Parlare
di Gramsci oggi. Si può e in molti modi. A noi piace farlo così
riprendendo un suo scritto giovanile (aveva 26 anni). In altra parte
del blog abbiamo ricordato Mario Savio che mezzo secolo dopo, in un mondo profondamente mutato ma forse ancora più inumano, si alzò a
gridare il suo dissenso. Ecco, finchè ci sarà un giovane che avrà
il coraggio di alzarsi in piedi e dire forte il suo NO, la partita
non può considerarsi persa . Per questo anche noi odiamo gli
indifferenti.
Antonio Gramsci
Indifferenti
Odio gli indifferenti.
Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire
essere partigiani". Non possono esistere i
solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive
veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza
è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò
odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti.
Ciò che avviene, non
avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la
massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia
aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia
promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia
salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà
rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro
appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo
assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non
sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita
collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.
I destini di un'epoca
sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi
immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi
attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.
Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta
nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a
travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme
fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono
vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi
non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo
si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse
chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.
Alcuni piagnucolano
pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si
domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato
di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò
che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro
indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio
e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per
evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si
proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo,
sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività
della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la
catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è
dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei
cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare
mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che
sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che
l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il
sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
"La Città futura",
11 febbraio 1917