TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 28 maggio 2019

E' morto Pasquale Indulgenza


 


Giorgio Amico

E' morto Pasquale Indulgenza

Nei giorni bui della avanzata della destra e del fascismo che torna come un rigurgito acido della storia, nei giorni dell'egoismo, della paura e del rancore, Pasquale se ne è andato, all'improvviso, proprio quando c'era più bisogno della sua intelligenza, della sua umanità, della sua passione.

Pasquale se è andato in questo inverno della politica e della civiltà, senza poter vedere la primavera che, ne era sicuro, ne sono sicuro, tornerà a fiorire, quando la forza luminosa delle idee di solidarietà, di giustizia, di pace, tornerà, come già in passato accadde, a squarciare le tenebre del sospetto, dell'intolleranza, dell'odio che avvolgono questo mondo di spettri in cui siamo da tempo costretti a vivere. Per questa primavera, che non vedrà, Pasquale ha lottato, ha vissuto, ha amato.


Di lui ricordo un pomeriggio passato insieme a discutere di filosofia e di letteratura, di arte e di politica, del sogno comune di una vita che valesse davvero di essere vissuta, del senso profondo e vero delle cose.

Addio, Pasquale, hai testimoniato in ogni momento della tua vita, come educatore e come comunista, di come si possa restare umani in un mondo che umano non è, di come si possa lottare con durezza e tenacia, ma senza perdere la tenerezza.

Non lo dimenticheremo, non ti dimenticheremo.


sabato 25 maggio 2019

Nico Orengo. Poeta della pagina e della vita



Dopo le note disavventure, riprendiamo a postare cose belle, come questo contributo di un nostro caro amico, fotografo di grande talento, che ci racconta di un altro amico che purtroppo non c'è più.

Alberto Cane

Nico Orengo a dieci anni dalla scomparsa

Il tempo vola. Già dieci anni!
In occasione dell'anniversario è stato pubblicato questo libro "Nico Orengo, poeta della pagina e della vita" un lavoro corale al quale hanno collaborato gli amici più cari, ognuno seguendo la propria sensibilità nel far rivivere ricordi di fatti e atmosfere. L’intento condiviso da tutti è stato quello di restituire un’immagine di Nico, sorridente e ironico, qual era nella vita e nell’arte, al di fuori di ogni retorica. Molte fotografie.
Il 30 maggio ai Giardini Hanbury si terrà una Giornata di studi in sua memoria "La somma di tutti paesaggi"
https://www.facebook.com/events/2167753516594958/
Di più sul mio blog http://albertocane.blogspot.com/…/nico-orengo-dieci-anni-da…

Il mio breve intervento

Re: Cartucce da volpe

Successe che qualcuno gli fece avere "La Gazzetta di Isolabona" che avevo realizzato assieme a dei ragazzini in un periodo di forzato riposo dopo un incidente stradale. E di quel foglio - ne erano usciti già parecchi numeri - forse lo colpì l'ironia leggera e spensierata che affiorava nei titoli e nel testo. Così Nico si mise subito in contatto con me via email. Rimbalzavano quei messaggi, fra domande sue e risposte mie, e per pigrizia di entrambi quel Re: cartucce da volpe rimase a lungo l'oggetto, anche quando da quell'argomento (si riferiva a mio padre che fu il primo a Isolabona a cacciare un cinghiale sparandogli con cartucce da volpe) eravamo passati ad altri e altri ancora. Chiedeva, e io se potevo l'accontentavo.

Finalmente ci incontrammo, proprio a Isolabona al ristorante Piombo, per la presentazione de "La curva del latte". Sala stracolma e, sorpresa, gli facemmo trovare in carne e ossa personaggi e parenti di personaggi che aveva raccontato nel romanzo. Correva l'anno duemiladue. Cominciò lì la nostra amicizia. E da allora ogni reincontro era una festa, fosse per un libro fosse per una cena o per entrambe le cose come di solito succedeva. Lo convincemmo addirittura, lui che non amava la montagna, a fare scampagnate nei boschi lassù in alto, e così scoprì, con stupefatta meraviglia, lati della Liguria interna che non immaginava.

Poi cominciammo a fantasticare e non furono solo castelli in aria perché certe fantasie un po’ folli le facemmo avverare. Come il ritrovamento, sotto gli occhi di una grande folla in visibilio, di un'enorme anguilla colorata e la performance de "Il barone rampante" sulle rive del Merdanzo brulicante di personaggi in costume. Muoveva a divertimento grandi e piccini, com'era l'intima linfa della sua scrittura. E continuò a farci divertire anche due anni dopo che se n'era andato, quando inscenammo "Islabonita" e in contemporanea gli intitolammo una piazzetta in maniera così antiretorica che di sicuro gli sarà scappato un lieto sorriso di compiacimento.

#nico_orengo #giardini_hanbury

venerdì 24 maggio 2019

E poi dicono che uno diventa leghista...



Giorgio Amico

Il Re di Prussia e la Val Bormida, ovvero come andare al cinema e uscirne leghista

Crisi complessa, docufilm sulla crisi economica che da anni travaglia Savona e la sua provincia. Film intenso, bellissimo, persino commovente che racconta di un territorio in crisi, di famiglie distrutte dalla crisi,di vite spezzate
Immagini di rovine, capannoni sfondati, palazzoni disabitati, luoghi di vita e di aggregazione ridottia a contenitori di immondizie. Scenari di guerra, da città bombardate, da terzo mondo. Ferrania come Aleppo.

Un bel film, ma...

Ma non una parola su perché tutto questo è avvenuto, sulle responsabilità di un padronato che ha fatto soldi, tanti, quando era facile farli, senza innovare, eludendo il fisco, sfruttando al massimo i lavoratori, inquinando. Per chiudere poi, quando, si doveva investire in innovazione, garantire salari adeguati, pagare le tasse, rispettare l'ambiente e tutelare la salute in fabbrica.
Non una parola sulle banche, sulle concessioni allegre di crediti, poi rivelatisi inesigibili, a lor signori, mentre si rendeva impossibile l'accesso a un finanziamento anche modesto ai piccoli artigiani, ai commercianti, ai giovani che volevano metter su casa.
Non una parola sul partito del cemento che ha puntato lucidamente sulla chiusura delle fabbriche per liberare spazi soprattutto sulla costa per costruire milioni di metri cubi di nuovi appartamenti (e questo mentre la popolazione diminuiva).
Non una parola sulle complicità della politica, sulla mancanza di una qualunque idea di sviluppo, su  un ragionare amministrativo miserabile misurato sui tempi del mandato. E poi andasse come doveva andare. 
Non una parola sulle enormi ricchezze che in questi anni si sono accumulate sulla miseria crescente, sulla perdita del lavoro, sulle famiglie sfasciate dalla crisi. Niente sui capitali che da Savona sono stati portati all'estero. 
Niente sugli scandali, sulle indagini giudiziari sui processi che hanno visto coinvolti imprenditori e politici.
Non una immagine sulle costruzioni di lusso nella darsena di Savona, né sul proliferare degli sportelli bancari, né sui porti turistici stracolmi di megayachts.
Tante immagini, invece, sui centri commerciali, accostate alle centinaia di serrande abbassate di piccoli e piccolissimi negozi.
Tanti discorsi su piani di rifinanziamento approvati, ma bloccati dai ritardi e dalle inefficienze della burocrazia.
Ed infine, a ingentilire il tutto, quasi una favola, che qualcuno ha definito esopica, su un'impresa tecnologicamente avanzata e in buona salute che non può espandersi a causa degli ecologisti che vogliono difendere una colonia di ranocchie che vive nel sito prescelto per l'ampliamento.

Tirando i fili del discorso. 

La crisi è un evento naturale, come una grandinata o un terremoto. E' successo, inutile chiedersi perché (qualcuno di parte sindacale nel dibattito lo ha anche detto).
Il sistema in sé è sano, ma bloccato dalla burocrazia, dai troppi vincoli, dagli eccessivi controlli.
I piccoli commercianti sono in rovina a causa dei centri commerciali.
Gli ecologisti bloccano lo sviluppo.

Ma se le cose stanno davvero così', allora non stupiamoci poi dell'ondata populista

giovedì 23 maggio 2019

A proposito di cattivi maestri (ancora su Nanni Balestrini e non solo)





Giorgio Amico

A proposito di cattivi maestri (ancora su Nanni Balestrini e non solo)

Quando va via un compagno, con cui hai condiviso momenti, speranze, emozioni e anche delusioni e rabbia, ti viene di pensare a te stesso e agli anni della tua vita, alle cose belle che hai fatto, ma anche a ciò che non hai fatto e che invece potevi fare. Hai passato i settant'anni, sai di essere vecchio, qualcuno addirittura lo te getta in faccia come un insulto (è esperienza recentissima) e quindi sai che il tempo che ti resta, per lungo che possa essere, non ti basterà a recuperare errori e omissioni. Insomma, la morte di un amico ti interroga sul senso della tua vita. A me in poco tempo è capitato tre volte, con Bruno Mozzone, Ugo Tombesi e Piero Pentenero. Compagni negli anni della rivolta, del tempo in cui amavamo la sovversione e il disordine, se ordine era lo sfruttamento, la miseria, la riduzione degli uomini a a numeri. Un amore, insieme tenero e violento, come è solo l'amore vero.
Perché se il mondo che vedevamo era la pace, allora noi volevamo la guerra. Lo cantavamo e lo credevamo, fermamente.
Siamo stati per questo cattivi maestri? Ci pensavo in questi giorni, riprendendo in mano i libri di Nanni Balestrini che di quella generazione, che poi è la mia, fu una delle voci più intense.
Di sicuro siamo stati motivo di scandalo, ma cattivi maestri no. Se maestri di qualcosa si è stati, allora di etica si deve parlare. Perché di quello si tratta, quando si pensa e si vive a partire dal noi e non dall'io.
Lo avevamo imparato dalla generazione che ci aveva preceduto, da chi si era formato nella guerra partigiana, che non era solo liberazione dal fascismo o dall'occupazione, ma soprattutto liberazione da tutto quello che rende la vita insopportabile agli uomini. Quella, almeno, era la speranza.

E allora, se la vecchiaia è il tempo dei bilanci, il mio lo ritrovo in due righe, straordinarie, di Italo Calvino:

“La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, per anni la politica ha avuto un'importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante cose. Ma questa passione civile ha dato un'ossatura alla nostra formazione culturale; se ci siamo interessati di tante cose è stato per quello. Anche se mi guardo attorno, in Europa, in America, coi nostri coetanei e con quelli più giovani, devo dire che noi eravamo più in gamba. Tra i giovani che sono venuti su dopo di noi negli ultimi anni, in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri; noi avevamo per prima cosa una passione a operare; e questo non vuol dire essere superficiali, anzi.”

Era il '60, poi sarebbe venuto il '68. A smentirlo, perché la triste passione ideologica sarebbe diventata gioia di vivere e lottare. L'inverno delle nostre vite oggi convive con l'inverno della società. Che torni presto il tempo delle passioni violente e dei teneri amori e che, come con Calvino, una nuova generazione sappia smentirci.








mercoledì 22 maggio 2019

Da leggere: Ungheria 1919




Giorgio Amico

Quando a Budapest governavano i consigli operai

Chi oggi ricorda qualcosa della rivoluzione ungherese, avvenuta giusto un secolo fa?

In Italia se ne è sempre parlato poco e come di un fatto marginale, un avvenimento minore conseguenza diretta della rivoluzione russa.

Certo, in sostanza quello fu. Eppure la Repubblica dei consigli ungherese, che durò poco più di quattro mesi, per essere poi rovesciata nel sangue e sostituita da un sanguinario regime di destra, ha una sua specificità che aiuta a capire meglio non solo gli eventi del 1919-1920 nell'Europa centrale, ma anche la tragica parabola della rivoluzione russa nella prima metà degli anni Venti.

Esce ora, per le Edizioni Pantarei di Milano, Ungheria 1919. Gli insegnamenti di una sconfitta nel 100° anniversario della Repubblica dei Consigli, opera congiunta di un importante accademico ungherese, Jozsef Pankovits, e di Pietro Acquilino, storica avanguardia di fabbrica genovese, ma anche studioso attento e appassionato del movimento operaio e comunista italiano e internazionale. Molti ricorderanno i suoi articoli, sempre documentati e misurati, sui giornali della sinistra rivoluzionaria dagli anni Settanta in avanti.

Un libro di grande interesse perché ci permette di cogliere le specificità del processo rivoluzionario ungherese nel 1919, ma anche comprendere meglio il tipo di regime che si creò dopo la seconda guerra mondiale e l'occupazione sovietica, e individuare fattori di lungo periodo destinati a riemergere nei fatti del 1956 e nella nuova repubblica dei consigli che, questa volta contro i russi, il proletariato di Budapest cercò di instaurare.

Un libro, interessante e utilissimo, supportato da una documentazione ricchissima e soprattutto da un repertorio biografico, crediamo unico in Italia e forse non solo, che in oltre 100 pagine di schede offre uno spaccato vivissimo del movimento operaio e comunista ungherese nelle vite dei suoi protagonisti.
  
Un libro da leggere.

Pietro Acquilino-Jozsef Pankovits
Ungheria 1919
Pantarei, Milano 2019
Euro 25

Elio Lanteri, L’uomo che sorrise a Brassens




Sabato 25 maggio 2019 - ore 16.30
Costa d’Oneglia (Imperia)
Circolo Manuel Belgrano, via Carmine 102

L’uomo che sorrise a Brassens
Elio Lanteri, un autore regalmente marginale

Presenta Giuseppe Cassini, presidente Circolo Belgrano
Coordinano Fabio Barricalla, Marino Magliani e Maria Novaro
Intervengono Matteo Lanteri, Giorgio Loreti, Luigi Berio,Claudio Panella, Giuseppe Rainisio

Proiezione di “L’uomo che sorrise a Brassens”
video realizzato da Antonio Mameli

L’appuntamento è organizzato dalla Fondazione Mario Novaro e dal Circolo Belgrano.

Elio Lanteri, che nasce a Dolceacqua nel 1929 e muore nel 2010, dopo una vita passata a Costa d’Oneglia, è autore di due soli romanzi, La ballata della piccola piazza (pubblicato da Transeuropa nel 2009 ma scritto molti anni prima, per cui ha vinto il Premio Biamonti 2010 e ricevuto la menzione speciale al Premio Città di Cuneo) e La conca del tempo (pubblicato postumo sempre da Transeuropa nel 2012). Due suoi racconti sono stati pubblicati su “Atti impuri” nel 2011.


martedì 21 maggio 2019

Nanni Balestrini (1935-2019). Ricordo di un compagno


    Un’opera visiva di Nanni Balestrini

E' morto il compagno Nanni Balestrini, militante comunista di Potere Operaio e per questo esule in Francia per cinque anni , pittore, poeta e scrittore. Ha dato voce a chi non la aveva e ha reso arte la rivolta operaia dell'autunno 1969. Lo ricordiamo qui con una pagina da uno dei suoi libri più belli, Vogliamo tutto, il romanzo di Mirafiori.

La lotta

Tutto questo prima di conoscere i compagni fuori della porta. Una sera uscivo dalla Fiat e vedo uno studente che mi fa: Vuoi venire a una riunione li al bar? lo decido che mi va e gli dico va bene che ci vado. Che cazzo non c'ho niente da fare mi vado a vedere questi stronzi che vogliono che dicono. Li vedevo tutti i giorni questi studenti e li giudicavo stronzi. Non sapevo neanche quello che dicevano non leggevo nessuno dei loro volantini.

C'erano allora gli scioperi quelli fatti dal sindacato. Erano quelli che volevano la seconda categoria i gruisti e i carrellisti. C'erano questi scioperi dentro c'erano alcune linee quelle della 124 che stavano ferme. Gli operai giocavano a carte a soldi a scommesse. Leggevano o stavano li fermi perché non arrivavano i pezzi. Stavano ferme due o tre linee. Quando uscivo vedevo gli studenti che davano i volantini e che parlavano di questo sciopero. Ma a me la cosa non mi interessava.

Allora vado a quella riunione li al bar di fianco a Mirafiori. Conosco Mario e degli studenti e gli dico in che officina stavo quello che facevo. Conosco anche altri operai e Raffaele uno della 124 che vedevo che veniva tutte le sere alle riunioni. Lui diceva che conosceva un'ottantina di compagni che erano disposti a fermarsi quando diceva lui. Cazzo mi dicevo io a me mi conoscono tutti quanti ma nessuno è disposto a fermarsi quando dico io. Allora gli dico se tu conosci questi ottanta compagni possiamo fermarci quando vogliamo. Possiamo fermarci anche domani. Non lavoriamo piú cominciamo a lottare da domani.

E Mario e gli altri studenti stavano con le orecchie tese a sentire quello che dicevamo io e questo Raffaele. Poi si decide di fare un volantino per domani in cui diciamo di fare la lotta di fermarci. Non lo so su che cosa doveva essere quel volantino. Sulla seconda categoria pure forse non lo so. O mi sembra che volevamo i soldi della mensa. Alla Fiat non c'è la mensa e volevamo i soldi della mensa che c'avevano promesso. Doveva essere una cosa del genere.



Come in tante fabbriche alla Fiat per mangiare ci portavamo il baracchino. E io dicevo che la mezz'ora del mangiare ce la dovevano pagare perché anche quella mezz'ora lavoravamo. Perché mentre stai lavorando suona la sirena uuuhhh e allora tu ti metti a correre fai le scale arrivi nel tuo corridoio arrivi nel tuo spogliatoio arrivi al tuo armadietto prendi la forchetta il cucchiaio il pane corri vai dove sta il tuo baracchino che ce ne stanno duemila prendi il tuo baracchino arrivi al tavolo parli tatatatatatatatatata mangi giú uuuhhh salti su scappi corridoio spogliatoio armadietto posi un'altra volta la roba corri giú mezz'ora eccoti un'altra volta nell'officina. Tutto di corsa mentre vai e mentre torni in officina se no non ce la fai. Questo è lavoro mica è intervallo. E' produttivo sto fatto.

Comunque sento Raffaele che lui dice che poteva bloccare ottanta compagni. E gli dico che ci diamo l'appuntamento domani lui con i suoi e io con i miei. Che io non avevo nessun seguito comunque pensavo vediamo se mi seguono io ci provo. Ci vediamo con i miei e con i tuoi dico a Raffaele. Ci vediamo al terminale delle linee e li facciamo un'assemblea un corteo. E minacciamo di morte e di impiccagione tutti i ruffiani i crumiri i fuorilinea. Li minacciamo e cosí facciamo i cortei e ci mettiamo a gridare e a cantare. Vediamo un po' che cazzo combiniamo poi ce ne usciamo fuori dall'officina. Insomma lottiamo domani non si lavora. Va bene va bene. Allora facciamo questo volantino domani all'una li distribuiamo davanti ai cancelli. Poi quando siamo dentro parliamo COI compagni negli spogliatoi durante il percorso per andare negli spogliatoi.

Il giorno dopo cominciamo a distribuire il volantino davanti alla porta insieme agli studenti. Mario aveva fatto un cartello non so cosa c'era scritto sopra Potere operaio La classe operaia è forte questa roba qua. Allora io mi metto a fare l'agitazione fuori della porta: Compagni noi oggi ci dobbiamo fermare. Perché ci siamo rotti il cazzo a lavorare. Avete visto il lavoro com'è duro. Avete visto com'è pesante. Avete visto come fa male. Vi avevano fatto credere che la Fiat era la terra promessa che era la California che ci eravamo salvati.

Io ho fatto tutti i lavori il muratore il lavapiatti lo scaricatore. Tutti li ho fatti ma il piú schifoso è proprio la Fiat. Io quando sono venuto alla Fiat credevo che mi sarei salvato. Questo mito della Fiat del lavoro Fiat. Invece è una schifezza come tutti quanti i lavori anzi peggio. Qua ogni giorno ci aumentano i ritmi. Molto lavoro e pochi soldi. Qua pian piano si muore senza accorgersene. Questo significa che è proprio il lavoro che è schifoso tutti i lavori sono schifosi. Non c'è lavoro che va bene è proprio il lavoro che è schifoso. Qua oggi se vogliamo migliorare non dobbiamo migliorare lavorando di piú. Ma lottando e non lavorando piú solo cosí possiamo migliorare. Ce repusammo nu poco oggi ce ne iammo a fa' 'na iurnata 'e festa. Parlavo in dialetto perché erano tutti napoletani meridionali. Che cosí capivano tutti perché lí la lingua ufficiale era il napoletano.



Sandro Lorenzini alla Fornace di Albisola


giovedì 16 maggio 2019

San Biagio della Cima. Itinerari di letteratura 2019



Karl Marx scienziato del capitale (1851-1883)



Ultima lezione di un corso tenuto nel 1996. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848 Marx si dedica allo studio approfondito del modo di produzione capitalistico visto in tutte le sue sfaccettature (economiche, politiche, sociali, culturali). Il Capitale è un capolavoro della scienza economica, ma anche uno straordinario racconto della società e degli uomini del suo tempo. Allo stesso tempo Marx, che tutto fu meno che un uomo da biblioteche, svolse un'immensa mole di lavoro come organizzatore e dirigente di un movimento operaio e socialista diventato mondiale.

Giorgio Amico

Karl Marx scienziato del capitale (1851-1883)


Alla fine del 1851 Karl Marx e Friedrich Engels erano ormai pienamente convinti che solo sul lungo periodo si sarebbe potuto parlare di ripresa rivoluzionaria e che i tempi di tale processo erano determinati dall'andamento del mercato mondiale. In quest'ottica perdeva interesse l'azione politica immediata, giudicata del tutto priva di prospettive reali. Le esigue forze del partito andavano utilizzate in un più utile lavoro di studio e di orientamento teorico del movimento rivoluzionario internazionale. Occorreva soprattutto prendere con estrema chiarezza le distanze dagli esponenti di punta della democrazia rivoluzionaria, quali Mazzini e Kossuth, respingendo con decisione ogni ipotesi di attività cospirativa. I tempi non potevano essere accelerati volontaristicamente, non si poteva tornare indietro alla fase delle sette. La teoria diventava il primo campo d'azione del partito: occorreva studiare i meccanismi di riproduzione del capitale per portarne alla luce le contraddizioni, ma più di tutto occorreva cimentarsi con l'arduo problema dei tempi, nella certezza incrollabile che tutto lavorava per la rivoluzione, che la vecchia talpa non aveva smesso di scavare.



Il processo dei comunisti di Colonia e il "18 Brumaio"

La via della cospirazione, come previsto da Marx, si rivelò ben presto impraticabile e ciò non senza gravi colpi per il partito. In Germania la polizia aveva facilmente smantellato la fragile rete clandestina che la Lega aveva tentato di costruire dopo il riflusso del movimento rivoluzionario. Nel mese di ottobre si aprì a Colonia il processo ai comunisti arrestati. Da Londra Marx prese coraggiosamente le difese degli imputati, denunciando le macchinazioni della polizia, smascherando numerosi agenti provocatori infiltratisi nel movimento, smontando sistematicamente le innumerevoli calunnie diffuse dalla stampa. Fu un lavoro enorme che occupò interamente Marx ed Engels, come testimonia una lettera scritta in quel periodo dalla moglie di Marx:

"I documenti prodotti dalla polizia non sono che bugie. Essa ruba, falsifica, scassina uffici, aggiunge falsi giuramenti a false testimonianze e la cosa più enorme è che si crede in diritto di agire così di fronte ai comunisti che si sono messi fuori della società. E' veramente inconcepibile il modo con cui la polizia ignobilmente si attribuisce tutte le funzioni del pubblico ministero e presenta come fatti giuridicamente stabiliti, come prove, falsi certificati, semplici voci, rapporti, "si dice". Poiché tutte queste manovre non possono essere smascherate che a Londra, mio marito ha dovuto lavorare dalla mattina fino a notte inoltrata. Tutte le prove dei falsi della polizia sono state ricopiate da sei a otto volte e spedite in Germania con i mezzi più vari, via Parigi, via Francoforte, ecc., poiché tutte le lettere di mio marito e tutte le lettere inviate da qui a Colonia sono intercettate e aperte. Ora la lotta è tra la polizia e mio marito, al quale si attribuisce la responsabilità di tutto, dalla rivoluzione fino allo svolgimento del processo".

Nonostante l'impegno instancabile di Marx, il 12 novembre il tribunale emise un verdetto di colpevolezza per gli imputati. Cinque giorni più tardi, su proposta di Marx, il Comitato Centrale della Lega decise lo scioglimento dell'organizzazione, divenuta ormai un piccolo gruppo privo di prospettive. A dimostrazione che Marx aveva visto giusto, poco tempo dopo anche il gruppo dissidente di Willich-Schapper si sciolse. Willich emigrò in America, dove si distinse come generale dell'esercito nordista durante la guerra di secessione, mentre Schapper si ricollegò con Marx ed Engels ammettendo il suo errore di valutazione.

Nello stesso tempo Marx ruppe decisamente con l'ambiente degli esiliati, stufo delle sterili dispute, dei progetti inconcludenti, dell'incapacità di ripensare criticamente l'intera esperienza rivoluzionaria del '48. Il partito della democrazia rivoluzionaria si era dimostrato incapace di risolvere una sola delle questioni nazionali aperte in Europa. Italia, Germania, Polonia, Ungheria restavano questioni irrisolte. Terrorizzata dallo spettro del comunismo, apertamente la borghesia abbandonava il terreno democratico, come con ogni evidenza testimoniava il caso della Francia dove, invece della tanto attesa ripresa rivoluzionaria, il colpo di stato di Luigi Bonaparte regolava i conti con la stessa democrazia parlamentare. A questo avvenimento Marx dedicò uno studio accurato, pubblicato con il titolo di "Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte". Con uno stile brillante egli spiegava gli avvenimenti francesi sulla base della concezione materialistica della storia, spiegando come le circostanze avessero reso possibile a un personaggio mediocre e grottesco come Bonaparte di recitare la parte dell'eroe. Nelle prime pagine di quest'opera Marx delinea in poche righe una grandiosa descrizione della dialettica del processo rivoluzionario e del comunismo di grande interesse soprattutto oggi, dopo il crollo del falso socialismo dell'Est e le chiacchiere interessate sulla "fine del comunismo" e della storia:

"Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano tempestivamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro; gli uomini e le cose sembrano illuminate da fuochi di Bengala; l'estasi è lo stato d'animo di ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante; e allora una lunga nausea s'impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono a ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta, per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esso; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta! Qui è Rodi, qui salta!...":


L'esilio londinese

I primi anni di esilio a Londra rappresentano forse il periodo più difficile della vita di Marx. Egli passa le sue giornate nella grande sala di lettura della biblioteca del British Museum, intento a consultare migliaia di giornali, riviste e volumi finalizzati sia agli studi di economia, finalmente ripresi, che alla stesura di articoli di politica internazionale per il giornale americano "New York Tribune". La collaborazione con questo giornale, schierato su posizioni democratiche, rappresenta per Marx l'unica fonte di reddito. La redazione paga due sterline per ogni articolo pubblicato e Marx, che conosce poco l'inglese, si vede costretto a farsi aiutare da Engels. Dall'agosto 1851 al settembre 1852 la "New York Tribune" pubblica diciotto articoli sugli avvenimenti tedeschi, firmati da Marx, ma in realtà scritti da Engels che verranno in seguito riuniti in volume con il titolo di "Rivoluzione e controrivoluzione in Germania". A partire dall'estate del 1852 Marx è ormai in grado di scrivere in inglese e collabora stabilmente con il giornale newyorkese, inviando decine di articoli di commento dei più importanti avvenimenti internazionali. Friedrich Engels, che nel frattempo per poter aiutare l'amico in difficoltà ha ripreso il suo lavoro di dirigente della fabbrica tessile del padre, collabora con assiduità, raccogliendo e traducendo materiali, ma anche stendendo materialmente molti articoli che poi Marx firma.

Le condizioni di vita di Marx e dei suoi familiari sono veramente terribili: ad uno ad uno egli e la moglie vedono morire di malattia e di stenti tre dei loro figli. Disperatamente alla ricerca di denaro, vessato dai creditori, Marx si aggrappa disperatamente all'aiuto che gli viene da Engels e da pochi altri compagni per poter continuare nell'opera intrapresa. La moglie gli è vicina e lo sostiene fino in fondo, senza timore di chiedere l'aiuto dei vecchi amici. Come nella lettera che segue, scritta a Joseph Weydemeyer, vecchio membro della Lega emigrato in America. Dopo aver descritto le traversie patite, la malattia del bimbo più piccolo, lo sfratto, la vendita per pochi soldi dei mobili e il rifugio in un albergo per poveri, Jenny conclude orgogliosamente:

"Non crediate che queste miserie meschine mi abbiano abbattuta; so troppo bene che la nostra lotta non è isolata, e sono ancora felice e favorita dal destino perché il mio caro marito, il mio sostegno nella vita, sta ancora al mio fianco. Ma quello che mi mortifica veramente, che mi fa sanguinare il cuore, è il triste fatto che mio marito deve subire tutte queste meschinità, quando basterebbe poco per liberarci dalle strettezze; vederlo così privo di qualsiasi soccorso, proprio lui che ha aiutato così generosamente tanta gente... Ma mio marito la pensa diversamente. Mai, neppure nei momenti più terribili, egli ha perduto la fede nell'avvenire...".

E i momenti attraversati furono veramente tali da abbattere anche l'uomo più forte. Il figlio Guido fu il primo a morire "vittima della miseria borghese" come il padre disse a Engels. Poi toccò alla figlia Franziska, perduta nel primo anno di vita. Disperato, Marx aveva scritto a Engels: "Il dottore non potevo e non posso chiamarlo, perché non ho denaro per le medicine. Da otto o dieci giorni ho nutrito la famiglia con pane e patate, ed è anche dubbio che io riesca a scovarne oggi". Infine, nel 1855 il colpo più duro, la perdita dell'ultimogenito Edgard. In quell'occasione egli scrive a Engels:

"La casa è naturalmente del tutto desolata e vuota dopo la morte del caro bambino che ne era l'anima. Non si può dire come il bambino ci manchi a ogni istante... Mi sento spezzato... Tra tutte le pene terribili che ho passato in questi giorni, il pensiero di te e della tua amicizia, e la speranza che noi abbiamo ancora da fare insieme al mondo qualche cosa di intelligente, mi hanno tenuto su".



"Per la critica dell'economia politica"

Nel 1857 la crisi tanto attesa da Marx ed Engels venne ad interrompere la fase di ininterrotto sviluppo iniziata con il declino della rivoluzione del 1848. Partita dagli Stati Uniti, la crisi investì dapprima l'Inghilterra e poi il continente. Nonostante la sua precaria situazione economica aggravata dal fatto che a causa della crisi la "New York Tribune" aveva drasticamente ridotto le corrispondenze dall'estero, Marx saluta con rinnovata speranza i primi segnali di una riapertura della contesa politica. "Per quanto mi trovi in ristrettezze finanziarie - scrive a Engels nel novembre 1857- dal 1849 non mi sono mai sentito tanto a mio agio come con questo crollo". Sua unica preoccupazione, la non corrispondenza tra il precipitare della situazione e i tempi lenti di maturazione del proletariato:

"Sarebbe desiderabile - scrive- che, prima che arrivasse un secondo colpo decisivo, si verificasse quel "miglioramento" che rendesse la crisi, da acuta, cronica. La pressione cronica è necessaria per un certo tempo per riscaldare il popolo. Il proletariato in questo caso colpisce meglio, con una migliore conoscenza di causa e con maggiore accordo... Non vorrei che scoppiasse qualcosa troppo presto, prima che tutta l'Europa ne fosse contagiata... Per la lunga prosperità le masse debbono essere cadute in profondo letargo...".

Rivitalizzato dall'apparente precipitare dell'economia, che confermava le sue previsioni sul carattere ciclico delle crisi, Marx si getta a capofitto negli studi economici con il duplice obiettivo di elaborare le linee fondamentali di una critica dell'economia classica e di seguire con estrema attenzione il decorso della congiuntura economica. Egli riprende ora con decisione il progetto di una grande opera di economia politica iniziato con la critica a Proudhon e poi abbandonato nel fuoco rivoluzionario del '48, ripreso ancora a Londra nel 1851, ma portato avanti con estrema lentezza a causa delle gravi traversie economiche e familiari. Nel 1857 egli inizia la stesura dell'opera che appare nel 1859 con il titolo di "Per la critica dell'economia politica". Rispetto al piano originale di trattare "il capitale in generale", il volume affronta solo la questione della merce e del denaro e di fatto rappresenta un lavoro preparatorio per la gigantesca costruzione de "Il capitale". Come sottolinea Ernest Mandel, in quest'opera "Marx perfezionerà la sua teoria del valore, e al tempo stesso la teoria del valore-lavoro in generale, formulando la sua teoria del valore astratto, creatore di valore di scambio".

Oltre che sul piano della teoria economica, l'opera riveste una straordinaria importanza per la conoscenza dell'evoluzione del pensiero di Marx. La prefazione a "Per la critica dell'economia politica" rappresenta il più efficace compendio del metodo scientifico marxiano, un'opera indispensabile per la comprensione del materialismo storico. Dalla prefazione risalta con assoluta evidenza la straordinaria organicità della costruzione teorica marxista, con buona pace di chi, a partire da Althusser, ha voluto evidenziare una presunta insanabile frattura fra un Marx dialettico ed umanista dei "Manoscritti" e un Marx determinista ed economicista de "Il capitale". Scrive Marx nella prefazione:

"Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione, che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita.

Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) dentro dei quali esse forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono nelle loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche, che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.

Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; i nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.

Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana".



La crisi del 1857 e la ripresa del movimento operaio

Nonostante la crisi non si fosse trasformata nella rivoluzione proletaria come speravano Marx ed Engels, essa dette l'avvio ad una nuova fase di effervescenza sociale e politica in molti paesi. In America riprese slancio il movimento per l'abolizione della schiavitù, in Russia si posero le condizioni per la soppressione della servitù delle masse contadine, in India l'Inghilterra dovette fronteggiare una grande insurrezione popolare, in Europa acquistarono nuovo vigore le questioni nazionali irrisolte, a partire dal problema italiano e da quello tedesco. Su tutte queste questioni Marx si espresse vigorosamente, tenendo sempre come centrale l'interesse della rivoluzione proletaria, senza cedimenti alle infatuazioni nazionalistiche della democrazia rivoluzionaria.

Quanto al movimento operaio, dopo quasi dieci anni di riflusso conseguente alla sconfitta del 1848 la crisi economica determinò una ripresa delle lotte di fabbrica a partire dall'Inghilterra. Negli anni Cinquanta il forte sviluppo dell'industria inglese, unito all'intenso flusso migratorio verso gli Stati Uniti e l'Australia, aveva ridotto ad una percentuale irrisoria il numero dei disoccupati con il conseguente deciso aumento dei salari. Il movimento cartista aveva assunto posizioni estremamente moderate, decomponendosi in una miriade di gruppi locali e di giornali che, abbandonata ogni prospettiva di classe, di fatto, con l'eccezione del piccolo giornale "The People's Paper" a cui Marx ed Engels collaboravano regolarmente, si erano posti a rimorchio dei più influenti gruppi riformisti piccolo-borghesi. La crisi del 1857 riapriva la questione, determinando un brusco peggioramento delle condizioni economiche del proletariato e il riapparire minaccioso di una vasta disoccupazione. Il movimento operaio, nelle sue correnti più avanzate, faceva una nuova, importante esperienza: nella società capitalistica non esistono per i proletari conquiste definitive, tutto, anche ciò che è considerato ormai stabilmente acquisito, può essere messo in discussione al variare della congiuntura economica. Le conquiste dei lavoratori si fondano sui reali rapporti di forza tra le classi e non sulla norma giuridica. Invariante nella società capitalistica resta la lotta di classe e la conseguente necessità per il proletariato dell'organizzazione politica e dell'analisi scientifica, cioè del partito rivoluzionario di classe.

Nonostante la crisi del 1857 fosse stata rapidamente riassorbita e il mercato avesse ricominciato ad espandersi, il padronato tentò di sfruttare la situazione di precarietà che si era comunque determinata per fasce consistenti di lavoratori, generalizzando la riduzione dei salari. La risposta operaia non si fece attendere. Nel 1859 Londra viene paralizzata da un grande sciopero generale. Ovunque si formano organizzazioni di categoria dei lavoratori allo scopo di lottare contro il tentativo padronale di riduzione generalizzata dei salari. A Londra e poi via via nel resto del paese nascono i "Consigli delle Unioni Professionali", la prima forma di confederazione sindacale moderna. Nel 1862 le Trade Unions sono ormai una realtà consolidata nel quadro politico inglese.

Quanto alla Francia, dopo il 1860 si assiste al rapido diffondersi delle organizzazioni cooperative di mutuo soccorso controllate dai proudhoniani fautori di un programma, sostanzialmente moderato, incentrato sulla concessioni di crediti agevolati e la legalizzazione delle società operaie. In Germania, infine, dove l'impetuoso sviluppo industriale degli anni Cinquanta aveva determinato la formazione di un consistente proletariato di fabbrica, un nuovo movimento operaio si stava organizzando attorno alla figura contraddittoria di Ferdinand Lassalle, un intellettuale di origine ebraica, convertitosi al comunismo nel 1848. Lassalle sosteneva la necessità di costruire un partito operaio, fondato su una rete di cooperative operaie finanziate dallo Stato. Per raggiungere questo scopo Lassalle non esitò a stringere ambigui rapporti con Bismarck, presidente del consiglio dei ministri di Prussia, interessato a dividere l'opposizione progressista.

Per celebrare la ripresa del capitalismo nel 1862 fu organizzata a Londra una grandiosa esposizione universale. L'occasione fornì l'occasione alle organizzazioni operaie francesi, inglesi e tedesche per riannodare i legami interrotti dal 1849. Delegazioni di operai francesi e tedeschi, inviate dai rispettivi governi, parteciparono infatti all'esposizione, entrando in contatto con le associazioni operaie inglesi. Il 5 agosto 1862 si tenne un solenne ricevimento in onore dei settanta delegati degli operai francesi. Nei discorsi pronunciati in questa occasione si sostenne la necessità di stabilire regolari rapporti di collaborazione fra le organizzazioni operaie in quanto portatrici degli stessi interessi e delle stesse aspirazioni. Nonostante il carattere estremamente moderato e legalitario dell'iniziativa, tenuta con il patrocinio dello stesso mondo imprenditoriale britannico e del governo imperiale francese, si iniziavano a porre le basi per un nuova associazione internazionale del proletariato.



La fondazione della Prima Internazionale

Nel 1863 la Polonia insorse contro il dominio russo. In Inghilterra e Francia le organizzazioni operaie si schierarono senza esitazioni a fianco degli insorti. Il 22 luglio 1863 a Londra si svolse una grande manifestazione anglo-francese di solidarietà con la Polonia. In questa occasione dirigenti operai inglesi e francesi convennero sulla necessità di costituire un'associazione operaia internazionale, allo scopo principale di combattere la tattica padronale di importare manodopera dall'estero per spezzare gli scioperi, ed elessero un comitato incaricato dei lavori preliminari. I lavori si protrassero per oltre un anno, finalmente il 28 settembre 1864 nella St. Martin's Hall di Londra si svolse la seduta inaugurale del congresso costitutivo dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori.

Marx fu invitato come rappresentante degli operai tedeschi. Egli accettò volentieri l'invito consapevole dell'importanza dell'iniziativa che non riuniva più, come per il passato, i rappresentanti di piccoli gruppi senza radicamento sociale, ma, come ebbe a scrivere a Engels, "vere potenze" rappresentative del proletariato tanto in Francia quanto in Inghilterra. Preferì, tuttavia, assistere "come un personaggio muto", proponendo come oratore tedesco l'operaio Jorg Eccarius, già dirigente della Lega dei Comunisti.

La riunione ebbe pieno successo. Presero la parola delegati francesi, inglesi, tedeschi, italiani, irlandesi. All'unanimità il congresso decise di fondare un'associazione operaia internazionale, con sede centrale a Londra. Marx fu nominato membro del comitato incaricato di stendere programma e statuti. Il comitato si rivelò presto pletorico e eterogeneo dal punto di vista politico. Tra i 55 membri vi erano cartisti, owenisti, blanquisti, proudhoniani, mazziniani, semplici democratici e, naturalmente, una piccola componente comunista. Di fronte al procedere inconcludente dei lavori venne costituito un sottocomitato che diede carta bianca a Marx per la stesura dei testi. Egli si trovò nella necessità di svolgere una vera e propria battaglia politica soprattutto nei confronti di Mazzini, contrario all'idea stessa di lotta di classe in nome della superiore causa nazionale. La cosa non era semplice, considerata la necessità di non incrinare l'unità del movimento. Come scrisse a Engels , era "difficilissimo condurre la cosa in modo che il nostro punto di vista apparisse in una forma la quale lo rendesse accettabile all'attuale punto di vista del movimento operaio...". Marx vi riuscì egregiamente. L'assoluta, integrale autonomia del proletariato nella lotta politica fu il concetto fondamentale attorno a cui ruotarono Programma e Statuti e venne lapidariamente riassunto nella frase: "L'emancipazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa".

L'Internazionale doveva essere un'associazione di partiti rivoluzionari a base di massa, con ampia autonomia d'azione per le sezioni nazionali. Come recitava l'articolo primo degli Statuti: "L'Associazione è istituita per creare un mezzo centrale di collegamento e di collaborazione fra le associazioni operaie esistenti nei diversi paesi e che hanno il medesimo scopo, e cioè la difesa, il progresso e la completa emancipazione della classe operaia". Di contro alle tesi proudhoniane o oweniste sulla collaborazione di classe con la borghesia e la limitazione dell'azione al mero terreno della cooperazione economica e delle riforme sociali, l'Indirizzo inaugurale proclama con estrema chiarezza che "la conquista del potere politico è divenuto il compito principale della classe operaia". Per questo era necessario organizzare ovunque partiti operai.

La classe operaia però non doveva rinchiudersi in una politica angustamente nazionale, ma seguire attentamente l'evoluzione della politica internazionale, respingendo ogni pregiudizio nazionalistico, in una visione strategica internazionalista. I partiti operai dovevano costruire la loro linea politica a partire dalle condizioni nazionali in cui operavano, ma considerandosi sempre reparti di un unico esercito proletario internazionale. Il vecchio motto della Lega dei comunisti, "Proletari di tutto il mondo unitevi!", acquistava ora autentico respiro internazionale.


Marx dirigente internazionale del proletariato

L'Internazionale conobbe fin da subito un rapidissimo sviluppo. Il 23 febbraio 1865 Marx scriveva all'amico Kugelman che i successi dell'Associazione in Inghilterra, Francia, Svizzera, Italia e Belgio superavano di gran lunga ogni più ottimistica aspettativa. Il Comitato eletto al congresso costitutivo, che aveva nel frattempo assunto il nome di Consiglio Generale, era costretto ad un lavoro estenuante che in gran parte ricadeva sulle spalle di Marx, ormai da tutti considerato come il principale esponente dell'Internazionale. Parallelamente con il crescere dell'influenza dell'associazione fra i lavoratori, si approfondivano le divergenze interne fra le varie componenti. I primi ad andarsene furono i mazziniani, riuniti nell'Associazione degli operai italiani di Londra, contrari all'aperta caratterizzazione di classe dell'Internazionale. Il conflitto si allargò poi ai proudhoniani, largamente maggioritari nel movimento francese, contrari ad ogni ipotesi di tipo collettivistico in quanto sostenitori di una politica cooperativistica sostanzialmente piccolo-borghese. Gli esponenti proudhoniani avversavano decisamente gli scioperi, considerati economicamente dannosi per i proletari, così come ogni forma di azione politica e sindacale. Instancabilmente Marx si opponeva, con l'aiuto di Engels e di pochi altri, a queste deviazioni.

"I signori parigini - scriveva a Kugelmann nell'ottobre del 1866 - avevano la testa piena delle più vane frasi proudhoniane. Essi cianciano di scienza e non sanno nulla. Disdegnano ogni azione rivoluzionaria, cioè ogni azione che scaturisca dalla lotta di classe stessa, ogni movimento sociale concentrato, tale cioè che si possa attuare, anche con mezzi politici (come, per esempio, riduzione della giornata di lavoro per legge). Col pretesto della libertà e dell'antigovernativismo o dell'individualismo antiautoritario questi signori, che da 16 anni hanno sopportato e sopportano tanto tranquillamente il più miserabile dispotismo, predicano in realtà la volgare economia borghese, soltanto proudhonianamente idealizzata".

Proprio al fine di combattere le tesi di chi riteneva inutile l'azione sindacale per gli aumenti di salario, Marx presentò il 26 giugno 1865 al Consiglio Generale un saggio su "Salario, prezzo e profitto" in cui si dimostrava in modo semplice ed esauriente la falsità della tesi, ancora oggi tanto in voga da essere alla base della politica di concertazione delle organizzazioni sindacali, di uno stretto rapporto tra aumenti salariali e inflazione.

Lo sviluppo dell'Internazionale pareva inarrestabile. Se al primo congresso del 1866 erano rappresentate solo quattro nazioni: Inghilterra, Francia, Germania e Svizzera; al congresso di Basilea del 1869 esse erano diventate nove, essendosi aggiunte l'Austria, il Belgio, l'Italia, gli Stati Uniti e la Spagna, mentre sezioni più piccole erano state create in Ungheria, Olanda, Algeria e America Latina. Fortissima era anche l'adesione delle organizzazioni sindacali: dal 1867 al 1869 le associazioni operaie di Inghilterra, Svizzera, Germania, Austria, Stati Uniti avevano via via richiesta l'affiliazione all'Internazionale. Marx considerava fondamentale la crescita delle organizzazioni sindacali, che andavano seguite nel loro sviluppo e orientate politicamente. Come sottolinea David Rjazanov:

"Uno dei compiti principali che Marx consigliava era lo studio metodico, scientifico, della situazione della classe operaia di tutto il mondo, studio che doveva essere intrapreso per iniziativa degli operai stessi. Tutto il materiale raccolto doveva essere inviato al Consiglio Generale che lo avrebbe elaborato. Marx indicava a grandi linee le principali questioni su cui doveva vertere questa indagine operaia".

Sulla base di questo materiale Marx redasse una risoluzione sui sindacati che venne poi sottoposta al vaglio dell'Internazionale. Per Marx i sindacati sono il risultato immediato della lotta fra capitale e lavoro e rispondono soprattutto all'esigenza di eliminare la concorrenza fra i proletari sul mercato della forza lavoro. I sindacati sono però anche centri di organizzazione per la classe operaia, nuclei fondamentali dell'organizzazione di classe del proletariato e come tali vanno conquistati ad una corretta strategia politica. In polemica con i trade unionisti inglesi che volevano limitare il ruolo del sindacato alle questioni del salario e dell'orario di lavoro, Marx ribadisce con forza il concetto, poi ripreso da Lenin, del sindacato come scuola di guerra del proletariato, luogo dove i proletari fanno concreta esperienze di lotta e dove apprendono l'esigenza dell'organizzazione politica e la necessità di impostare i problemi avendo sempre chiara la prospettiva strategica del movimento operaio e le sue finalità storiche. Per questo Marx si batte con grande decisione perché le organizzazioni sindacali entrino nell'Internazionale e ne seguano la linea politica.


"Il Capitale"

Nonostante le difficili condizioni economiche e l'impegno intensissimo nell'azione quotidiana di direzione politica dell'Internazionale, Marx non aveva smesso di lavorare alla redazione del grandioso lavoro intrapreso sul capitale. Alla fine del 1865 il lavoro poteva considerarsi concluso, ma solo nella forma di un gigantesco manoscritto che andava, per usare una colorita espressione dello stesso Marx, "leccato e lisciato come un figliolino dopo tanti dolori di parto". Dal canto suo, Engels salutò come una liberazione per l'amico il termine di un lavoro a cui questi aveva dedicato gran parte della sua vita:

"Ho sempre pensato che questo maledetto libro, a cui hai dedicato così lunga fatica, fosse il nocciolo di tutte le tue disgrazie, da cui non saresti uscito né mai avresti potuto uscire fino a quando non te lo fossi scrollato di dosso. Questa eterna cosa incompiuta ti schiacciava fisicamente, spiritualmente e finanziariamente, e posso benissimo concepire che dopo la liberazione da questo incubo a te sembri adesso di essere completamente un altro uomo, specialmente perché il mondo, non appena vi farai di nuovo il tuo ingresso, non t'apparirà così nero come prima".

Ed in effetti come è stato scritto "il Capitale nacque negli anni della miseria, nella fame, nella malattia. Mentre lo scriveva, Marx era assalito dall'inquietudine, torturato dai disagi dei bambini, angosciato dal pensiero del domani. Ma nulla potè abbatterlo". Il 16 agosto 1867, alle due di notte, Marx terminò la correzione delle bozze di stampa del primo volume e immediatamente scrisse a Engels per ringraziarlo di un aiuto prezioso, senza il quale quest'opera titanica non avrebbe mai visto la luce:

"Dunque questo volume è pronto. Debbo soltanto a te, se questo fu possibile! Senza il tuo sacrificio non avrei potuto compiere il mostruoso lavoro dei tre volumi. Ti abbraccio, pieno di gratitudine! Salute, mio caro, caro amico!".

Il primo volume de "Il Capitale" uscì ad Amburgo all'inizio del mese di settembre in mille esemplari. L'impatto fu enorme. Il congresso di Bruxelles dell'Internazionale nel 1868 adottò una risoluzione che invitava gli operai di tutto il mondo a studiare l'opera. La risoluzione sottolineava l'incalcolabile contributo teorico offerto da Marx alla lotta di liberazione del proletariato: egli era "il primo economista che avesse sottoposto il capitale ad un'analisi dettagliata e lo avesse ricondotto ai suoi elementi fondamentali". Come ha scritto Lenin:

"Egli dimostrò che il valore di ogni merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario alla sua produzione, ovvero dal tempo di lavoro socialmente necessario alla sua produzione. Là dove gli economisti borghesi vedevano dei rapporti tra oggetti (scambio di una merce con un'altra), Marx scoprì dei rapporti tra uomini. Lo scambio delle merci esprime il legame tra singoli produttori per il tramite del mercato. Il denaro indica che questo legame diventa sempre più stretto, fino a unire in un tutto indissolubile la vita economica dei produttori isolati. Il capitale indica lo sviluppo ulteriore di questo legame: la forza lavoro dell'uomo diventa una merce. L'operaio salariato vende la sua forza lavoro al proprietario della terra, delle fabbriche, degli strumenti di produzione. L'operaio impiega una parte della giornata di lavoro a coprire le spese di mantenimento suo e della famiglia (il salario), e l'altra parte a lavorare gratuitamente, creando per il capitalista il plusvalore, fonte del profitto, fonte della ricchezza della classe dei capitalisti. La dottrina del plusvalore è la pietra angolare della teoria economica di Marx".



La Comune di Parigi

Negli anni Cinquanta e Sessanta l'economia tedesca aveva conosciuto un tale sviluppo da farle superare la stessa Francia. Sconfitta nella guerra del 1866 l'Austria, la Prussia del cancelliere Bismarck aveva riunificato intorno a se l'intera Germania e si poneva ormai in diretta competizione con la Francia di Napoleone III per l'egemonia sull'Europa continentale. Nell'estate del 1870 allo scoppio della guerra fra i due paesi, il Consiglio Generale dell'Internazionale pubblicò un manifesto sulla guerra, scritto da Marx. In esso si sosteneva che "da parte tedesca la guerra era una guerra difensiva" e che la classe operaia tedesca doveva vigilare perché la difesa della Germania non degenerasse in una guerra contro il popolo francese. Il manifesta lodava poi gli operai francesi per essersi dichiarati contro la guerra e contro Napoleone. Di fronte alla vittoria lampo dell'esercito prussiano, al crollo dell'impero e all'instaurazione della repubblica a Parigi, la posizione dell'Internazionale muta. La Prussia non ha più nulla da temere dalla Francia, la guerra, voluta da Napoleone, ormai sconfitto e prigioniero, deve cessare immediatamente senza l'annessione al Reich dell'Alsazia e della Lorena. Il 9 settembre il Consiglio Generale pubblicò un secondo manifesto, sempre redatto da Marx, in cui si denunciavano le mire espansionistiche di Bismarck. Marx ed Engels avevano ben chiare le prospettive che si aprivano in un'Europa dominata dalla Germania. In una lettera a Friedrich Sorge, uno dei membri del Consiglio Generale, Marx evidenzia con mezzo secolo di anticipo come l'affermarsi su scala continentale della potenza tedesca renda inevitabile lo scontro con la Russia e come tutto ciò aprirà la via alla rivoluzione nell'anello più debole della catena, la Russia zarista:

"Quegli asini dei prussiani non si accorgono che l'attuale guerra conduce a una guerra tra la Germania e la Russia, con la stessa necessità che la guerra del 1866 conduceva alla guerra tra la Prussia e la Francia. Per la Germania è il miglior risultato che io attendo da questa guerra....questa guerra numero due sarà la levatrice della rivoluzione sociale inevitabile in Russia".

Di nuovo riemerge la questione dei tempi: la preoccupazione di Marx e Engels è che il proletariato francese si getti in un'avventura senza prospettive. "Dopo la pace tutte le prospettive saranno più favorevoli per gli operai di quel che fossero mai prima", dichiarava Engels in una lettera a Marx del 12 settembre. "Se a Parigi si potesse fare una qualche cosa, si dovrebbe impedire che gli operai si muovessero prima della pace...Se vincono ora...saranno inutilmente sconfitti dalle armate tedesche e rigettati indietro di vent'anni...". Già nel secondo manifesto del Consiglio Generale Marx aveva messo in guardia i proletari parigini dal pericolo rappresentato dall'impazienza:

"La classe operaia francese si muove dunque in circostanze estremamente difficili. Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia....Migliorino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per lavorare alla loro organizzazione di classe. Ciò darà loro nuove forze erculee, per la rinascita della Francia e per il nostro compito comune, l'emancipazione del lavoro. Dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica".

Alla fine del mese di gennaio 1871 il governo repubblicano firma un armistizio con i tedeschi che assediavano Parigi, alla metà di marzo viene firmata la pace. Il governo prussiano, temendo il precipitare della situazione in senso rivoluzionario , si impegna a liberare nel più breve tempo possibile i prigionieri di guerra francesi per permettere la ricostituzione dell'esercito nazionale. Parallelamente il governo provvisorio si assume l'onere di disarmare gli operai parigini che, organizzati in una Guardia Nazionale, avevano assicurato la difesa della capitale dopo la disfatta di Sedan. Nonostante la messa in guardia di Marx, il proletariato parigino, diretto politicamente da esponenti blanquisti e bakuninisti, insorge contro questo patto scellerato. Il 18 marzo Parigi è nelle mani dei rivoltosi che proclamano la Comune rivoluzionaria. Marx non crede nelle possibilità di una vittoria, tuttavia decide di schierarsi decisamente a fianco dei rivoluzionari parigini, di cui pure non condivide in nulla la linea politica. Se il proletariato tenta "l'assalto al cielo", i rivoluzionari devono mettere da parte ogni differenziazione e schierarsi senza esitazioni al suo fianco. Di più, Marx criticherà duramente l'indecisione dei dirigenti della Comune, che esitano ad allargare la guerra civile all'intero territorio francese, che non colgono l'occasione di marciare su Versailles dando così tempo al governo provvisorio di riorganizzarsi.

Nei due mesi di vita della Comune, Marx instancabilmente inviò centinaia di lettere dovunque avesse relazioni per difendere i comunardi dalle calunnie della borghesia e per sollecitare la solidarietà del movimento operaio e democratico. A maggio l'esercito nazionale, riorganizzato e armato dalla Germania, soffoca nel sangue l'insurrezione. In una settimana di lotta furibonda per le vie di Parigi, ventimila comunardi vengono massacrati sulle barricate , mentre altre decine di migliaia verranno in seguito sommariamente fucilati o condannati ai lavori forzati alla Cayenna. Il 30 maggio 1871 Marx legge al Consiglio Generale il suo indirizzo su "La guerra civile in Francia". La Comune, afferma è stata essenzialmente "un governo della classe operaia, risultato della lotta delle classi produttrici contro le classi possidenti, la forma politica finalmente scoperta con la quale si sarebbe potuto lavorare all'emancipazione economica del lavoro". E conclude con l'orgoglio del vecchio combattente di cento battaglie rivoluzionarie:

"Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l'araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti!"


La rottura con Bakunin e lo scioglimento dell'Internazionale

La drammatica fine della Comune aggravò i contrasti all'interno dell'Internazionale fra la direzione marxista e la componente bakuniniana, che tanta responsabilità portava per gli avvenimenti parigini. Michail Bakunin, di nobile famiglia, era nato nel 1814 in Russia. Trasferitosi in Germania, aveva aderito alla sinistra hegeliana berlinese e aveva collaborato con Marx e Ruge agli "Annali franco-tedeschi". Combattente nella rivoluzione tedesca, arrestato e deportato nelle prigioni dello zar., era stato confinato in Siberia da dove era fuggito con una rocambolesca evasione attraverso mezzo mondo. Rientrato in Europa si era buttato a capofitto nell'attività cospirativa e nel 1864 aveva aderito all'Internazionale al cui interno aveva costituito una frazione segreta, la "Fraternità internazionale", di stampo massonico e carbonaro. Uomo della preistoria del movimento operaio, Bakunin si collocava a pieno nella fase cospirativa e carbonara dell'organizzazione operaia. Avversario dell'azione politica e sindacale, Bakunin puntava sull'azione diretta degli strati marginali della società ed in particolare del sottoproletariato urbano e delle masse contadine. Totalmente in contrasto con l'ipotesi strategica marxiana, che tacciava di autoritarismo e di statalismo, Bakunin aveva concentrato l'attività della sua frazione in Italia, in Spagna e nella Svizzera francese, dove esistevano per l'arretratezza stessa del tessuto sociale le condizioni adatte alla sua propaganda.

Nei mesi che seguirono alla disfatta della Comune, Marx ed Engels lavorarono con grande impegno alla riorganizzazione dell'Internazionale. Nella conferenza di Londra del settembre 1871 Marx presentò una risoluzione relativa alla lotta politica nella quale si chiariva come :

"Considerando che la reazione più sfrenata reprime con la violenza il movimento degli operai verso l'emancipazione e cerca di mantenere con la forza brutale la divisione in classi e il conseguente dominio delle classi dominanti; che questa organizzazione del proletariato in un partito politico è necessaria per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e del suo obiettivo ultimo, l'abolizione delle classi; che l'unione delle forze operaie è ottenuta già attraverso la lotta economica e deve comunque essere una leva tra le mani della classe operaia nella lotta contro il potere politico degli sfruttatori; la conferenza ricorda a tutti i membri dell'Internazionale che, nel piano di lotta della classe operaia, il suo movimento economico e la sua attività politica sono indissolubilmente legati".

Nei mesi successivi alla conferenza di Londra le polemiche all'interno dell'Associazione internazionale dei Lavoratori aumentarono di intensità. I seguaci di Bakunin accusarono il Consiglio Generale di autoritarismo e di aver imposto all'Internazionale la risoluzione sull'azione politica di partito. Essi pretesero la convocazione di un nuovo congresso per definire una volta per tutte la questione. La frazione bakuninista accusava la conferenza di Londra di aver adottato delle deliberazioni che "costituiscono un grave attentato agli statuti generali e tendono a fare dell'Internazionale, libera federazione di sezioni autonome, un'organizzazione gerarchica e autoritaria di sezioni disciplinate, poste interamente nelle mani di un Consiglio Generale, il quale a suo piacimento può rifiutarne l'ammissione ovvero sospenderne l'attività".

Il Consiglio Generale rispose con un'altra circolare in cui si denunciava l'attività frazionistica di Bakunin e si convocava il congresso per il mese di settembre all'Aja. Al congresso presero parte 65 delegati, 40 facevano parte della componente marxista, 25 erano invece sulle posizioni di Bakunin. Quanto alle sezioni nazionali, belgi, olandesi, svizzeri e spagnoli erano con la minoranza, tedeschi, danesi, ungheresi, boemi, americani e francesi erano schierati con Marx. Le sedute si svolgevano di sera perché gli operai potessero assistervi, in un clima incandescente. A larga maggioranza passò la tesi marxista sull'azione politica già approvata dal congresso di Londra. Poi il congresso decise di aumentare i poteri del Consiglio Generale che sarebbe stato trasferito a New York. Infine, dopo un infuocato dibattito, venne decisa l'espulsione di Bakunin e Guillaume, essendo stata dimostrata l'azione scissionistica compiuta dalla loro frazione. La decisione di rompere definitivamente con Bakunin fu così giustificata da Marx in una lettera a Bebel:

"Se noi avessimo voluto all'Aja mostrarci concilianti, se noi avessimo tentato di dissimulare la scissione...quale sarebbe stato il risultato? I settari, cioè i bakuninisti, avrebbero potuto per un anno ancora commettere bestialità e infamie ancor peggiori in nome dell'Internazionale".

Marx pensava che occorresse preservare l'Internazionale dalle manovre di Bakunin in attesa di tempi migliori. Egli, animato come al solito da un forte ottimismo della volontà, riteneva prossima l'apertura di una nuova fase rivoluzionaria. In realtà, ancora una volta i tempi si rivelarono più lunghi del previsto e la scelta di New York segnò di fatto la fine dell'esperienza dell'Internazionale. Nel 1876 il Consiglio Generale da New York annunciò lo scioglimento dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori.



Gli ultimi anni di Marx

Dopo il 1873 Marx abbandonò l'attività politica aperta, dedicandosi totalmente alla revisione della seconda edizione del primo libro del Capitale e alle traduzioni francese e russa dell'opera. Stroncato da una vita di stenti, Marx si ammalò tanto gravemente da non poter più lavorare. Il progetto di dare forma definitiva agli altri libri del Capitale restò incompiuto. "Esser incapace di lavorare - scrisse- è la sentenza di morte per ogni uomo che non voglia essere un bruto". Se non poteva più studiare ai ritmi impossibili tenuti fino ad allora, egli non rinunciò alla lettura e alla corrispondenza. Da tutto il mondo esponenti dei giovani partiti socialdemocratici si indirizzavano a lui per avere consigli, indicazioni, proposte. E Marx rispondeva a tutti, così come seguiva le pubblicazioni e i congressi delle organizzazioni operaie, anche le più insignificanti. Anche se la rivoluzione tanto attesa non c'era stata, egli vedeva giorno dopo giorno il proletariato crescere in forze organizzate sulla linea che egli e Friedrich Engels fin dal 1844 avevano tracciato e ostinatamente difeso. E questo valse a rendergli gli ultimi anni meno dolorosi, nonostante la perdita della moglie e della figlia maggiore.

Marx morì il 14 marzo 1883, a sessantacinque anni. Fu Friedrich Engels a dargli a nome del proletariato mondiale l'estremo saluto:

"Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra... Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d'Europa e d'America, nonché per la scienza storica... Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana... Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti... Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria.. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario... la lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto... Marx era perciò l'uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi assoluti e repubblicani lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. E' morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale. Il suo nome vivrà nei secoli e così la sua opera!".

IV 1996