I rapporti del
fondatore dei Quaderni Rossi con Agàpe e il mondo valdese
Francesco Maria Iposi
Ricordare Raniero
Panzieri a cinquant’anni dalla morte, avvenuta il 9 ottobre
1964, significa riscoprire ciò che nella sua proposta rappresenta
uno strumento utile alla comprensione del nostro tempo, anche alla
luce dei rapporti che il pensatore «operaista» ha intrattenuto
con il mondo valdese attraverso feconde collaborazioni
concretizzatesi con l’esperienza dei Quaderni Rossi e gli
appuntamenti del centro ecumenico di Agàpe (Prali) del dicembre
‘60 e dell’agosto ‘61.
All’universo
protestante va il merito di aver prestato ascolto ad un esponente
eretico dell’intellettualità socialista, oggi purtroppo
dimenticato dalla storiografia ufficiale, anche di orientamento
marxista. Dal tema dell’inchiesta operaia fino alla proposta di
un recupero delle tematiche gramsciane dei consigli di fabbrica,
sarebbero numerose le intuizioni panzieriane da riportare; ma due
sono i punti sui quali si ritiene di poter concentrare
l’attenzione in questa sede.
Panzieri - attento
studioso di quanto accade nell’industria del miracolo economico
- denuncia i limiti delle tradizionali forze della sinistra, le
quali restavano ancorate alla tesi sull’arretratezza del sistema
capitalistico italiano. Il fondatore dei Quaderni Rossi intende
smascherare la neutralità dello sviluppo e costruisce la prima
analisi demistificatrice della razionalità tecnologica scorgendo
in essa il binomio sapere/potere: egli ritiene, marxianamente, che
la divisione del lavoro abbia prodotto una scissione (tra le
potenze intellettuali del processo produttivo e i lavoratori) che
nell’epoca della grande industria separa la scienza facendone
una potenza indipendente dal lavoro in grado di rafforzare il
controllo del capitale.
L’evolversi della
tecnologia va dunque inserito all’interno di questo processo e
il rifiuto della neutralità di scienza e tecnica conserva un
valore oggi andato perso: proprio l’epoca postfordista - segnata
dallo sviluppo dell’informatica - getta uno sguardo spesso privo
di una riflessione sulla presunta «bontà» del progresso
tecnologico.
Un altro decisivo
aspetto è la critica da sinistra dello stalinismo. In molti hanno
sottolineato la felice intuizione di Panzieri in relazione alla
necessità di una via d’uscita dal dogma sovietico che non fosse
il compromesso socialdemocratico, ma pochi si sono soffermati sui
contenuti delle contestazioni polacche e ungheresi del 1956 alle
quali l’intellettuale operaista intendeva dare spazio e valore,
proprio in quanto tentativi autenticamente socialisti di creazione
di un’alternativa sociale più che partitica.
Una buona parte della
sinistra, seppur antisovietica, non è stata capace di vedere
nelle dissidenze dell’Est i semi di una novità, offrendo in
questo modo la spalla a forze conservatrici che «usavano» i
movimenti di opposizione al potere sovietico come dimostrazione
della validità delle società occidentale.
Già nel ’56
Panzieri aveva compreso come le rivolte dell’Est fossero volte a
rilanciare il significato etico di un socialismo delle libertà
all’interno di una cornice di potere operario antiburocratico e
antiautoritario fondato sulla democrazia diretta e sulla guida dei
processi economici e sociali da parte dei produttori associati.
Un socialismo, quello
panzieriano, inseparabile dalla democrazia, un’alternativa
umanistica che egli cercò di seguire con coerenza anche quando
preferì abbandonare le posizioni ufficiali, a costo di essere
isolato. Credo che da evangelici, ancora oggi, possiamo
riconoscere in Panzieri un compagno di viaggio di quella parola
biblica che annuncia all’uomo la liberazione da ogni forma di
oppressione.
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