia­ceva con le donne di Atene, tutte sim­bo­leg­giate dalla Basi­linna, la moglie dell’árchōn basi­leús.

In epoca romana lo stesso periodo veniva defi­nito Mun­dus patet: il mondo infero restava aperto, sep­pure per pochi giorni, ma senza l’ebbrezza dio­ni­siaca, e dun­que senza l’erotismo della festa ateniese.

E così, il giorno delle broc­che, le gio­vani anda­vano in alta­lena, in onore di Eri­gone; anche ai bam­bini era con­sen­tito don­do­larsi, per­ché quel giorno essi imi­ta­vano tutto quanto acca­deva pub­bli­ca­mente nella grande festa. I gio­vani Kuroi beve­vano il vino per la prima volta.

La rela­zione tra la morte e l’altalena dun­que, come vediamo dal mito, è diretta: essa è un’attività comun­que poten­zial­mente letale: per que­sto può sim­bo­leg­giare la tra­sfi­gu­ra­zione sim­bo­lica della morte pro­prio a par­tire dalle sue intrin­se­che caratteristiche.

Il legame tra l’altalena e la morte rituale durante le cele­bra­zioni dio­ni­sia­che è anche dovuto all’indubbio carat­tere cto­nio del dio poi­ché, come dice ica­sti­ca­mente Era­clito «Ade e Dio­niso […] sono un’unica e mede­sima cosa», a sot­to­li­neare la cifra infera di una divi­nità legata, per metà della sua esistenza/ciclo, al mondo dei morti.

Ed infatti, durante le Anthe­stḗ­ria risor­ge­vano le anime dei defunti ma anche i keres, forme che vei­co­la­vano mia­smi, influenze nefa­ste che dove­vano essere puri­fi­cate con kathar­moi. L’ultimo giorno della grande festa, in con­clu­sione di tutte le cele­bra­zioni, nelle case veni­vano scac­ciate que­ste entità insieme alle anime dei defunti, ora­mai appa­gate dai culti a loro dedi­cati e dalle liba­gioni di vino, col grido «fuori i keres, sono finite le Anthe­stḗ­ria!».

Ecco che, allora, come dice Otto, pie­nezza di vita e vio­lenza di morte, ambe­due sono in Dio­niso egual­mente misu­rate: nulla è atte­nuato, ma nulla è distorto.

Ma dove c’è Tha­na­tos c’è anche Eros, e la festa delle alta­lene è impre­gnata di sen­sua­lità e di vera e pro­pria ses­sua­lità, intesa e vis­suta anche come momento pro­ble­ma­tico della vita mulie­bre, in cui avviene un pas­sag­gio non sem­pre facile a compiersi.

Erne­sto De Mar­tino, nel suo stu­dio sui taran­to­lati, coglie appieno il legame tra fase pube­rale — dun­que ancora “vir­gi­nale” della vita fem­mi­nile — e la sta­gione suc­ces­siva, quella matri­mo­niale, con il cor­teo di pul­sioni sui­cide legate al tra­va­glio del momento.

La festa delle Aiðra assume dun­que un con­no­tato ses­suale evi­dente, dato che il giorno dopo si cele­bra­vano le nozze della regina con Dio­niso, e che la notte delle alta­lene era vista come pre­pa­ra­zione a que­ste. In sin­tesi le ver­gini, iden­ti­fi­can­dosi con Eri­gone, si pre­pa­ra­vano esse stesse all’incontro col dio, pro­prio come la loro eroina aveva fatto all’origine del mito.

L’idea che qual­cosa di alta­le­nante ser­visse come scon­giuro della cat­tiva sorte, auspi­cio beneau­gu­rale, o come gesto di puri­fi­ca­zione, la tro­viamo “imbal­sa­mata” anche nel rito romano deglioscilla, che richiama il mito ori­gi­na­rio sep­pur “disumanizzato”.

Nel Libro II delle Geor­gi­che (vv. 388 sgg.), infatti, com­pa­iono que­sti versi oltre­modo indi­ca­tori: «Et te, Bac­che, vocant per car­mina laeta, tibi­que oscilla ex alta suspen­dunt mol­lia pinu» (E te, Bacco, invo­cano con lieti carmi e in tuo onore appen­dono oscilla agli alti pini).

Il ter­mine latino oscilla, da cui l’odierno «oscil­la­zione», deriva da os-oris, bocca o più esten­si­va­mente fac­cia; pro­ba­bil­mente in ori­gine un’effigie del dio stesso. Dun­que è in onore di Dio­niso, durante le Paga­na­lia o le Semen­ti­vae fae­riae, feste della semina, che ven­gono fatte don­do­lare que­ste imma­gini. Durante i Com­pi­ta­lia invece, feste in onore dei Lari, veni­vano appese figu­rine in legno che rap­pre­sen­ta­vano gli schiavi e i bam­bini della fami­glia.

Nel periodo impe­riale, infine, ogni casa aveva, sospeso tra i por­tici, un oscil­lum raf­fi­gu­rante varie divi­nità, sem­pre con una qual­che ascen­denza o cor­re­la­zione dio­ni­siaca. A que­sto pro­po­sito un oscil­lum molto ben con­ser­vato è visi­bile nella chiesa di San Cle­mente in Late­rano a Roma, pro­ve­niente dal mitreo sottostante.



Maria e l’altalena

Anche la reli­gione cri­stiana ori­gi­na­ria assu­merà carat­teri dio­ni­siaci, basti pen­sare a Gesù che si defi­ni­sce «la vera vite» (Gio­vanni XV, 1–2) e come gli apo­stoli si deb­bano attac­care a lui «come grap­poli al tral­cio». L’anima cri­stiana si con­si­derò, come l’orfica, ser­rata al corpo come in un sepolcro.

La teo­lo­gia cri­stiana è in parte eso­te­ri­smo dio­ni­siaco: con­si­de­riamo sol­tanto la cen­tra­lità del vino come sim­bolo di resur­re­zione. Ma, forse più essen­ziale ancora, è la rela­zione tra la Madonna, ciò che resta della Grande Dea nella con­ce­zione patriar­cale cri­stiana, e Gesù, suo figlio, attra­verso un rito che implica una oscil­la­zione collettiva.

A Taranto, il Gio­vedì santo, la Madonna addo­lo­rata cerca il figlio morto nei sepol­cri alle­stiti presso le varie chiese. Osser­vando la pro­ces­sione che la accom­pa­gna si notano subito i Per­doni che, a piedi scalzi, i volti coperti da un cap­puc­cio (torna la maschera!), naz­zi­cano, cioè si cul­lano — que­sto signi­fica in dia­letto la parola — assu­mendo que­sta cam­mi­nata don­do­lante tutta la notte.

Anche chi porta la sta­tua naz­zica, come pure i fedeli tutti. Se si osserva lo sguardo della sta­tua, oltre il velo nero (Eros e Tha­na­tos) che lo adom­bra come fosse quello di una dan­za­trice del ven­tre — altra forma della maschera — si capi­sce che que­sto cer­care non è det­tato solo dal dolore, ma dalla volontà di dar­gli la pos­si­bi­lità di risor­gere: è lei che fa rina­scere il figlio.

Joseph Roth ne La cripta dei Cap­puc­cini dice ad un certo punto: «Sem­pre una madre aspetta il ritorno di suo figlio, del tutto indif­fe­rente se que­sti se n’è andato in un paese lon­tano, in uno vicino o nella morte».

E que­sta attesa è un sen­ti­mento attivo, una forma di volontà, e pro­duce una forza che tiene vivo il ricordo e dun­que viva la persona.

Quando que­sta volontà viene eser­ci­tata da una mol­ti­tu­dine di per­sone diviene un atto di fede in grado di rige­ne­rare la Vita.

Attis e Cibele, Dio­niso e la Grande Dea attra­verso la Basi­linna nelle Ante­ste­rie… sono gli ante­ce­denti divini del Cri­sto, così come Maria è ciò che ci rimane della Grande Madre.

L’ottica eccle­siale ovvia­mente capo­volge polar­mente la sim­bo­lo­gia: il patriar­cato cat­to­lico ha voluto tran­su­stan­ziare la natu­rale rina­scita della vita in quella della resur­re­zione eterna di un corpo morto, attri­buen­dola al potere del Dio padre.

Ha spez­zato così il nesso matriar­cale tra vita, morte e rina­scita, con la con­se­guenza evi­dente di far allon­ta­nare ancor più l’umanità da que­sto mondo e dal rispetto per la cicli­cità dell’esistenza e di chi l’assicura: sotto la croce a deporre il Figlio è la Madre.

E dun­que per il prin­ci­pio degli ele­menti costanti che regna nel mito­lo­gema della rina­scita del figlio auto­ge­ne­rato da parte della Madre– essendo lo Spi­rito Santo ema­na­zione di lei e non altro da lei — la let­tura auten­tica del rap­porto tra Maria e Gesù è chiara.

Que­sta non è una inter­pre­ta­zione ere­tica, ma solo l’evidenza della natu­rale evo­lu­zione che parte dal rap­porto tra la Grande Dea ed il suo pare­dro, prima figlio, dopo amante, poi in morte da Lei stessa fatto rinascere.

Se il fem­mi­nile ripren­desse le fila e rivol­tasse in que­sto senso la tela della realtà sim­bo­lica cam­bie­rebbe radi­cal­mente anche quella fattuale.



Una mode­sta proposta

Ecco, allora avan­ziamo, a mo’ di con­clu­sione, una mode­sta pro­po­sta, par­tendo dalla domanda: dove sono finite le alta­lene oggi? Per­ché nei par­chi pub­blici ai bam­bini ven­gono pro­po­ste quelle squal­lide appa­rec­chia­ture munite di cin­ture di sicu­rezza, con una escur­sione di poche decine di cen­ti­me­tri, basse ed impian­tate su basi di gri­gio tar­tan? Come faranno que­sti bam­bini espe­rienza del loro volo imma­gi­na­rio? Dove incon­tre­ranno la «ver­ti­gine»? Quando potranno, con la coda dell’occhio soc­chiuso nel sor­riso esta­tico del volo peri­co­loso, intra­ve­dere Dio­niso bam­bino che spunta nella luce del sole?

La scom­parsa delle alta­lene dai par­chi pub­blici è la prova pro­vata della vio­lenza cre­scente che il nostro modello di civi­liz­za­zione eser­cita sui bam­bini, ovvia­mente con la scusa della “sicu­rezza”. Pri­vati del sen­si­bile, essi si rifu­ge­ranno nell’insensibile, nel con­sumo senza sod­di­sfa­zione, poi­ché è solo l’investimento emo­zio­nale che immet­tiamo nel gioco che lo rende libi­di­ca­mente pro­dut­tivo, sod­di­sfa­cente; è il rischio della morte, e la sua visione, il vor­tice, che pene­trano sino all’interno delle nostre ossa sino agli ultimi fon­da­menti del san­gue, men­tre oscil­liamo peri­co­lo­sa­mente, a ren­dere il gioco per­fet­ta­mente dio­ni­siaco, ero­tico, libe­ra­to­rio e creativo.

Per ritro­vare qual­cosa del genere dob­biamo andare nei Luna Park con­tem­po­ra­nei, in cui enormi aggeggi mec­ca­nici ci fanno pro­vare sen­sa­zioni simili a quelle che una volta cer­ca­vamo sulla tavo­letta sospesa tra i rami di un albero. Ma oggi, a dif­fe­renza di quel tempo, l’illo tem­pore della nostra infan­zia, i ragazzi sono imbra­gati, legati da camice di forza den­tro mac­chine che fanno vivere, a paga­mento, un fugace bri­vido che non è né estasi né paura. L’altalena dei par­chi pub­blici odierni, con i suoi edul­co­rati epi­goni da Luna Park, sta dun­que a quella alta ed infi­nita di un tempo come la por­no­gra­fia d’accatto sta all’eros.

L’altalena vera, invece, evoca in noi un’energia che esige di essere imma­gi­nata. E non è forse que­sta sen­sa­zione di ricreare il futuro attra­verso le imma­gini, di cui abbiamo biso­gno per vivere l’infanzia? Di una «gioia incor­po­rea che ha appena dato ini­zio alla sua corsa», come scrive Shel­ley? Imma­gi­nare signi­fica innal­zare di un tono il reale; la gioia dell’altalena, del corpo in alta­lena, ripro­duce nel micro­co­smo della nostra oscil­la­zione ascen­sio­nale la stessa dina­mica dell’universo in espansione.

Forse pos­siamo arri­vare a pen­sare, chi scrive lo pensò molte volte, che se moris­simo nel punto mas­simo di ele­va­zione, il nostro corpo reste­rebbe li, sospeso nel cielo.


Il manifesto – 12 luglio 2014


Ombre al confine. Ebrei in fuga dalla Riviera alla Francia (1938-1940)


Una pagina tragica e poco conosciuta della storia del nostro Ponente ligure. Un libro da leggere, un appuntamento da non mancare.




sabato 11 ottobre 2014

Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti



Parlare di Gramsci oggi. Si può e in molti modi. A noi piace farlo così riprendendo un suo scritto giovanile (aveva 26 anni). In altra parte del blog abbiamo ricordato Mario Savio che mezzo secolo dopo, in un mondo profondamente mutato ma forse ancora più inumano, si alzò a gridare il suo dissenso. Ecco, finchè ci sarà un giovane che avrà il coraggio di alzarsi in piedi e dire forte il suo NO, la partita non può considerarsi persa . Per questo anche noi odiamo gli indifferenti.

Antonio Gramsci

Indifferenti

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.

L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti.

Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.

I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. 

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. 

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

"La Città futura", 11 febbraio 1917








giovedì 9 ottobre 2014

Agàpe. I valdesi ricordano Raniero Panzieri



I rapporti del fondatore dei Quaderni Rossi con Agàpe e il mondo valdese

Francesco Maria Iposi

50 anni fa moriva Raniero Panzieri



Ricordare Raniero Panzieri a cinquant’anni dalla morte, avvenuta il 9 ottobre 1964, significa riscoprire ciò che nella sua proposta rappresenta uno strumento utile alla comprensione del nostro tempo, anche alla luce dei rapporti che il pensatore «operaista» ha intrattenuto con il mondo valdese attraverso feconde collaborazioni concretizzatesi con l’esperienza dei Quaderni Rossi e gli appuntamenti del centro ecumenico di Agàpe (Prali) del dicembre ‘60 e dell’agosto ‘61.

All’universo protestante va il merito di aver prestato ascolto ad un esponente eretico dell’intellettualità socialista, oggi purtroppo dimenticato dalla storiografia ufficiale, anche di orientamento marxista. Dal tema dell’inchiesta operaia fino alla proposta di un recupero delle tematiche gramsciane dei consigli di fabbrica, sarebbero numerose le intuizioni panzieriane da riportare; ma due sono i punti sui quali si ritiene di poter concentrare l’attenzione in questa sede.

Panzieri - attento studioso di quanto accade nell’industria del miracolo economico - denuncia i limiti delle tradizionali forze della sinistra, le quali restavano ancorate alla tesi sull’arretratezza del sistema capitalistico italiano. Il fondatore dei Quaderni Rossi intende smascherare la neutralità dello sviluppo e costruisce la prima analisi demistificatrice della razionalità tecnologica scorgendo in essa il binomio sapere/potere: egli ritiene, marxianamente, che la divisione del lavoro abbia prodotto una scissione (tra le potenze intellettuali del processo produttivo e i lavoratori) che nell’epoca della grande industria separa la scienza facendone una potenza indipendente dal lavoro in grado di rafforzare il controllo del capitale.

L’evolversi della tecnologia va dunque inserito all’interno di questo processo e il rifiuto della neutralità di scienza e tecnica conserva un valore oggi andato perso: proprio l’epoca postfordista - segnata dallo sviluppo dell’informatica - getta uno sguardo spesso privo di una riflessione sulla presunta «bontà» del progresso tecnologico.



Un altro decisivo aspetto è la critica da sinistra dello stalinismo. In molti hanno sottolineato la felice intuizione di Panzieri in relazione alla necessità di una via d’uscita dal dogma sovietico che non fosse il compromesso socialdemocratico, ma pochi si sono soffermati sui contenuti delle contestazioni polacche e ungheresi del 1956 alle quali l’intellettuale operaista intendeva dare spazio e valore, proprio in quanto tentativi autenticamente socialisti di creazione di un’alternativa sociale più che partitica.

Una buona parte della sinistra, seppur antisovietica, non è stata capace di vedere nelle dissidenze dell’Est i semi di una novità, offrendo in questo modo la spalla a forze conservatrici che «usavano» i movimenti di opposizione al potere sovietico come dimostrazione della validità delle società occidentale.

Già nel ’56 Panzieri aveva compreso come le rivolte dell’Est fossero volte a rilanciare il significato etico di un socialismo delle libertà all’interno di una cornice di potere operario antiburocratico e antiautoritario fondato sulla democrazia diretta e sulla guida dei processi economici e sociali da parte dei produttori associati.

Un socialismo, quello panzieriano, inseparabile dalla democrazia, un’alternativa umanistica che egli cercò di seguire con coerenza anche quando preferì abbandonare le posizioni ufficiali, a costo di essere isolato. Credo che da evangelici, ancora oggi, possiamo riconoscere in Panzieri un compagno di viaggio di quella parola biblica che annuncia all’uomo la liberazione da ogni forma di oppressione.


http://www.riforma.it/

Storia di Albisola Superiore



mercoledì 8 ottobre 2014

500 anni di Carlo Domenico Del Carretto



500 anni di Carlo Domenico Del Carretto

Si svolgerà domenica 12 ottobre un'iniziativa culturale tra Saliceto, Paroldo e Finale.  In copertina lo straordinario ed enigmatico quadro nella basilica di San Biagio a Finalborgo dove il cardinale Carlo Domenico Del Carretto (che ambiva assurgere sul soglio di Pietro) riceve la tiara pontificia da san Domenico al cospetto della Madonna con il Bambino mentre il fratello Alfonso riceve la corona marchionale da Santa Caterina d'Alessandria. La manifestazione prevede 3 commemorazioni del marchese, grande mecenate in Saliceto, Finale, Paroldo, Calizzano e Millesimo nel cinquecentesimo anniversario della morte

SALICETO - DOMENICA 12 OTTOBRE

Ore 10:30 visita straordinaria ai quattro monumenti nazionali (Chiese di San Lorenzo, Sant’Agostino, San Martino e castello dei Marchesi Del Carretto) con inizio del percorso guidato dal cortile del castello.
Ore 15:00 incontro - studio nella “sala gotica del castello”
Interventi di: Guido Araldo - storico “Carlo Domenico Del Carretto: un grande personaggio del Rinascimento” Romano Salvetti - scrittore - “economie di valico - contestualizzazione” Massimo Centini - antropologo - “il malleus maleficarum e la caccia alle streghe ai tempi del cardinale”
Ore 17:00 visita ai monumenti edificati dal cardinale Carlo Domenico Del Carretto a Saliceto.


PAROLDO - SABATO 8 NOVEMBRE

Ore 15:00 incontro - studio nella “sala comunale”. Interventi di: Enrico Basso - Università di Torino - “Genova tardo medioevale tra il potere del mare e della montagna” Guido Araldo - storico - “Intorno al Cardinale - contestualizzazione storica” Fabio Bailo - storico - “Il valore della memoria” Fabrizio Bissacco - tour operatour - “Alta Langa: per un’identità futura di una terra antica”. - Coordina i lavori lo scrittore Romano Salvetti. Alla sera: bägna cäoda (cibo nato dall’incontro tra la Riviera, le acciughe, e le Langhe) e cerimonia del “mantello di san Martino”.


FINALE LIGURE - DOMENICA 16 NOVEMBRE


Giornata di visita e studio, patrocinata dalla Sovrintendenza ai Beni Architettonici e Archivistici della Liguria, Comune di Finale, Museo Archeologico di Finale, Istituto di Studi Liguri, Associazione Centro Storico di Finale, Associazione Celesia, UniTre, Biblioteca Medioteca di Finale Ligure, parrocchia basilica di San Biagio a Finalborgo


lunedì 6 ottobre 2014

Raffaele K. Salinari, Riti e miti del tuffo nel Tevere



Omaggio alla Dea Madre, processo simbolico di morte e rinascita, rito di fertilità. Viaggio nei significati di una tradizione millenaria ora diventata spettacolo per turisti in cerca di emozioni.

Raffaele K. Salinari

Riti e miti del tuffo nel Tevere

Ogni Capodanno si rinnova lo spettacolo del tuffo nel Tevere dal ponte Cavour. Riscoperto alla fine degli anni Ottanta dal simpatico Mister Ok, è in realtà il gesto epigono di una tradizione antichissima che attinge alla fonte di ascendenze mitologiche precise, già suggestivamente riprese da Pasolini nella ieratica scena del tuffo di Accattone dal Ponte degli Angeli a beneficio di lenoni e prostitute.

E allora, dove comincia questa storia e cosa resta oggi dei riti delle origini oramai confluiti in questa acrobazia dal sapore circense?

Iniziamo la sua genealogia con un estratto dell’articolo di Aldo Carotenuto Simboli di individuazione nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore in Roma, pubblicato sulla Rivista di Psicologia Analitica nel 1971: «Il 21 aprile 1917 una voragine si apre sotto un binario della linea Roma-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore: viene così scoperta una basilica sotterranea a tre navate, di cui la centrale termina in un’abside semicircolare.

Gli esperti hanno modo di stabilire che i muri perimetrali ed i pilastri erano stati ottenuti scavando prima il terreno secondo le forme e profondità volute, e poi riempendo gli scavi di malta e calce; il tempio era stato successivamente vuotato di tutta la terra attraverso un ampio foro adattato in ultimo a lucernaio; il pavimento della parte centrale veniva così investito dalla luce che cadeva dall’alto. L’aspetto più sorprendente della basilica, o almeno quello che più colpisce il visitatore, sta nella presenza di un gran numero di stucchi, perfettamente conservati, che riecheggiano alcuni temi fondamentali della mitologia greca.

Il giornale Notizie sugli scavi, nella prima comunicazione che della scoperta venne data al mondo scientifico, avanzò con molta prudenza l’ipotesi che il monumento fosse stato adibito al culto di qualche religione misterica. In seguito lo studioso belga Franz Cumont, notando che la caratteristica principale del tempio consisteva nel suo essere sotterraneo, si richiamò agli spelei mitriaci. Ma bisogna dire che la maggior parte della decorazione interna è in netta contraddizione con i riti connessi alla religione di Mitra: due soli elementi, il toro e i gemelli, potrebbero riallacciarsi a tale culto; però, come verrà chiarito, questi due stucchi si riferiscono a tutt’altra simbologia.

Nel 1923, infine, lo storico ed archeologo francese Jerome Carcopino dimostrava l’appartenenza della basilica ad una setta neopitagorica. Carcopino, con una buona dose di fortuna, si era imbattuto in un passo poco conosciuto di Plinio il Vecchio, là dove si accenna ad una certa erba che aveva la proprietà di rendere affascinante all’altro sesso chiunque riusciva a trovarla nelle campagne: cosa che capitò, dice una vecchia leggenda ripresa anche da Ovidio nelle Eroidi, a Faone, e la povera Saffo, innamoratasi perdutamente di lui senza esserne corrisposta, si uccise lanciandosi dal promontorio di Leucade. Ora, dice Plinio, a ciò credevano non solo quelli che si interessavano di magia, ma anche i pitagorici. L’episodio di Saffo fa parte degli stucchi della basilica, ed occupa anzi una posizione predominante: tutta la parte superiore dell’abside semicircolare.



In quest’abside appare una figura femminile sul ciglio di un promontorio. Sulla testa ha un velo gonfiato dalla brezza marina. Sembra che la fanciulla stia per tuffarsi nelle onde lievemente agitate del mare. Nella mano sinistra ha una cetra. Eros la spinge premendole col braccio le spalle. Nel mare un tritone stende un velo per riceverla, mentre un altro suona la buccina.

Su uno scoglio siede un giovane pensoso, con la guancia al palmo della mano. In alto si vede Apollo che impugna l’arco rituale. Lo stucco si riferisce all’ultimo episodio della vita di Saffo, così come è stato tramandato dalla leggenda: respinta da Faone per la sua bruttezza fisica, Saffo si uccide lanciandosi in mare dalla rupe di Leucade. Viene subito in mente una considerazione: suscita meraviglia il fatto che i pitagorici abbiano posto in risalto un episodio tanto in contrasto col loro ideale di vita: il pitagorismo, analogamente all’idealismo cristiano, interpreta la vita umana come un perfezionamento in vista dell’immortalità, per cui non è consentito all’uomo di accorciare la durata della prova e scrollarsi di dosso il fardello. L’episodio di Saffo può essere compreso soltanto se non lo si valuta come il dramma di una morte volontaria, ma come un rito di rigenerazione che Saffo affronta con grande fede: il salto nel mare è simbolo di rinnovamento, e in questo senso si ritrova in altri racconti mitologici.

Negli inni di Callimaco, ad esempio, leggiamo che Britomarte, inseguita da Minosse, riuscì a sfuggirli gettandosi in mare, e che, dopo quell’atto fu trasformata in dea da Minerva. Apollodoro mitografo ci parla di Ino, resa folle da Giunone: dopo aver ucciso il proprio figlioletto, si lanciò in mare e divenne una divinità marina. Quando Teseo arrivò a Creta, dovette dimostrare di essere figlio di Poseidone: Minosse buttò in mare un anello e gli chiese di ripescarlo. Senza esitare Teseo si tuffò allora nel mare; un branco di delfini lo scortò fino al palazzo delle Nereidi, dove Teti gli regalò una corona ingioiellata, dono nuziale di Afrodite che più tardi cinse il capo di Arianna; altri dicono che Anfitrite, la dea del mare, gli consegnò la corona e ordinò alle Nereidi di nuotare tutt’attorno per trovarle l’anello. In ogni caso Teseo emerse dal fondo del mare reggendo sia l’anello che la corona.

Ora è senza dubbio interessante il fatto che Teseo dopo l’immersione nel mare, riporta non solo l’anello, ma anche una splendida corona. Jung ha rilevato che la corona è per eccellenza il simbolo dell’avvenuto raggiungimento di qualche alto obiettivo: chi conquista sé stesso, ottiene la corona della vita eterna».



A questo proposito è anche da riferire l’autorevole testimonianza di J. Carcopino dalla Revue Archeologique del 1923: «Se noi guardiamo attentamente la Saffo della basilica, non possiamo scorgere nessuna agitazione nel suo atteggiamento; Saffo è l’esempio classico di una rigenerazione sacramentale e morale che trasforma gli iniziati».

Per completezza di informazione dobbiamo dire che, secondo alcune interpretazioni letterali del passo di Plinio contenuto nel suo Historia Naturalis (XXII, 20), Saffo si tuffa sì nel mare, ma non per suicidarsi; certamente non vi muore dato che, nel passo in oggetto, non lo si dice affatto, né tantomeno la vicenda è storicamente documentata.

Cominciamo qui ad avvicinarci ad una interpretazione più «iniziatica» di questo tuffo come descritto in alcune letture dello stesso Plinio e non, invece, come motivato da follia amorosa suicida.

Elémire Zolla, ad esempio, lo inserisce tra i tuffi alla ricerca dell’«Amante Invisibile» nel libro omonimo.

«Di indizi [sul tuffo iniziatico] è cosparsa l’antichità. Il tuffo iniziatico vi era celebrato, gli iniziati andavano sotto il nome di pesci, non soltanto per il voto del silenzio che li legava. Come le cosmogonie parlavano di acque primordiali dalle quali tutto era affiorato, nel grembo delle acque era naturale che si ritenessero celate le ragioni ultime delle cose. È noto che a Lesbo e in Etruria un clero amministrava il tuffo sacramentale. Plinio, nel passo sul salto di Saffo, informa che era usata un’erba allucinogena per infondere forza e colorito alle istruzioni preliminari del clero, che forse eseguiva una pantomima in cui un demone inseguiva il candidato e lo precipitava dall’alto di una rupe. Una barca aspettava di sotto».

Sembra, e lo è, la descrizione esatta della raffigurazione absidale nella basilica di Porta Maggiore.
La lettura dello studioso Jean Hubaux nel suo Esseni in Plinio contenuto nei Cahiers du Cercle Ernest Renan del 1959, esalta specificamente il significato iniziatico del «salto di Saffo» e lo riposiziona ancora più profondamente all’interno della tradizione orfico-dionisiaca, collocandolo tra i riti costituitivi di una setta di baptae legati dell’antica dea Cotyto o Cotitto, originaria della Tracia, e che poi si sarebbe insediata a Roma lungo il Tevere, nelle bettole dei viaggiatori fluviali.

Qui di seguito proponiamo la traduzione di alcuni versi dell’Appendix virgiliana contenuti nel Catalepton XIII, 19-34, che gettano una luce interessante sul culto strettamente orgiastico-lustrale della dea a Roma.



E dunque, dice Virgilio: «Non mi attirerai, bellezza, nei riti di Cotitto alle feste falliche; né ti ammirerò roteare i fianchi aggrappato agli altari, e presso il biondo Tevere adescare i marinai che sanno di salsedine, quando le barche approdano e sono trattenute dal sordido fango, mentre stanno alla fonda nell’acqua bassa; né mi condurrai nei tuoi retrobottega, dove prepari sordide pozioni, delle quali pieno poi torni alla moglie obesa mentre sciogli sapientemente nell’estuario il ventre che ribolle. Ora offendimi pure, o provocami, se ne sei capace. Ecco, scrivo il tuo nome o cinedo Lucceio».

Perché Virgilio pone come palcoscenico dell’orgiastica festa di Kotys, con le lascive gesta del cinedo Lucceio, il Tevere, e come deuteragonisti gli olentes nauticum i «marinai che sanno di salsedine»?

In questi versi possiamo ritracciare gli elementi degenerativi propri del cammino compiuto immancabilmente da ogni celebrazione che, progressivamente, perde la sua centralità sacrale e muta nel tempo assumendo forme via via sempre più secolarizzate. Spesso queste appaiono talmente lontane dall’ispirazione originaria da essere pressoché irriconoscibili ma, e qui è l’arcano, pur sempre vitali e capaci di richiamare, in qualche modo, la stessa sostanza. In effetto, come dice Robert Graves,conoscere il nome di una divinità in un dato luogo e tempo è di gran lunga meno importante che riconoscere la ragione dei sacrifici che le o gli venivano offerti; in questo caso, come nella festività del nostro Capodanno, l’augurio sacrificale resta immutato: il tuffo come nuovo inizio.

E allora, per ricostruire il quadro completo dobbiamo dire che, in origine, Kotys era uno dei tanti nomi della Dea Madre, la Potnia mediterranea, che troviamo anche nel mito olimpico della creazione come sposa di Urano. Graves ricorda le sue origini asiatiche identificandola con Ur-ana cioè la dea della piena estate. Il viraggio patriarcale che in Grecia subirono le mitologie matriarcali la costrinse, prima a donare il suo stesso nome ad Urano diventando sua moglie, e poi lentamente a degradare, giunta a Roma, verso la «dea dell’impudenza» – questo è infatti il titolo di Cotitto sulle rive del Tevere – i cui sacerdoti interpretavano una sessualità decadente, che praticava però ancora il tuffo rituale alla ricerca del ricongiungimento con l’«Amante Invisibile», cioè il principio femminile creatore.



In sintesi ciò che ci è dato sapere intorno al culto di Kotys lo dobbiamo a Strabone che, nel suo Della Geografia, parlando dei culti orgiastici, ricorda questo della dea Kotys, originariamente tracia, e quindi introdotta in Atene ed a Corinto. Per giustificare ciò che egli afferma dell’origine tracia, cioè dalla regione anticamente compresa tra nordest della Grecia, sud della Bulgaria e Turchia europea, in cui i monti Rodopi separano la Tracia greca da quella bulgara, lo storico cita un frammento di Eschilo dagli Edoni da cui si deduce che tale culto aveva luogo sulle alture di quei monti: «O Coti dea venerata dagli Edoni con montani strumenti».

Trapiantato in Grecia, il culto di Kotys ebbe rito e significato che ne limitavano la podestà ad un solo aspetto della Zoé, quello riproduttivo, riducendolo così ad un preciso ambito caratterizzato. Una prima trasformazione in questo senso si riscontra nella festa di Kotys celebrata in Sicilia dove, come ricorda Plutarco: «Si sospendevano ad un albero cibi e frutti, di cui il popolo quindi a gara s’impadroniva, donde il nome: festa di Kotutìok». La dea tracia era qui identificata specificatamente col principio della riproduttività della Bíos vegetale ed animale, che veniva ugualmente rappresentato per mezzo di rami sospesi e carichi di frutta nelle feste di Cybele in Asia Minore e in Grecia.

In Grecia la dea Kotys rappresentò dunque la forza rigeneratrice della natura, e poiché la terra produce anche per azione della pioggia, nel culto venne introdotta l’acqua; ma, per esprimere la specifica fecondità generativa umana, bisognava necessariamente rappresentare la donna, e perciò i sacerdoti della dea si vestivano di abiti femminili.

Questi sacerdoti si chiamavano Baptai, il nome ritenne del rito la parte che riguardava l’acqua, adoperata, come dice il nome, per abluzione o per bagno. Col tempo la ritualità divenne poi decisamente orgiastica, riducendo ancor più la portata del culto originario ad una sottospecie delle sue componenti, quella esclusivamente sessuale ed infine omosessuale. A questo proposito esiste una commedia satirica dell’ateniese Eupolis scritta contro Alcibiade in occasione della guerra del Peloponneso, che si chiama proprio Baptai e che li descrive come chiaramente omosessuali.Questo viraggio avvenne a Corinto, per eccellenza la sede del culto di Kotys in Grecia: in quella città si sarebbe celebrato in uno dei tanti ridotti lungo le rive del mare, celebri nell’antichità per i piaceri che fornivano agli avventori.

Di questi la parte maggiore erano naviganti; trapiantato in Roma, tale culto pare si sia celebrato in qualche luogo lungo il Tevere, in vicinanza dei ponti.Come il culto di Kotys fosse migrato verso Roma, ed avesse subito in questi passaggi ulteriori ridimensionamenti, ce lo narra Giovenale nella sua satira I bagascioni ipocriti e sfacciati, dove dice che i suoi sacerdoti si chiamavano Baptae ed organizzavano orge così vestiti: «Di lunghe bende, e di molte collane. Contraria usanza le femmine allontana, e quelle soglie non passa alcuna: ai soli maschi aperta è l’ara della Dea. Fuori!, si grida, fuori, o profane: qui non s’ode femmina sparger di tibia o corno il flebil suono».Anche Sinesio di Cirene (370-413), discepolo di Ipazia e poi vescovo di Tolemaide di Libia, nelle sue Epistolae parla degli «effeminati adepti di Cotis coi capelli tutti unti ed arricciati dediti alle orge».

La relazione tra il Tevere e le Cotytie celebrate in Roma è dunque nelle cose, ed anche se nessuno scrittore c’informa del modo particolare in cui si compiva la funzione del bagno in quei culti, possiamo pensare che in origine ci sarà stato un vero e proprio tuffo nell’acqua, e in seguito forse una semplice lustrazione che il sacerdote ordinava a coloro che alla celebrazione del rito prendevano parte, forse dopo l’atto sessuale, come ci dice Virgilio del cinedo Lucceio.Qui ritroviamo l’origine non solo del tuffo ma anche l’aura erotica che indubbiamente emana ancora il salto nel Tevere, l’ostentazione del corpo che ne è parte costitutiva, come pure il coté lustrale ed augurale, di purificazione.



L’origine propriamente mitologica del tuffo nel Tevere la descrive invece Ovidio che, nei Fasti (V, vv. 622-659) dice come, nei tempi arcaici, Giove Fatidico prescrivesse ai nativi laziali di gettare nel Tevere, ogni anno, una vittima umana per ogni gens, in onore del «vecchio falcifero», cioè Saturno. A questo «tuffo capitale» pose fine Ercole, che sostituì i corpi umani con dei fantocci. Il rituale, come prescritto da Giove ed emendato da Ercole, proseguì poi nei secoli, durante le feste dei Lemuria in maggio, con il lancio da parte delle Vestali di fantocci in giunco (scirpea), rappresentanti gli stessi Argei, i cosiddetti «Quiriti di paglia», dal ponte Sublicio.

Gli Argei sono figure della mitica origine di Roma; secondo Varrone erano nobili giunti nella penisola italica al seguito di Ercole per poi stabilirsi nel villaggio fondato dal dio Saturno sul Campidoglio. Come abbiamo visto qui viene sostituita la vittima umana con un suo idolo, esattamente come già nell’antica Grecia il pharmakós umano veniva rimpiazzato da un animale; nella Bibbia, e prima ancora, dal «capro espiatorio».

Questo simulacro, dunque, permette di mantenere inalterato, sul piano simbolico, il valore intrinseco del rito sacrificale: che nel fiume vengano annegati uomini o fantocci di forma umana non muta e soprattutto non inficia il senso del sacrificio. Come dice René Girard «ogni sacrificio capitale riproduce il suo mito fondativo», ed è questo che deve essere periodicamente riproposto per la conservazione di un aspetto specifico dell’ordine delle cose. È questa riproduzione che riapre la parentesi del Grande Tempo, del «tempo sacro» in cui si consumò l’atto primordiale, mitico, quello «fatto una volta per tutte» come lo definisce Cesare Pavese nel suoi Dialoghi con Leucò.

Ora, dato che Ovidio non parla esplicitamente del mito fondativo di questa prescrizione di Giove, dobbiamo cercarla probabilmente in relazione all’elemento

distintivo del rito sacrificale capitale, cioè nello specifico fatto che si tratta di un tuffo mortale nell’acqua. E giacché il rito arcaico viene prescritto in onore di Saturno, che evirò il padre Urano, possiamo pensare che esso riproduca, attraverso la morte rituale o simbolizzata, l’originale sacrificio divino che diede origine al Mondo degli antichi.

Il mare, o l’acqua, rappresentano, oltre al principio creatore, anche uno degli accessi alla morte, al «totalmente altro».

E dunque, a Roma, il Tevere era visto come una via che portava temporaneamente o definitivamente agli inferi, e cioè come operatore della «catabasi», ossia della classica «discesa all’ade e resurrezione» che vede protagonisti gli eroi capaci di ritornare dal fatidico viaggio rigenerati dalla prova.

Il superamento di una «catabasi» equivale a riemergere in una dimensione di immortalità spirituale: è sempre nelle acque che si sommergono i residui di uno stato di perdizione e si rigenera l’essere per riaffiorare in caelestibus, come nel battesimo cristiano o nella sommersione mazdea nelle piscine di Persepoli. E certo oggi immergersi e riemergere dalle acque del Tevere è una prova potenzialmente mortale, al di là del tuffo.

E allora, se alla luce di questi antecedenti leggendario-mitologici «attualizziamo» il nostro sguardo verso il tuffo nel Tevere, il gesto del tuffatore-pharmakós ci appare come l’auspicio di chi vuole caricare su di sé ogni impurità per dissolverla così nella morte acquatica e successiva resurrezione battesimale, permettendo col suo «sacrificio» il sorgere di un nuovo ciclo, essenza originaria di quella simbolica rinascita che per noi tutti è il Capodanno.


Il Manifesto/Alias - 31 maggio 2014