lunedì 31 luglio 2017
venerdì 28 luglio 2017
A Cosio una giornata per festeggiare i 60 anni del Situazionismo
Cosio d'Arroscia 1957. Debord e Simondo
Stefano Pezzini
A Cosio una giornata
per festeggiare i 60 anni del Situazionismo
A sessant’anni dalla
fondazione dell’Internazionale Situazionista, Cosio d’Arroscia
ricorda uno dei suoi cittadini più illustri, Piero Simondo,
inaugurando lo Spazio Simondo, nell’intento di restituire la più
ampia visibilità al lavoro di un protagonista instancabile del
secondo Novecento. Lo farà sabato 29 luglio con il “Non Convegno”
presso la Sala Consiliare del Comune di Cosio dove, fra l’altro,
verrà presentato il libro di Giorgio Amico “Guy Debord e la
società spettacolare di massa”.
Alle 15:30, nella
cornice dell’Oratorio dell’Assunta, verrà ripercorsa l’opera
di Piero Simondo in un Convegno intitolato “Un Percorso partito da
Cosio”: interverranno Sandro Ricaldone e Donatella Alfonso, che
presenterà il suo ultimo libro “Un’imprevedibile situazione”,
dedicato appunto a quei giorni frenetici del luglio 1957 in cui
nacque a Cosio l’Internazionale Situazionista.
Cosio d'Arroscia 1957. Michèle Bernstein
Era il 28 luglio del 1957
quando, a Cosio d’Arroscia, sulle Alpi Marittime liguri, nella casa
di un giovane pittore e della moglie, sposati da poco, arrivano una
coppia di intellettuali francesi e un artista inglese che fotografa
tutti, un visionario artista danese, la figlia della più famosa
collezionista d’arte americana, un musicista geniale che fa
preoccupare la mamma e un farmacista che si è fatto teorico
dell’arte. In quei pochi giorni nasce, e in un certo senso già
deflagra, quella provocazione artistica e culturale che sarà
l’Internazionale Situazionista.
I protagonisti di quei
giorni (la leggenda vuole che una volta a Costo d’Arroscia,
provenienti da Albissola, allora la “piccola Atene”, l’automobile
rimase senza benzina, quindi Cosio fu quasi una tappa obbligata) si
chiamano Guy Debord e Michèle Bernstein, Asger Jorn e Pinot
Gallizio, Pegeen Guggenheim e Ralph Rumney, Walter Olmo. Saranno
tutti ospiti di Piero e Elena Simondo e tutti protagonisti della
stagione artistica di Albissola e della sua ceramica. Tutti a
costruire una rivoluzione sotterranea che ha infiammato le strade del
Sessantotto e la polemica culturale, si è nascosta ma cova ancora.
“E sono le foto,
adesso, a tramandare questa storia alla gente del paese che si chiama
Cosio, lassù sulle Alpi Marittime dove il mare di Liguria lo senti
quando arriva una folata di vento, ma subito sopra c’è la neve e,
se ti giri a sinistra, sai che c’è la Francia. La gente: quella
che è rimasta insomma, perché quassù la nebbia arriva anche a
giugno e il mare è lontano persino per i tedeschi. La gente allora
si rende conto che quel gruppetto di pazzi amici di Piero, lui sì
amico di tutti, lui sì del paese, non erano venuti lì per una
baldoria, ma per un’avventura che poteva nascere solo così, perché
se sei lettrista o psicogeografico o immaginista, se hai vent’anni
o anche se non li hai più, ma sai che l’idea più urgente è
quella di cambiare il mondo, ecco che sei chiamato a inventare una
cosa sola: l’Internazionale Situazionista”, scrive nella
prefazione al suo libro Donatella Alfonso “Un’imprevedibile
situazione Arte, vino, ribellione: nasce il Situazionismo”, edito
dal Melangolo.
Spiega invece Giorgio
Amico, autore della biografia di Guy Debord, uno dei fondatori
dell’Internazionale Situazionista: “Si tratta della prima
biografia che appare in Italia sul personaggio centrale del movimento
situazionista. Il libro, fondato sull’analisi sistematica delle
opere ma soprattutto degli 8 volumi della corrispondenza di Debord,
ricostruisce nei particolari il percorso che partendo dalla Cannes
degli anni ’40 (dove Debord allora vive) arriva alla fondazione
dell’Internazionale situazionista a Cosio nel 1957 e culmina poi
nel Maggio francese.
L’ultima parte tratta
del periodo post-situazionista fino al suicidio del 1994. Si tratta
di una storia soprattutto politica. Debord fin dagli inizi vuole
rivoluzionare il mondo, l’arte gli interessa solo come mezzo. E
infatti dal 1962 l’Internazionale situazionista è un movimento a
tutti gli effetti politico. Questo contrasto tra artisti e politici
che connota l’intero periodo iniziale (1957-1962) è stato finora
poco trattato. Il libro vuole colmare questa lacuna oltre che far
conoscere meglio il personaggio Debord di cui in Italia si sa
veramente molto poco. Non esisteva una sua biografia mentre
numerosissimi sono gli scritti sul suo cinema”.
http://liguriaedintorni.it/a-cosio-una-giornata-per-festeggiare-i-60-anni-del-situazionismo/
Alla vigilia della conferenza di Cosio, il Rapporto sulla costruzione delle situazioni
Ultima
puntata del nostro sintetico viaggio alla scoperta
dell'Internazionale situazionista. La conferenza di Cosio, presentata
spesso come un semplice incontro di artisti, fu invece per Debord
un'operazione squisitamente politica. Di qui il contrasto con gli
italiani e l' espulsione di Simondo, Verrone e Olmo a pochi mesi
dalla fondazione dell'Internazionale. E domani tutti a Cosio per i 60
anni di un evento che ancora oggi mantiene intatta la sua attualità.
Giorgio
Amico
Alla
vigilia della conferenza di Cosio, il Rapporto sulla costruzione
delle situazioni
All'inizio
dell'estate 1957 dopo quasi un anno di lavoro in comune con gli
italiani Debord ritiene che sia giunto il momento di accelerare il
processo di unificazione fra l'Internazionale lettrista e il MIBI. In
un articolo, apparso sul numero 28 di Potlatch,
egli definisce con grande lucidità finalità e modi della fusione
con il gruppo di Alba. Del tutto consapevole dello scarso peso del
suo gruppo, Guy delinea uno scenario che assomiglia più ad
un'operazione entrista che ad una fusione fra due movimenti di pari
importanza:
«L'allargamento
delle nostre forze, la possibilità e la necessità di una vera
azione internazionale devono condurci a cambiare profondamente la
nostra tattica. Dobbiamo impadronirci della cultura moderna, per
utilizzarla per i nostri scopi, e non condurre più un'opposizione
esterna fondata sul solo sviluppo futuro dei nostri problemi. [...]
La tendenza di Potlatch
deve accettare, se necessario, una posizione minoritaria all'interno
della nuova organizzazione internazionale, per permetterne
l'unificazione».
Debord
è consapevole che il piccolo gruppo lettrista rischia di annullarsi
all'interno di un movimento più ampio composto prevalentemente da
pittori e ridursi così ad una mera avanguardia artistica al servizio
degli ultimi frammenti dell'estetica moderna, ma sa anche il rischio
va corso se si vuole avere i mezzi, prima di tutto economici,
necessari a svolgere quel ruolo rivoluzionario che egli ritiene
essere ormai pienamente alla portata dei lettristi internazionalisti:
«É
certo che la decisione di servirsi, dal punto di vista economico così
dal quello costruttivo, di frammenti arretrati dell'estetica moderna
comporta gravi pericoli di decomposizione. Degli amici si inquietano,
per citare un caso preciso, per l'improvvisa predominanza numerica di
pittori, di cui giudicano la produzione fortemente insignificante e i
legami con il mercato dell'arte indissolubili. [Ma] dobbiamo correre
il rischio di una regressione; tendere a superare al più presto
possibile le contraddizioni della frase presente approfondendo una
teoria d'insieme, e pervenendo a delle esperienze i cui risultati
siano indiscutibili».
Dunque
nel momento stesso in cui accelera il processo di unificazione,
Debord pare non contare troppo sugli «italiani», ad eccezione di
Jorn e forse di Simondo con cui ha in quel periodo una intensa
interlocuzione, ma allo stesso tempo non voler forzare la situazione.
La fase è ancora quella della raccolta delle forze. In quest'ottica
la fusione con il MIBI ha una valenza prevalentemente tattica,
occorre utilizzare ogni mezzo, anche artistico, utile a costruire
un'alternativa rivoluzionaria alla cultura dominante e a questo scopo
il «Fronte» con gli italiani va bene. Proprio l'accettazione dei
limiti dell'operazione comporta però la necessità di definirne con
chiarezza le linee strategiche di fondo. Perchè come Debord, buon
conoscitore della storia militare, sa bene, non può darsi tattica
al di fuori di una strategia, pena il cadere in un tatticismo
inconcludente e contradditorio.
Nel giugno 1957 Debord
pubblica un Rapporto sulla costruzione delle situazioni e sulle
condizioni dell'organizzazione e dell'azione della tendenza
situazionista internazionale, come documento preparatorio della
conferenza d'unificazione dei gruppi che già avevano partecipato al
Congresso di Alba e base strategica dell'intera operazione. L'inizio
è una dichiarazione d'intenti folgorante:
«Noi
pensiamo per prima cosa che si debba cambiare il mondo. Noi vogliamo
il cambiamento più libertario della società e della vita in cui ci
troviamo imprigionati. Noi sappiamo che questo cambiamento è
possibile per mezzo di azioni appropriate».
Segue
un bilancio della situazione delle avanguardie che riecheggia toni
trotskisteggianti:
«La
nostra epoca è caratterizzata fondamentalmente dal ritardo
dell'azione politica rivoluzionaria sullo sviluppo di possibilità
moderne di produzione, che esigono un'organizzazione superiore del
mondo […] Tuttavia l'azione del movimento operaio internazionale da
cui dipende il rovesciamento preliminare dell'infrastruttura
economica dello sfruttamento, non è arrivato che a dei parziali
successi locali. Il capitalismo […] si appoggia sulla degenerazione
delle direzioni operaie; irretisce per mezzo di diverse tattiche
riformiste, le opposizioni di classe».
La perpetuazione del
sistema di dominio borghese avviene prima di tutto sul terreno
dell'ideologia, attraverso la «banalizzazione»
della cultura operata dai mezzi di comunicazione di massa. Ne deriva
la centralità della lotta culturale, ma per evitare il recupero da
parte del potere delle «scoperte sovversive», sempre possibile come
dimostra la parabola del movimento surrealista, occorre elaborare un
nuovo tipo di avanguardia che sia al tempo stesso superamento del
concetto stesso di avanguardia come realtà separata. Ciò può
avvenire solo con il passaggio aperto dalla critica dell'arte alla
critica dell'ideologia e della politica:
«La
nozione stessa di avanguardia collettiva, con l'aspetto militante che
essa implica, è un prodotto recente delle condizioni storiche che
comportano allo stesso tempo la necessità di un programma coerente
nella cultura, e la necessità di lottare contro le forze che
impediscono lo sviluppo di questo programma. Tali raggruppamenti sono
condotti a trasporre nella loro sfera di attività metodi
d'organizzazione creati dalla politica rivoluzionaria, e la loro
azione non può più ormai concepirsi al di fuori di una critica
della politica».
Il
pensiero dominante è ovunque in piena decomposizione, nell'Ovest
capitalista, come nell'URSS e negli Stati “operai”:
«Il
pensiero borghese perso nella confusione sistematica, il pensiero
marxista profondamente alterato negli Stati operai, il
conservatorismo regna all'est e all'Ovest, principalmente nel dominio
della cultura e dei costumi».
Eppure,
nonostante questo, «il riflusso del movimento rivoluzionario
mondiale, che si manifesta qualche anno dopo il 1920 e che si andava
ad accentuare fino all'inizio degli anni Cinquanta, è seguito, con
uno scarto di cinque o sei anni, dal riflusso dei movimenti che hanno
cercato di affermare delle novità liberatorie nella cultura e nella
vita quotidiana».
In
questa situazione alcune esperienze, seppur limitatamente, hanno
tentato di fare argine alla decomposizione e garantito una continuità
di iniziativa: l'Internazionale degli artisti sperimentali-Cobra
nell'Europa del 1949-1951, il Movimento Internazionale per una
Bauhaus Immaginista in Italia, l'attività di Bertolt Brecht a
Berlino con la sua rimessa in questione della nozione stessa di
spettacolo, e, naturalmente, l'Internazionale lettrista in Francia.
Debord passa poi a definire gli elementi costitutivi di una
opposizione «provvisoria» che andrà concretamente costruita
mediante l'azione «collettiva» e «disciplinata» dei partecipanti
al nuovo raggruppamento internazionale che si va a costituire.
Centrale nella sua proposta è il passaggio dal rifiuto all'utilizzo
tattico della cultura moderna:
«Si
deve intraprendere immediatamente un lavoro collettivo organizzato,
tendente ad un impiego unitario di tutti i mezzi di rovesciamento
della vita quotidiana […] Dobbiamo costruire degli ambienti nuovi
che siano insieme prodotto e strumento di comportamenti nuovi. Per
farlo, occorre utilizzare empiricamente, all'inizio, le iniziative
quotidiane e le forme culturali che esistono attualmente […] Non
dobbiamo rifiutare la cultura moderna, ma impadronircene, per
negarla».
Egli
auspica la creazione di situazioni, definite come la costruzione
concreta di momentanei ambienti di vita e la loro trasformazione in
momenti di una qualità passionale superiore. Le situazioni sono
l’opposto dello spettacolo, la forma di vita alienata e passiva
propria della società capitalistica nello stadio della
decomposizione. Gli strumenti pratici di questa azione sono la
deriva, la psicogeografia e soprattutto l'urbanismo unitario, inteso
come utilizzo integrato di tutte le arti e le tecniche. Dal 1957 al
1962 l'intera prima fase di vita dell'IS sarà incentrata su questo
punto che è considerato il cuore stesso della teorizzazione del
superamento dell'arte: «L'arte integrale, di cui si è tanto
parlato, non potrà che realizzarsi a livello dell'urbanismo»
annuncia il Rapporto.
Questo
impegno, richiede organizzazione e disciplina, e il superamento di
ogni settarismo. Ciò significa che «si deve esigere un accordo
completo dalle persone e dei gruppi che partecipano a questa azione
unita» e che il programma deve essere definito «collettivamente» e
realizzato «in modo disciplinato».
Il
Rapporto
si chiude con un’esortazione ad un agire in comune pienamente
organico. Debord è tuttavia consapevole delle difficoltà insite
nell'impresa, della possibilità che procedendo in avanti si arrivi
comunque a nuove rotture. Una visione realistica che non manca,
tuttavia, di una forte carica utopica che in molti punti cita
apertamente il giovane Marx:
«Dobbiamo
avanzare le parole d'ordine dell'urbanismo unitario, dei
comportamenti sperimentali, della propaganda iper-politica, della
costruzione di ambienti. Si è abbastanza interpretato le passioni:
si tratta ora di trovarne altre».
Esplicito il richiamo al
Marx della celebre XI tesi su Feuerbach: «I
filosofi hanno finora interpretato diversamente il mondo, si tratta
ora di cambiarlo». Qualche anno più tardi tuttavia Debord
considererà il Rapporto
«indebolito da un certo schematismo e soprattutto da
un'insufficiente analisi politica».
(Da:
Giorgio Amico, Guy Debord e la società spettacolare , Massari
Editore, 2017)
giovedì 27 luglio 2017
Guy Debord- Asgern Jorn: un incontro all'origine dell'Internazionale situazionista
Terza puntata del
nostro mini viaggio alla scoperta dell'Internazionale
situazionista. Oggi parliamo dell'incontro fra Asger Jorn e Guy
Debord.
Giorgio Amico
Guy Debord- Asgern
Jorn: un incontro all'origine dell'Internazionale situazionista
Jorn viene a conoscenza
dell'esistenza dell' Internazionale lettrista grazie alla lettura del
terzo numero di Potlatch che gli è stato passato dal pittore
Enrico Baj che a sua volta lo ha ricevuto direttamente da Debord. Il
bollettino gli pare subito interessante, anche se molto confuso, ma
ciò che colpisce di più Jorn è l'assonanza fra le sue idee
antifunzionaliste e le tesi lettriste:
«Potlatch
è interessantissimo, ma assai confuso. Occorre mettersi in contatto
con loro... è sorprendente come siamo sulla stessa linea. […] Il
lettrismo letterario corrisponde nettamente con la ricerca del segno
in pittura, poi una concezione artistica nuova basata sull'incontro
immediato tra la soggettività e il mondo obiettivo. Si deve cercare
se possibile, di trovare un legame fra questi due movimenti
internazionali, il nostro e il loro […] Bisogna assolutamente che
noi pubblichiamo i loro testi sull'architettura […] credo che
abbiamo trovato qualcosa di importante».
Trattando
dell'incontro fra i lettristi e Jorn, Kaufmann, che pur ne rileva
l'importanza per la nascita futura dell'Internazionale situazionista,
parla di fatto sostanzialmente casuale e aleatorio. In realtà è da
quando ha fondato il MIBI e si è collegato ai nucleari che l'artista
danese lavora alla costruzione di un più vasto raggruppamento
internazionale. Si comprende dunque come la scoperta dell'esistenza a
Parigi di un gruppo d'avanguardia su posizioni molto simili alle sue
spinga Jorn a cercare immediatamente un contatto. Da Albisola,
dove risiede, Jorn scrive a André-Frank Conord esponendo le sue
posizioni e richiedendo informazioni sull'attività
dell'Internazionale lettrista. Conord
gira la lettera a Guy che non perde tempo: già il
16 novembre assieme a Michèle Bernstein scrive a Jorn. La lettera è
formale ma anche molto calda:
«Caro
Signore, la vostra lettera ci è stata trasmessa ieri da André-Frank
Conord, assieme alla copia della risposta che vi ha inviato a titolo
personale. Siamo felici di prendere conoscenza della vostra azione in
una lotta che è anche la nostra. La necessità di sfruttare a fini
passionali gli immensi poteri dell'architettura è una delle
affermazioni basilari del nostro movimento. Al di fuori di ogni
ambizione artistica, ciò che vogliamo stabilire, è una nuova forma
di vita. Per questa impresa l'architettura (Bauhaus) è evidentemente
il primo dei mezzi di cui dobbiamo servirci. Noi siamo giustamente
uniti dall'idea che l'esistenza sia generalmente insignificante, ma
che tocchi a noi costruire dei giochi essenziali. Noi finiremo
sicuramente per avere ragione, in architettura come negli altri
campi. Ameremmo ricevere i vostri bollettini. Dal canto nostro vi
inviamo oggi stesso, con spedizione a parte, dei documenti recenti.
Riceverete in futuro le nostre pubblicazioni. Siamo molto favorevoli
a ogni forma di collaborazione che potremo mutualmente scambiarci e
anche alla ricerca con voi di un programma comune. Crediate alla
nosta viva simpatia».
E'
l'inizio di una profonda amicizia e di una attiva collaborazione che
porterà nello spazio di tre anni alla fondazione dell'Internazionale
situazionista. Debord trova in Jorn un artista impegnato, ma
soprattutto un marxista. Membro dagli anni Trenta del Partito
comunista danese, attivo nella Francia del Fronte Popolare nelle
campagne di solidarietà con la Repubblica spagnola, resistente
contro l'occupazione nazista, Jorn è un comunista antistalinista,
studioso attento dell'opera di Marx. Debord non è particolarmente
interessato ad una collaborazione con Baj e i suoi compagni del
movimento per un'arte nucleare, impegnati solo in campo artistico.
Egli tuttavia ritiene che, nonostante i limiti degli italiani,
occorra mantenere i contatti, perchè «il Movimento per
un'architettura immaginista, a cui aderiscono, difende in
architettura una posizione realmente moderna». Su questo terreno,
considerato l'unico realmente rivoluzionario, esistono le condizioni
per un accordo e una fattiva collaborazione.
Per
rafforzare l'intesa appena raggiunta, Debord traduce in francese
Immagine e forma,
l'opuscolo che Jorn aveva pubblicato con l'aiuto di Baj nell'ottobre
1954. Qualche estratto esce sul numero 15 di Potlatch sotto il
titolo Una architettura della vita.
«Jorn
ha voluto vederci dopo aver letto Potlatch – racconta Michèle
Bernstein – É
venuto all'Hotel de la Facultè. É
stato subito amore». Il ricordo è sfuocato. Le date non
corrispondono. Probabilmente Jorn e Debord si incontrano per la prima
volta nel dicembre 1954 in occasione di un soggiorno di Jorn a
Parigi. Lo afferma Bourseiller che però non porta alcun argomento a
sostegno. La prima data certa è il 23 aprile 1955 quando Debord
scrive al danese in merito ad un incontro e poi il mese di settembre,
quando Jorn, dopo aver letto l'articolo Perchè
il lettrismo?, apparso sul numero 22 di
Potlatch, ricontatta Debord per riconfermare il suo appoggio e gli
annuncia la sua intenzione di recarsi a Parigi per incontrare di
persona i suoi nuovi compagni di lotta. «Arriverò
a Parigi – scrive – verso la metà di ottobre e spero che questa
volta riusciremo ad incontrarci per iniziare una discussione, che
credo sarà fertile».
Come abbiamo
visto, Jorn è convinto che il «programma letterario» lettrista
corrisponda «esattamente» al programma artistico suo e di Baj.
Debord lo è un po' meno, tanto che agli inizi del 1956 scrive a
Trocchi che Jorn è «ancora ingombro di formulazione estetiche
inutili» Anche la valutazione dell'incontro non è del tutto
positiva:
«Asger Jorn è a Parigi.
Egli insiste molto per collaborare con noi. È un uomo simpatico e
intelligente. Ma ancora ingombro di qualche formulazione estetica
inutile. Per cui le conversazioni che ho avuto con lui mi hanno
profondamente annoiato; e al presente lascio i nostri amici
continuare la discussione. Si vedrà ciò che si può fare».
Tra la
fine del 1955 e l'inizio del 1956 il processo di avvicinamento dei
due gruppi si accelera. Jorn fonda con Pinot Gallizio e Piero Simondo
il Laboratorio sperimentale di Alba, contemporaneamente acquista un
piccolo studio a Parigi, convinto che la partita decisiva si giochi
soprattutto in Francia. Quanto a Debord, egli inizia a pensare ad
iniziative comuni che vadano oltre il semplice scambio di materiali.
Egli ha fin da subito ben chiaro che solo un rapporto organico con
Jorn può permettere alla minuscola Internazionale lettrista di
uscire definitivamente dall'ambito parigino ed assumere finalmente
respiro europeo. Esiste, scrive compiaciuto a Wolman, «una
marmaglia franco-belga-italiana che inizia ad amarci molto, a trovare
che abbiamo dello spirito».
(Da: Giorgio
Amico, Guy Debord e la società spettacolare di massa, Massari
editore, 2017)
mercoledì 26 luglio 2017
Guy Debord nel caffè della gioventù perduta
Seconda
tappa di avvicinamento alla giornata situazionista di Cosio
d'Arroscia del 29 luglio. Oggi raccontiamo una pagina della vita del
giovane Debord nella Parigi del 1951.
Giorgio
Amico
Guy
Debord nel caffè della gioventù perduta
Appena
arrivato a parigi, il 16 ottobre Debord affitta una camera all'Hotel
de la Facultè, in rue Racine, proprio nel cuore del Quartiere
latino. Una sistemazione non proprio economica, la camera costa
14.000 franchi al mese, un prezzo proibitivo per uno studente, ma nel
caso di Debord è la madre a coprire le spese. Da Cannes Paulette
invia ogni mese al figlio 30.000 franchi, oltre a farsi carico delle
sue necessità più minute. Per molto tempo dopo il suo arrivo a
Parigi Guy invierà periodicamente per corriere la sua biancheria
sporca alla nonna che gliela ritornerà per la stessa via lavata e
stirata. Una bohème abbastanza confortevole, almeno per questo primo
periodo , se paragonata alla condizione della maggioranza dei
lettristi, veri marginali, costretti a vivere di espedienti e di
piccoli furti.
Coerente con le tesi di
Isou sul «sollevamento
della gioventù» il
movimento lettrista recluta dalla fine degli anni '40 dei giovani
ribelli che rifiutano le convenzioni della vita borghese. Una
gioventù marginale composta da artisti e intellettuali, ma anche da
sottoproletari, immigrati nordafricani, minorenni scappate di casa,
piccoli delinquenti e tossici. É
questo l'ambiente in cui Debord si inserisce a Parigi e che, quasi
alla fine della sua vita, rievocherà con
nostalgia:
«Nel
quartiere di perdizione dove giunse la mia giovinezza, come per
completare la sua istruzione, si sarebbe detto che si erano dati
convegno i segni precursori di un prossimo crollo dell'intero
edificio della civiltà. Vi si incontravano in permanenza della gente
che non poteva essere definita se non negativamente, per la buona
ragione che non aveva alcun mestiere, non attendeva ad alcuno studio,
e non esercitava alcuna arte. […] Questo ambiente di imprenditori
di demolizioni, più nettamente di quanto avessero fatto i loro
predecessori delle ultime due o tre generazioni, si era allora
mischiato assai strettamente alle classi pericolose. Vivendo con
loro, si fa in larga misura la loro vita. Ne restano evidentemente
delle tracce durevoli. Più di metà di coloro che, nel corso degli
anni ho conosciuto aveva soggiornato, una o varie volte, nelle
prigioni di diversi Paesi; molti, certo, per ragioni politiche, la
maggior parte tuttavia per reati o crimini di diritto comune. Ho
quindi conosciuto soprattutto i ribelli e i poveri. Ho visto attorno
a me, in gran quantità, gente che moriva giovane, e non sempre di
suicidio, comunque frequente».
Questa identificazione
con la piccola criminalità permette a Debord di demarcarsi
ulteriormente dal suo passato di borghese agiato. Tutto ciò che è
illegale l'attira: la droga, l'abuso di alcol, le ragazze minorenni,
i piccoli delinquenti, le case di correzione, la prigione. Il tutto
presentato come una reazione al processo irreversibile di decadenza
della società, declamato come il manifesto programmatico di una
generazione: «L'universo sta
esplodendo. Andiamo da un bar all'altro offrendo a ragazzine
fragili la mano come gli stupefacenti di cui naturalmente abusiamo».
Installatosi a Parigi
Debord scopre Saint-Germain-des-Prés, il luogo di ritrovo dei
giovani lettristi che si riuniscono in alcuni piccoli locali
equivoci del quartiere, evitando con cura le zone alla moda, come i
famosi caffè Flore e Deux Magots,
frequentate dagli esistenzialisti:
«
Per noi il quartiere finiva grosso modo davanti alla statua di
Diderot. Lì davanti c'era un bistrot che si chiamava il
Saint-Claude... Un poco avanti la rue de Rennes. Si imboccava la rue
des Ciseaux, all'angolo fra la rue des Ciseaux e la rue du Four c'era
un bistrot chiamato le Bouquet, un poco più lontano, rue du Four,
c'era Moineau. Sul marciapiede in faccia, all'angolo della rue
Bonaparte se non mi sbaglio, c'era un bistrot che vendeva patatine
fritte e salsicce, la Chope gauloise; rue des Canettes, non la si
frequentava allora ancora molto, ospitava già Chez Georges, un
bistrot molto conosciuto. Dopo si ritornava per la rue du Four, c'era
la Pergola, giusto in faccia, e l'Old Navy, un poco più lontano sul
marciapiede, a centocinquanta metri dal Mabillon».
«Il
mio quartiere è un'isola che nuota sulla Senna»
aveva scritto Gabriel Pomerand, niente potrebbe rendere meglio di
questo verso l'orgoglioso isolamento dei giovani lettristi e il loro
totale rifiuto di un mondo che andava abbandonato:
«Parigi
allora, entro i limiti dei suoi venti arrondissement non dormiva mai
tutta, e consentiva alla dissolutezza di cambiare tre volte quartiere
ogni notte. Non se ne erano ancora scacciati e dispersi gli abitanti.
Vi restava un popolo che aveva fatto le barricate dieci volte e messo
in fuga dei re. […] Era il labirinto migliore per trattenere i
viaggiatori. Coloro che vi si fermarono due giorni non ne ripartirono
più, o per lo meno finchè esistette; ma i più vi sono morti
giovani prima di andarsene. Nessuno lasciava le poche strade e i
pochi tavoli in cui era stato scoperto il punto culminante del
tempo».
Chez Moineau
Il
quartier generale dei giovani lettristi è un piccolo bistrot, Chez
Moineau, situato al numero 22 di rue du Four, che può contenere al
massimo una cinquantina di persone. É
un locale dimesso, frequentato da nordafricani e da piccoli
malavitosi, dove si può sostare per giornate intere senza obbligo di
consumazione, con pochi franchi consumare dei cibi mediocri e del
pessimo vino e soprattutto restare al caldo nelle fredde giornate
invernali:
«Moineau,
era una specie di isola deserta […] là avveniva la scrematura più
dura, la gente aveva paura d'andarci. Là, effettivamente, c'era il
delirio. C'era l'alcol, c'era l'hascish...».
Moineau
era un locale frequentato da magrebini, erano loro che nella Francia
dei primi anni Cinquanta avevano importato l'uso di fumare l'hascish.
Una frequentazione che non era solo mera trasgressione, ma anche
precisa scelta politica, come sottolinea Mension: «Partecipare
alla vita dei magrebini era un modo chiarissimo di prendere posizione
contro la borghesia, contro i coglioni, contro i francesi».
Luogo di incontri, di discussioni e di amori, dove l'ebbrezza
alcolica equivale a una rivoluzione permanente, per Debord Chez
Moineau diventerà negli anni del ricordo il «caffè
della gioventù perduta».
(Da:
Giorgio Amico, Guy Debord e la società spettacolare di massa,
Massari editore, 2017)
martedì 25 luglio 2017
Guy Debord, un liceale surrealista
A 60 anni dalla
fondazione dell'Internazionale situazionista, il 29 luglio Cosio d'Arroscia dedicherà una intera giornata a quell'evento e ai suoi protagonisti.
Da qui al 29 ogni giorno racconteremo un pezzettino di quella storia.
Iniziamo oggi con una pagina quasi sconosciuta della vita di Guy
Debord.
Giorgio Amico
Guy Debord, un liceale
surrealista
Nei suoi ricordi Debord
fa spesso riferimento al ruolo privilegiato che il surrealismo ha
avuto nella sua formazione. Non sappiamo bene come avvenga questa
scoperta, molto probabilmente tramite le poesie e le sceneggiature
cinematografiche di Prevert, e forse anche attraverso Cocteau, autori
allora molto di moda. Una scoperta che non avviene per caso, ma
grazie soprattutto all'incontro nella primavera del 1949 con Hervé
Falcou, un compagno di scuola di qualche anno più giovane.
Quando incontra Debord [che ha 18 anni], Hervé non ha ancora
compiuto 15 anni, ma manifesta già precocissimi interessi letterari
e artistici. Sarà proprio questa precocità a colpire Guy che non
tiene in grande considerazione i suoi coetanei e lo scrive all'amico:
«In
ogni modo si deve spaccare tutto. Non è credibile (…) che io
continui ad uscire con tipi privi di interesse e ragazze che non amo
– che non sono neppure belle. D'altronde nessuno lo potrebbe più
essere».
I due adolescenti hanno davvero
molto in comune: sono entrambi orfani di padre e di salute
cagionevole, tutti e due sono stati allevati dalla nonna materna e
disprezzano il nuovo marito della madre, ma soprattutto hanno un
comune ardente amore per la poesia e l'arte. Pur essendo il più
giovane, è Hervé il più preparato, quello dei due che ha letto di
più e soprattutto le cose più interessanti. Per sua stessa
ammissione Guy legge romanzi popolari, da poco è passato dai libri
d'avventura dell'infanzia ai romanzi gialli di cui resterà comunque
per tutta la vita un appassionato lettore. Hervé gli apre
all'improvviso le porte del mondo, fino a quel momento per lui
sconosciuto, delle avanguardie artistiche del Novecento. Questo
incontro segna una svolta fondamentale nella sua vita, documentata
dalla copiosa massa di lettere che i due si scambiano per quattro
anni dal 1949 al 1953 e che permette una conoscenza più precisa di
come Debord viva quella delicata fase di tranzione tra l'adolescenza
e l'età adulta, passaggio che si conclude con la sua adesione al
movimento lettrista e l'inizio di una vita pienamente indipendente.
Già nelle prime lettere di questa corrispondenza appaiono
frequentemente i nomi di Paul Éluard, Louis Aragon, Pablo Picasso,
André Breton, Jacques Prevert.
Hervé Falcou, venuto a
soggiornare al sud per ragioni di salute, proviene dall'ambiente
della grande borghesia intellettuale parigina. Sua madre, pittrice di
una certa fama, frequenta artisti e intellettuali importanti. Il
quattordicenne conosce bene per pratica famigliare l'ambiente delle
avanguardie parigine e in particolare dei surrealisti. Per non
sfigurare con l'amico Debord si accinge ad uno studio sistematico
del movimento surrealista a partire dalla fondamentale Storia del
Surrealismo di Maurice Nadeau, uscita con grande successo nel
1945 e completata tre anni dopo da una ricca antologia di testi.
Nel tempo libero dalla
scuola Hervé e Guy si dedicano con passione ad attività tipicamente
surrealiste come la scrittura automatica e a formulare fantasiosi
progetti di abbellimento architettonico di Parigi che rappresentano
forse i primi germi di quella che qualche anno più tardi diventerà,
arricchita da nuovi incontri e da nuove stimolanti esperienze, la
pratica situazionista dell'urbanismo unitario. Guy è consapevole
del suo ritardo culturale nei confronti dell'amico e un po' ne
soffre. Le lettere che invia nel 1950 a Hervé testimoniano della
frenesia con cui cerca di colmare le sue lacune. Uno dopo l'altro
legge tutti i classici del surrealismo, le opere di Breton, le poesie
di Char e di Éluard. Poi
passa ai precursori ideali del movimento, Rimbaud e Apollinaire.
L'influsso di queste letture sarà profondo e duraturo e darà al
giovane Debord la convinzione di appartenere ad una élite libera
dalle «meschinità che imprigionano le persone». Un sentimento
forte che si traduce nelle lettere all'amico in una scrittura tinta
di lirismo che rivela un senzo tragico dell'avvenire e un disagio
esistenziale a cui non è estranea la lettura di Sartre. Sulle soglie
dell'età adulta Guy non ha dubbi sulle scelte da fare sia sul piano
dell'arte che della vita e lo comunica a Falcou: «Il
movimento Dada è da rifare... se la questione si ponesse, io mi
affiancherei facilmente a André Breton».
Quanto al futuro egli più di ogni altra cosa desidera «condurre
la vita più libera possibile».
Il periodo fra la fine
del 1949 e l'inizio del 1950 è fondamentale per la sua evoluzione e
non solo sul piano culturale. Il giovane, che vuole scrollarsi di
dosso il peso sempre più soffocante della sua famiglia e della sua
classe sociale, è in cerca un'uscita di sicurezza e la trova nelle
potenzialità libertarie che la vita di strada offre a chi abbia il
coraggio di rifiutare le regole stabilite dalla società. Il suo
atteggiamento verso la vita e il mondo che lo circonda cambia
radicalmente. Non gli interessa più, se mai gli è davvero
importato, di farsi una posizione una volta terminati gli studi. Vive
la scuola come una costrizione che gli ruba il tempo che egli
vorrebbe interamente dedicare alle sue ricerche e ai suoi nuovi
«giochi».
Il suo linguaggio utilizza sempre più una fraseologia
rivoluzionaria. Nelle lettere a Falcou, che testimoniano di questa
rapidissima evoluzione, i termini «terrorismo» e «terrore»
iniziano ad apparire con una certa frequenza. Guy inizia ad
assumere atteggiamenti da teppista e a comportarsi di conseguenza.
Compiaciuto, confida all'amico le sue imprese: piccoli atti di
vandalismo, scritte provocatorie sui muri di Cannes, disturbo delle
funzioni religiose nelle chiese. Più di tutto, inizia a bere. Suoi
maestri di scrittura e di mala/vita diventano Villon, Sade,
Lautréamont, Cravan. É
alla loro approvazione ideale che egli tiene più di ogni altra cosa.
Ce lo dice in Panegirico senza alcun giro di parole, con poche
chiarissime frasi:
«Non
potevo nemmeno pensare di studiare una sola delle dotte discipline
che portano ad avere questo o quell'impiego, perchè mi apparivano
tutte estranee ai miei gusti o contrarie alle mie opinioni. Coloro
che stimavo più di chiunque altro al mondo erano Arthur Cravan e
Lautréamont, e sapevo perfettamente che tutti i loro amici, se
avessi accettato di fare studi universitari, mi avrebbero disprezzato
non meno che se mi fossi rassegnato a svolgere un'attività
artistica».
Nella
figura mitica del poeta «maledetto», così importante nella
letteratura occidentale dal romanticismo in avanti, il giovane
liceale trova il modello a cui riferirsi per dare sostanza culturale
al suo sempre più aperto rifiuto delle convenzioni. Debord
considererà sempre Lautréamont come l'ispiratore principale de la
sua scrittura:
«Niente
mi pare aver dato nell'arte questa impressione della luce definitiva,
tranne la prosa usata da Lautréamont nell'enunciazione programmatica
che ha chiamato Poesie».
Ciò che attira Debord è
il plagio, il gioco consapevole di riappropriazione a fini sovversivi
delle opere della tradizione letteraria: « Il plagio è necessario.
il progresso lo implica. Stringe da presso la frase di un autore, si
serve delle sue espressioni, cancella un'idea falsa, la sostituisce
con l'idea giusta», afferma Lautréamont.
Una frase che
affascina Debord, che su questo ardito concetto baserà interamente
la sua pratica del détournement. Pur dichiarandosi
«anarco-lettrista», si impegna per qualche tempo nelle attività
dei «partigiani della pace», raccogliendo firme sul cosiddetto
appello di Stoccolma per l'interdizione assoluta delle armi nucleari.
Debord non avrà mai ripensamenti. Da vero enfant
perdu il
giovane Guy è
ormai partito per un'avventura da cui sa non esserci ritorno
possibile:
“Vidi
finire, prima di avere vent'anni, questa parte tranquilla della mia
giovinezza. E non ebbi più altro obbligo che quello di seguire senza
freni tutti i miei gusti, ma in condizioni difficili. Andai anzitutto
verso l'ambiente, molto attraente, dove un estremo nichilismo non
voleva più saperne, né sopprattutto continuare ciò che era stato
fino ad allora ammesso come uso della vita o delle arti. Questo
ambiente mi riconobbe senza sforzo come uno dei suoi. Là svanirono
le mie ultime possibilità di tornare un giorno al corso normale
dell'esistenza. Lo pensai allora, e il seguito l'ha dimostrato».
(Da:
Giorgio Amico, Guy Debord e la società spettacolare di massa,
Massari editore, 2017)
lunedì 24 luglio 2017
Guy Debord a Cosio d'Arroscia 1957-2017
A sessant'anni dalla fondazione dell'Internazionale Situazionista.
Cosio d'Arroscia
1957-2017
L'Internazionale
Situazionista ha 60 anni e si li porta bene, se consideriamo
l'interesse che l'anniversario sta suscitando su giornali e riviste.
Il 29 luglio a Cosio d'Arroscia, luogo di inizio dell'avventura
situazionista, per l'intera giornata si svolgeranno eventi dedicati a
Piero Simondo, a Guy Debord e agli altri coraggiosi naviganti che 60
anni fa intrapresero un viaggio destinato a condizionare fortemente
la società della seconda metà del XX secolo. La giornata si aprirà
con un omaggio in mattinata alla figura e all'opera di Guy Debord.
Nella sala consiliare del Comune di Cosio (g.c.), studiosi e
ricercatori dibatteranno sulla figura dell'artista e pensatore
francese a partire dal libro di Giorgio Amico “Guy Debord e la
società spettacolare di massa”, appena uscito a cura dell'editore
romano Roberto Massari che da sempre ospita nel suo catalogo una
intera sezione di opere dedicate all'Internazionale Situazionista.
L'incontro rappresenta il
quarto di una serie di seminari annuali iniziata nel 2014 a La
Spezia, proseguita nel 2015 a Livorno (presso la prestigiosa galleria
d'arte Peccolo) e nel 2016 alla Sorbona di Parigi. Di ogni convegno
sono disponibili gli atti (sempre editi da Massari) che
rappresentano il più aggiornato punto della situazione degli studi
in materia. Coerentemente con questa tradizione nel corso
dell'incontro di Cosio verranno anche presentati gli atti relativi al
seminario parigino dell'anno scorso
Guy Debord e la
società spettacolare di massa rappresenta una novità assoluta
per il mercato editoriale italiano. Si tratta infatti della prima
biografia complessiva di Guy Debord, su cui finora nel nostro paese
erano usciti studi (anche molto importanti, ma parziali) soprattutto
sul cinema. Il libro, di 320 pagine corredate da una ricca rassegna
di immagini, ricostruisce dettagliatamente la vita dell'intellettuale
francese, evidenziandone le origini italiane (da parte della madre),
l'infanzia difficile, gli studi liceali a Cannes nel primo
dopoguerra, fino all'incontro nel 1950 con le avanguardie artistiche
parigine ed in particolare con i lettristi di Isidore Isou.
La ricerca, fondata sullo
spoglio minuzioso degli 8 volumi della Corrispondenza, ricostruisce
la fitta rete di relazioni che il giovane Debord costruisce a partire
dal suo arrivo a Parigi nel 1951. In modo dettagliato si racconta
dell'adesione convinta al movimento lettrista, dei primi esperimenti
cinematografici (il famoso film senza immagini che tanto scandalizzò
i critici, suscitando polemiche e risse, tanto che ne vennero
immediatamente vietate le proiezioni), fino allo scandaloso attacco a
Charlie Chaplin e alla nascita di un nuovo movimento
politico/artistico: l'Internazionale lettrista.
E' a partire da questo
momento che l'interesse di Debord si fissa sull'Italia dove ad Alba
opera il Laboratorio sperimentale di Pinot Gallizio e Piero Simondo e
ad Albisola il MIBI di Asger Jorn, già surrealista dissindente
animatore nel dopoguerra del gruppo CoBrA. Proprio dall'incontro
fortuito nel 1954 fra Debord e Jorn ha inizio il percorso che conduce
in tre anni alla Conferenza di Cosio, alla fusione fra
l'Internazionale lettrista e il MIBI (con l'aggiunta dell'effimero
Comitato psicogeografico di Londra dell'inglese Ralph Rumney) e alla
nascita dell'Internazionale situazionista.
Obiettivo di Debord non è
rivoluzionare l'arte, ma la vita. Fin da subito l'IS si divide fra
artisti e politici, fautori di una rapida trasformazione del
movimento in una organizzazione esclusivamente politica. Decisivi
saranno gli anni fra il 1957 e il 1962 contrassegnati interamente dal
contrasto fra Debord e gli artisti che ad uno ad uno vengono espulsi
(come Simondo e Gallizio) o costretti ad allontanarsi (come Jorn).
Non estranea a questa progressiva radicalizzazione dei situazionisti
è la militanza di Debord nel gruppo operaista francese Pouvoir
Ouvrier emanazione della rivista Socialisme ou barbarie. Uno dei
meriti del libro è proprio di aver ricostruito con estrema ricchezza
di dettagli questo aspetto militante dell'impegno di Debord dagli
scontri di piazza per l'Algeria indipendente alla partecipazione in
Belgio ai picchetti del grande sciopero dei metallurgici del 1961.
Una pagina mai trattata in Italia, dove è prevalsa una narrazione
solo intellettuale dei percorsi di Debord.
Dal 1962 un'Internazionale
situazionista sempre più impegnata sul tema del potere dei consigli
operai (centrale il mito della grande rivolta antiburocratica
ungherese del 1956) lancia campagne in tutta Europa contro i piani di
guerra della NATO e subisce per questo attentati da parte
dell'estrema destra, mentre entra nel mirino dei servizi di sicurezza
francesi e non solo. E poi lo scandalo di Strasburgo che di fatto
apre la stagione del '68, la notte delle barricate nel quartiere
Latino che vedono i situazionisti protagonisti assoluti degli scontri
e delle assemblee. E' il momento del trionfo, ma anche l'inizio del
declino dell'IS che nel 1972 si scioglie tristemente dopo tre anni di
polemiche, soprattutto per il rifiuto di Debord di un “situazionismo”
di maniera diventato moda giovanile diffusa. Nel libro si ricordano
le feroci invettive debordiane contro i “Pro-situs”, i seguaci di
un situazionismo di massa diventato moda salottiera.
L'ultima parte del volume
ricostruisce (prezioso davvero l'ausilio della Corrispondenza) il
progressivo distacco di Debord dalla politica, il lento ripiegarsi su
se stesso (conseguenza anche di una saluta compromessa da decenni di
eccessi alcolici), la fuga da Parigi, il rifugiarsi nell'eremo di
Champot in un antico casolare in pietra che (sono parole di
Debord) «sembrava aprirsi direttamente sulla Via Lattea». Sono
gli anni del silenzio, della riflessione, ma non del pentimento. “Il
leopardo muore con le sue macchie” risponde sarcastico Debord al
medico che lo invita a smettere di bere. Fino a quel colpo di fucile
al cuore, proprio come tanti anni prima Hemingway, che la notte del
30 novembre 1994 chiude a 63 anni la vita di Guy Louis Marie
Vincent Ernest Debord nato alle cinque del pomeriggio del 28 dicembre
1931 da Paulette Rossi in una casa del 19° arrondissement a Parigi.
Giorgio Amico
Guy Debord e la società
spettacolare di massa
Massari Editore, 2017
pagine 320
Etichette:
Eventi,
Giorgio Amico,
Guy Debord,
Libri,
Liguria di Ponente,
Situazionismo
Cosio d'Arroscia 1957-2017. Che la festa incominci!
In occasione del 60° anniversario della fondazione dell'Internazionale Situazionista a Cosio d'Arroscia (IM) si terrà un'intera giornata di dibattiti, inaugurazioni, incontri,musica ed arte.
Sarà una grande festa
Partecipate!!!
Noi ci saremo
Sarà una grande festa
Partecipate!!!
Noi ci saremo
Spazio Piero Simondo, Cosio d'Arroscia
In occasione del 60° Anniversario della costituzione dell'Internazionale Situazionista
a Cosio d'Arroscia
inaugurazione dello
Spazio Piero Simondo
il giorno 29 luglio 2017
alle ore 17.00
Etichette:
Arte,
Eventi,
Liguria di Ponente,
Piero Simondo,
Situazionismo
domenica 23 luglio 2017
Il cammino di Santiago di Compostela
Radici storiche e
significati esoterici di un viaggio alla fine della terra e ritorno.
Le foto sono quelle del nostro personale cammino.
Raffaele K. Salinari
Il cammino di Santiago
di Compostela
Il 25 di luglio gli
spagnoli festeggiano il loro santo protettore: San Giacomo il
Maggiore, fratello di Giovanni, entrambi
soprannominati Boanerges (Figli del Tuono), per il loro
temperamento impulsivo. Da più di mille anni, ogni giorno, centinaia
di persone abbracciano la sua statua nella Cattedrale di Santiago di
Compostela, in Galizia. Sono i Pellegrini che convergono verso questo
antico luogo di culto dai vari Cammini che, da tutte le nazioni del
Vecchio Continente, arrivano alla città costruita intorno alla tomba
dell’Apostolo. La leggenda jacobea narra della sua predicazione in
Galizia. Qui arrivato dalla Palestina convertì i locali al
cristianesimo e dopo qualche anno fece ritorno a Gerusalemme in
occasione della Dormizione mariana, dove, nel 42, fu decollato per
ordine di Erode Agrippa I. I suoi discepoli, ligi alla tradizione che
il corpo di un predicatore doveva essere sepolto nella terra in cui
aveva operato, lo riportarono in Galizia, nel luogo che poi si chiamò
Santiago di Compostela.
La leggenda del Campo
delle stelle
Compostela deriverebbe
dal latino campus stellae, cioè campo della stella. Secondo
una tradizione medievale che appare per la prima volta
nella Concordia de Antealtares (1077), l’eremita Pelayo
(Pelagio), scorse delle luci notturne a forma di stella che si
producevano nel bosco di Libredón, dove ancora esistevano le
vestigia delle antiche fortificazioni di un antico villaggio celtico.
A questo punto, illuminato più che dalle piccole comete, da una luce
interiore, avvisò il vescovo di Iria Flavia (l’attuale Padrón),
Teodomiro, che, recatosi sul posto, scoprì un sarcofago con i resti
di tre corpi, due intatti ed uno senza testa, ed una scritta: «Qui
giace Jacobus, figlio di Zebedeo e Salomé». Il prelato decretò che
si trattava dei resti dell’apostolo Giacomo e dei suoi due
discepoli Teodoro e Attanasio, che ne avevano trasportato il corpo
sino a lì.
Altra teoria riguardo
l’origine del nome è legata al latino composita tella (terra
felice), in realtà un eufemismo per cimitero, data la presenza
nel luogo di una antica necropoli. IlCronicón Iriense (XI-XII)
invece, lo fa derivare da compositum tellus, terra composta o
bella, sostenuto anche dalla Crónica de Sampiro del XII
secolo che dice: Compostela, id est bene composita (cioè
che è ben fatta). E dunque Compostela sarebbe risultata sin
dall’antichità romana una «cittadina ben fatta», come poi la
renderà la ricostruzione e fortificazione del XI secolo dopo la
distruzione dell’arabo Almanzor nel 997. Fu Bermudo II di León a
ricostruirla, ma si deve al vescovo Diego Xelmírez la trasformazione
della città in luogo di culto e pellegrinaggio, facendo terminare la
costruzione della Cattedrale, iniziata nel 1075, ed arricchendola con
numerose reliquie. Crespo Pozo e Luis Monteagudo, a questo proposito,
lo considerano un toponimo pre-jacobeo, perché ci sono
più Compostelas in Galizia.
Ma esiste da ultima, e
non per ordine di importanza, una interpretazione che lega il culto
cristiano all’esoterismo alchemico di cui il Cammino, come vedremo,
è una metafora non solo astratta ma decisamente operativa.
Questa interpretazione nasce dalla leggenda secondo cui il corpo
dell’Apostolo, deposto su una pietra, comincio a fonderla
costruendo così il suo stesso sepolcro. Ángel María José Amor
Ruibal (1869–1930), un canonico insegnante dell’Università di
Compostela, nel suo ponderoso Los problemas fundamentales de la
filología comparada, ricorda che il significato originario
di compositum, è «interrato», che già compare in Virgilio, e
dunque lo interpreta come «luogo dove sta interrato qualcosa».
In questo caso certo il corpo di San Giacomo che, per così dire, si
scava il suo stesso sepolcro, ma anche dove resta interrata, cioè
impressa a fondo sulla superficie terrosa di uncompositum, una
stella.
Ora, come risaputo anche
dai profani, la prima fase dell’Opera alchemica è detta «opera al
nero», dal colore del compost appunto che si ottiene dalla
dissoluzione della cosiddetta Prima Materia, che ritroveremo lungo il
Cammino di Santiago. Quando si sta per passare alla seconda fase
dell’Opera, quella «al bianco», i testi alchemici dicono che
«sul compostappare una stella», segno della progressiva
formazione del sale, lo «zolfo filosofico». E dunque, in
conclusione, compost stellae, Compostela, indicherebbe il
passaggio dalla prima alla seconda fase della Grande Circolazione.
La storia della
Cattedrale ed il Cammino
La scoperta del sepolcro
fu propizia per Alfonso II delle Asturie detto «il Casto»
(789-842), che fece un pellegrinaggio — annunciato all’interno
del suo regno ed all’esterno — in questo nuovo luogo di culto
della cristianità, in un momento in cui l’importanza di Roma era
decaduta e Gerusalemme non era accessibile perché posseduta dai
musulmani. Il sovrano ordinò dunque la costruzione di un tempio dove
i monaci benedettini, nell’893, fissarono la loro residenza.
Iniziarono così i primi pellegrinaggi alla tomba dell’Apostolo,
dapprima dalle Asturie e dalla Galizia poi da tutta Europa. Venne
allora fondato il Santuario di Santiago di Compostela, divenuto in
seguito Cattedrale e poi Basilica. E così, attraverso antiche vie
prevalentemente romane o tracciate nel corso del tempo dai
pellegrini, si aprono i Cammini verso Santiago, composti da varie
tappe e da una serie crescente di Ospitali, luoghi di accoglienza che
forniscono un letto per la notte ed un pasto frugale per chi chiede
accoglienza nel nome del Santo. Nel corso dei secoli tutto questo non
è cambiato molto, ed ancora oggi la logistica del Cammino è a
misura dello spirito di chi lo percorre. Se si osservano bene molti
degli edifici anche nelle nostre città, si ritrova effigiata una
conchiglia di San Giacomo o una stella, segno che anticamente questi
erano poste per i Pellegrini.
Anche le fortune del
pellegrinaggio sono legate alla storia del Continente, ovviamente.
L’uso politico del Sepolcro divenne massimo durante
la reconquesta cristiana dei territori iberici occupati dai
Mori, basti pensare all’icona di Santiago Matamoros, cioè uccisore
di Mori. Questa trovata, totalmente avulsa dalla storia pastorale
dell’Apostolo, trova la sua origine nella scena originaria della
miracolosa intercessione del Santo nella Rioja, attorno al castello
di Clavijo, dove Santiago, su un cavallo bianco, avrebbe guidato alla
vittoria le armi cristiane di Ramiro I d’Asturia contro i musulmani
di Al-Andalus il 23 maggio 844. L’episodio diede una forte spinta
al Pellegrinaggio, sostenuto anche da un decreto apocrifo attribuito
al medesimo Ramiro I, di un tributo annuo di primizie di grano e
vino, dovuto da tutta la Spagna «para el mantenimiento de los
canónicos que residen en la iglesia del bienaventurado Santiago y
para los ministros de la misma iglesia» al fine di «magnificare e
conservare la Cattedrale di Santiago in segno di profonda gratitudine
e perenne devozione per la liberazione della Spagna».
Con la liberazione dei
luoghi santi in Palestina e le lotte tra papato ed impero in Europa,
il Cammino venne trascurato per secoli, anche se i Pellegrini
continuarono, seppur in chiave minore, il loro percorso devozionale o
di ricerca spirituale. Il rilancio avvenne nello scorso secolo
quando, il 23 ottobre 1987, il Consiglio d’Europa riconobbe
l’importanza dei percorsi religiosi e culturali che attraversano
l’Europa per giungere a Santiago de Compostela, dichiarando la via
di Santiago «itinerario culturale europeo», anche finanziando
adeguatamente le iniziative per segnalare in modo conveniente el
camino de Santiago.
Oggi, come secoli fa,
esistono dunque diversi Cammini: la Ruta de la Costa, cioè la
via di Santiago lungo la costa cantabrica, è quella più antica, a
testimonianza che i Pellegrini arrivavano a Santiago da porti
atlantici anche più ad est di La Coruña. Le principali vie di terra
sono descritte nel Codex calixtinus (il Liber Sancti
Jacobi) ed erano, e sono ancora: dall’Italia, la via Francigena
attraverso i passi del Moncenisio o del Monginevro, e poi la via
Tolosana fino ai Pirenei; dalla Francia, la via Tolosana,
utilizzata anche dai pellegrini tedeschi provenienti
dalla Oberstrasse, la via Podense da Lione e Le
Puy-en-Velay, che passava i Pirenei a Roncisvalle, la via
Lemovicense, da Vézelay per Roncisvalle, la via Turonensis da
Tours, che raccoglieva i pellegrini che arrivavano dall’Inghilterra,
dai Paesi Bassi e dalla Germania del nord lungo la Niederstrasse. Per
qualunque di questi Cammini arrivassero i Pellegrini, il punto di
raccolta era, ed è, il Puente la Reina. Esiste infine il Cammino
Portoghese che parte da Lisbona, passando poi da Coimbra e Porto, ed
arriva a Santiago dopo circa 700 kilometri.
I simboli del Cammino
Il Pellegrino che
intraprende il Cammino, si dota dei simboli del pellegrinaggio, che
lo rendono riconoscibile e gli danno un profondo senso identitario e
di comunione con gli altri che percorrono la stessa strada. In
origine, ad ancora oggi, sono fondamentalmente tre: il bastone, la
zucca e la conchiglia. Il bastone rappresenta la «terza gamba» del
viandante alla quale appoggiarsi durante le salite faticose o
semplicemente per scostare i rami che possono nascondere insidie; al
bastone si appendeva poi la zucca per l’acqua, oggi sostituita
dalle moderne borracce. Un tempo senza bastone non si veniva accolti
negli Ospitali perché era con questo che si doveva bussare alla loro
porta. Infine ecco la conchiglia, simbolo del Cammino per
antonomasia, onnipresente come indicatore della giusta direzione sui
cippi miliari o cucita sugli abiti del viandante. La conchiglia era
una tempo raccolta all’estremo limite del Cammino, che oltrepassava
Santiago per giungere, ancora oggi, a Fisterre, cioèfinis terrae, la
«fine della terra» come, prima delle scoperte di Colombo, veniva
considerata questa punta all’estremo ovest della Galizia. Qui,
sulle spiagge ventose scosse dalle onde dell’Atlantico, il
Pellegrino raccoglieva la sua conchiglia, detta di San Giacomo, come
prova del compiuto pellegrinaggio. Oggi la conchiglia si prende
all’inizio del Cammino e si porta sempre con se, ma arrivati a
Fisterre, si cercherà la propria conchiglia finale, magari insieme a
qualche cosa di altro, di cui tra poco parleremo, e si brucerà un
indumento usurato dal percorso come simbolo di rinascita. Altri
getteranno il bastone tra le onde del grande mare antico osservando
il sole al tramonto compere la sua opera sullo spirito.
Il viaggio alchemico
Ma, da sempre, il Cammino
ha rappresentato per gli adepti, o per coloro che volevano essere
iniziati alla Grande Opera, una prova preliminare della loro volontà
di intraprendere un percorso mistico all’interno della materia come
di se stessi. Abbiamo già detto che il nome stesso di Compostela
richiama la prima fase dell’Opera, ma è giusto chiarire che la
mortificazione di cui parla l’«opera al nero», la nigredo,
il caput mortuum, è innanzi tutto, qui, metafora del corpo
stesso dell’adepto che, attraverso le fatiche del viaggio, impara a
conoscere la sua Prima Materia, fondendosi col Cammino, imparando il
dono del silenzio, della meditazione, dell’ascolto dei simboli
naturali che la Grande Madre gli propone ad ogni incrocio. E così
ogni passo diviene un destino, ogni battito un attimo di tempo fuori
dal tempo, ogni respiro quello che ci fece nascere, ogni sasso
l’immagine della nostra stessa anima che, rotolando senza posa sul
sentieri scoscesi ed impervi, sulle allungatoie della conoscenza,
potrà forse, un giorno, purificarsi tanto da pervenire a farsi
attraversare dalla lice dello spirito che tutto anima e vivifica.
Se questo percorso nella
materia del Cammino avviene anche nello spirito del Pellegrino, ecco
che l’«opera al nero» sarà compiuta poiché, com’è risaputo,
l’alchimia è un’Arte operativa nella quale la materia operata
nel crogiolo alchemico, nel crucibulum, cioè sulla croce del
sacrificio, corrisponde alle trasformazioni dell’operatore, creando
un sistema di intime corrispondenze. E cosa sono queste se non la
possibilità che viene offerta lungo il Cammino di identificarsi
progressivamente con tutto, con il Tutto?. Ecco, allora, che ogni
crocefisso in pietra assume una tonalità che travalica quella
puramente cristiana: la sua forma esagonale ci ricorda la
trasformazione del quadrato, la terra, nel cerchio del cielo.
Arrivati adesso alla
grande Chiesa potremo, nel Portico della Gloria, se conosciamo il
significato del gesto, porre le nostre braccia all’interno delle
due bocche di leone dominati da Ercole, che campeggiano alla base del
pilastro centrale, per simboleggia la padronanza della Forza, per poi
appoggiare la nostra testa a quella della piccola statua di Maestro
Matteo l’architetto che edificò la chiesa, come segno di rispetto
ed invocazione della sua Saggezza muratoria, ed infine entrare nella
Bellezza della chiesa perché il suo splendore compia in noi tutto
questo.
Il Manifesto/Alias – 22
luglio 2017
Iscriviti a:
Post (Atom)