Omaggio alla Dea Madre, processo simbolico di morte e rinascita, rito di fertilità. Viaggio nei significati di una tradizione millenaria ora diventata spettacolo per turisti in cerca di emozioni.
Raffaele K. Salinari
Riti e miti del tuffo nel
Tevere
Ogni Capodanno si rinnova
lo spettacolo del tuffo nel Tevere dal ponte Cavour. Riscoperto alla
fine degli anni Ottanta dal simpatico Mister Ok, è in realtà il
gesto epigono di una tradizione antichissima che attinge alla fonte
di ascendenze mitologiche precise, già suggestivamente riprese da
Pasolini nella ieratica scena del tuffo di Accattone dal Ponte degli
Angeli a beneficio di lenoni e prostitute.
E allora, dove comincia
questa storia e cosa resta oggi dei riti delle origini oramai
confluiti in questa acrobazia dal sapore circense?
Iniziamo la sua
genealogia con un estratto dell’articolo di Aldo Carotenuto Simboli
di individuazione nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore in
Roma, pubblicato sulla Rivista di Psicologia Analitica nel 1971: «Il
21 aprile 1917 una voragine si apre sotto un binario della linea
Roma-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore: viene così scoperta una
basilica sotterranea a tre navate, di cui la centrale termina in
un’abside semicircolare.
Gli esperti hanno modo di
stabilire che i muri perimetrali ed i pilastri erano stati ottenuti
scavando prima il terreno secondo le forme e profondità volute, e
poi riempendo gli scavi di malta e calce; il tempio era stato
successivamente vuotato di tutta la terra attraverso un ampio foro
adattato in ultimo a lucernaio; il pavimento della parte centrale
veniva così investito dalla luce che cadeva dall’alto. L’aspetto
più sorprendente della basilica, o almeno quello che più colpisce
il visitatore, sta nella presenza di un gran numero di stucchi,
perfettamente conservati, che riecheggiano alcuni temi fondamentali
della mitologia greca.
Il giornale Notizie sugli
scavi, nella prima comunicazione che della scoperta venne data al
mondo scientifico, avanzò con molta prudenza l’ipotesi che il
monumento fosse stato adibito al culto di qualche religione
misterica. In seguito lo studioso belga Franz Cumont, notando che la
caratteristica principale del tempio consisteva nel suo essere
sotterraneo, si richiamò agli spelei mitriaci. Ma bisogna dire che
la maggior parte della decorazione interna è in netta contraddizione
con i riti connessi alla religione di Mitra: due soli elementi, il
toro e i gemelli, potrebbero riallacciarsi a tale culto; però, come
verrà chiarito, questi due stucchi si riferiscono a tutt’altra
simbologia.
Nel 1923, infine, lo
storico ed archeologo francese Jerome Carcopino dimostrava
l’appartenenza della basilica ad una setta neopitagorica.
Carcopino, con una buona dose di fortuna, si era imbattuto in un
passo poco conosciuto di Plinio il Vecchio, là dove si accenna ad
una certa erba che aveva la proprietà di rendere affascinante
all’altro sesso chiunque riusciva a trovarla nelle campagne: cosa
che capitò, dice una vecchia leggenda ripresa anche da Ovidio nelle
Eroidi, a Faone, e la povera Saffo, innamoratasi perdutamente di lui
senza esserne corrisposta, si uccise lanciandosi dal promontorio di
Leucade. Ora, dice Plinio, a ciò credevano non solo quelli che si
interessavano di magia, ma anche i pitagorici. L’episodio di Saffo
fa parte degli stucchi della basilica, ed occupa anzi una posizione
predominante: tutta la parte superiore dell’abside semicircolare.
In quest’abside appare
una figura femminile sul ciglio di un promontorio. Sulla testa ha un
velo gonfiato dalla brezza marina. Sembra che la fanciulla stia per
tuffarsi nelle onde lievemente agitate del mare. Nella mano sinistra
ha una cetra. Eros la spinge premendole col braccio le spalle. Nel
mare un tritone stende un velo per riceverla, mentre un altro suona
la buccina.
Su uno scoglio siede un
giovane pensoso, con la guancia al palmo della mano. In alto si vede
Apollo che impugna l’arco rituale. Lo stucco si riferisce
all’ultimo episodio della vita di Saffo, così come è stato
tramandato dalla leggenda: respinta da Faone per la sua bruttezza
fisica, Saffo si uccide lanciandosi in mare dalla rupe di Leucade.
Viene subito in mente una considerazione: suscita meraviglia il fatto
che i pitagorici abbiano posto in risalto un episodio tanto in
contrasto col loro ideale di vita: il pitagorismo, analogamente
all’idealismo cristiano, interpreta la vita umana come un
perfezionamento in vista dell’immortalità, per cui non è
consentito all’uomo di accorciare la durata della prova e
scrollarsi di dosso il fardello. L’episodio di Saffo può essere
compreso soltanto se non lo si valuta come il dramma di una morte
volontaria, ma come un rito di rigenerazione che Saffo affronta con
grande fede: il salto nel mare è simbolo di rinnovamento, e in
questo senso si ritrova in altri racconti mitologici.
Negli inni di Callimaco,
ad esempio, leggiamo che Britomarte, inseguita da Minosse, riuscì a
sfuggirli gettandosi in mare, e che, dopo quell’atto fu trasformata
in dea da Minerva. Apollodoro mitografo ci parla di Ino, resa folle
da Giunone: dopo aver ucciso il proprio figlioletto, si lanciò in
mare e divenne una divinità marina. Quando Teseo arrivò a Creta,
dovette dimostrare di essere figlio di Poseidone: Minosse buttò in
mare un anello e gli chiese di ripescarlo. Senza esitare Teseo si
tuffò allora nel mare; un branco di delfini lo scortò fino al
palazzo delle Nereidi, dove Teti gli regalò una corona ingioiellata,
dono nuziale di Afrodite che più tardi cinse il capo di Arianna;
altri dicono che Anfitrite, la dea del mare, gli consegnò la corona
e ordinò alle Nereidi di nuotare tutt’attorno per trovarle
l’anello. In ogni caso Teseo emerse dal fondo del mare reggendo sia
l’anello che la corona.
Ora è senza dubbio
interessante il fatto che Teseo dopo l’immersione nel mare, riporta
non solo l’anello, ma anche una splendida corona. Jung ha rilevato
che la corona è per eccellenza il simbolo dell’avvenuto
raggiungimento di qualche alto obiettivo: chi conquista sé stesso,
ottiene la corona della vita eterna».
A questo proposito è
anche da riferire l’autorevole testimonianza di J. Carcopino dalla
Revue Archeologique del 1923: «Se noi guardiamo attentamente la
Saffo della basilica, non possiamo scorgere nessuna agitazione nel
suo atteggiamento; Saffo è l’esempio classico di una rigenerazione
sacramentale e morale che trasforma gli iniziati».
Per completezza di
informazione dobbiamo dire che, secondo alcune interpretazioni
letterali del passo di Plinio contenuto nel suo Historia Naturalis
(XXII, 20), Saffo si tuffa sì nel mare, ma non per suicidarsi;
certamente non vi muore dato che, nel passo in oggetto, non lo si
dice affatto, né tantomeno la vicenda è storicamente documentata.
Cominciamo qui ad
avvicinarci ad una interpretazione più «iniziatica» di questo
tuffo come descritto in alcune letture dello stesso Plinio e non,
invece, come motivato da follia amorosa suicida.
Elémire Zolla, ad
esempio, lo inserisce tra i tuffi alla ricerca dell’«Amante
Invisibile» nel libro omonimo.
«Di indizi [sul tuffo
iniziatico] è cosparsa l’antichità. Il tuffo iniziatico vi era
celebrato, gli iniziati andavano sotto il nome di pesci, non soltanto
per il voto del silenzio che li legava. Come le cosmogonie parlavano
di acque primordiali dalle quali tutto era affiorato, nel grembo
delle acque era naturale che si ritenessero celate le ragioni ultime
delle cose. È noto che a Lesbo e in Etruria un clero amministrava il
tuffo sacramentale. Plinio, nel passo sul salto di Saffo, informa che
era usata un’erba allucinogena per infondere forza e colorito alle
istruzioni preliminari del clero, che forse eseguiva una pantomima in
cui un demone inseguiva il candidato e lo precipitava dall’alto di
una rupe. Una barca aspettava di sotto».
Sembra, e lo è, la
descrizione esatta della raffigurazione absidale nella basilica di
Porta Maggiore.
La lettura dello studioso
Jean Hubaux nel suo Esseni in Plinio contenuto nei Cahiers du Cercle
Ernest Renan del 1959, esalta specificamente il significato
iniziatico del «salto di Saffo» e lo riposiziona ancora più
profondamente all’interno della tradizione orfico-dionisiaca,
collocandolo tra i riti costituitivi di una setta di baptae legati
dell’antica dea Cotyto o Cotitto, originaria della Tracia, e che
poi si sarebbe insediata a Roma lungo il Tevere, nelle bettole dei
viaggiatori fluviali.
Qui di seguito proponiamo
la traduzione di alcuni versi dell’Appendix virgiliana contenuti
nel Catalepton XIII, 19-34, che gettano una luce interessante sul
culto strettamente orgiastico-lustrale della dea a Roma.
E dunque, dice Virgilio:
«Non mi attirerai, bellezza, nei riti di Cotitto alle feste
falliche; né ti ammirerò roteare i fianchi aggrappato agli altari,
e presso il biondo Tevere adescare i marinai che sanno di salsedine,
quando le barche approdano e sono trattenute dal sordido fango,
mentre stanno alla fonda nell’acqua bassa; né mi condurrai nei
tuoi retrobottega, dove prepari sordide pozioni, delle quali pieno
poi torni alla moglie obesa mentre sciogli sapientemente
nell’estuario il ventre che ribolle. Ora offendimi pure, o
provocami, se ne sei capace. Ecco, scrivo il tuo nome o cinedo
Lucceio».
Perché Virgilio pone
come palcoscenico dell’orgiastica festa di Kotys, con le lascive
gesta del cinedo Lucceio, il Tevere, e come deuteragonisti gli
olentes nauticum i «marinai che sanno di salsedine»?
In questi versi possiamo
ritracciare gli elementi degenerativi propri del cammino compiuto
immancabilmente da ogni celebrazione che, progressivamente, perde la
sua centralità sacrale e muta nel tempo assumendo forme via via
sempre più secolarizzate. Spesso queste appaiono talmente lontane
dall’ispirazione originaria da essere pressoché irriconoscibili
ma, e qui è l’arcano, pur sempre vitali e capaci di richiamare, in
qualche modo, la stessa sostanza. In effetto, come dice Robert
Graves,conoscere il nome di una divinità in un dato luogo e tempo è
di gran lunga meno importante che riconoscere la ragione dei
sacrifici che le o gli venivano offerti; in questo caso, come nella
festività del nostro Capodanno, l’augurio sacrificale resta
immutato: il tuffo come nuovo inizio.
E allora, per ricostruire
il quadro completo dobbiamo dire che, in origine, Kotys era uno dei
tanti nomi della Dea Madre, la Potnia mediterranea, che troviamo
anche nel mito olimpico della creazione come sposa di Urano. Graves
ricorda le sue origini asiatiche identificandola con Ur-ana cioè la
dea della piena estate. Il viraggio patriarcale che in Grecia
subirono le mitologie matriarcali la costrinse, prima a donare il suo
stesso nome ad Urano diventando sua moglie, e poi lentamente a
degradare, giunta a Roma, verso la «dea dell’impudenza» –
questo è infatti il titolo di Cotitto sulle rive del Tevere – i
cui sacerdoti interpretavano una sessualità decadente, che praticava
però ancora il tuffo rituale alla ricerca del ricongiungimento con
l’«Amante Invisibile», cioè il principio femminile creatore.
In sintesi ciò che ci è
dato sapere intorno al culto di Kotys lo dobbiamo a Strabone che, nel
suo Della Geografia, parlando dei culti orgiastici, ricorda questo
della dea Kotys, originariamente tracia, e quindi introdotta in Atene
ed a Corinto. Per giustificare ciò che egli afferma dell’origine
tracia, cioè dalla regione anticamente compresa tra nordest della
Grecia, sud della Bulgaria e Turchia europea, in cui i monti Rodopi
separano la Tracia greca da quella bulgara, lo storico cita un
frammento di Eschilo dagli Edoni da cui si deduce che tale culto
aveva luogo sulle alture di quei monti: «O Coti dea venerata dagli
Edoni con montani strumenti».
Trapiantato in Grecia, il
culto di Kotys ebbe rito e significato che ne limitavano la podestà
ad un solo aspetto della Zoé, quello riproduttivo, riducendolo così
ad un preciso ambito caratterizzato. Una prima trasformazione in
questo senso si riscontra nella festa di Kotys celebrata in Sicilia
dove, come ricorda Plutarco: «Si sospendevano ad un albero cibi e
frutti, di cui il popolo quindi a gara s’impadroniva, donde il
nome: festa di Kotutìok». La dea tracia era qui identificata
specificatamente col principio della riproduttività della Bíos
vegetale ed animale, che veniva ugualmente rappresentato per mezzo di
rami sospesi e carichi di frutta nelle feste di Cybele in Asia Minore
e in Grecia.
In Grecia la dea Kotys
rappresentò dunque la forza rigeneratrice della natura, e poiché la
terra produce anche per azione della pioggia, nel culto venne
introdotta l’acqua; ma, per esprimere la specifica fecondità
generativa umana, bisognava necessariamente rappresentare la donna, e
perciò i sacerdoti della dea si vestivano di abiti femminili.
Questi sacerdoti si
chiamavano Baptai, il nome ritenne del rito la parte che riguardava
l’acqua, adoperata, come dice il nome, per abluzione o per bagno.
Col tempo la ritualità divenne poi decisamente orgiastica, riducendo
ancor più la portata del culto originario ad una sottospecie delle
sue componenti, quella esclusivamente sessuale ed infine omosessuale.
A questo proposito esiste una commedia satirica dell’ateniese
Eupolis scritta contro Alcibiade in occasione della guerra del
Peloponneso, che si chiama proprio Baptai e che li descrive come
chiaramente omosessuali.Questo viraggio avvenne a Corinto, per
eccellenza la sede del culto di Kotys in Grecia: in quella città si
sarebbe celebrato in uno dei tanti ridotti lungo le rive del mare,
celebri nell’antichità per i piaceri che fornivano agli avventori.
Di questi la parte
maggiore erano naviganti; trapiantato in Roma, tale culto pare si sia
celebrato in qualche luogo lungo il Tevere, in vicinanza dei
ponti.Come il culto di Kotys fosse migrato verso Roma, ed avesse
subito in questi passaggi ulteriori ridimensionamenti, ce lo narra
Giovenale nella sua satira I bagascioni ipocriti e sfacciati, dove
dice che i suoi sacerdoti si chiamavano Baptae ed organizzavano orge
così vestiti: «Di lunghe bende, e di molte collane. Contraria
usanza le femmine allontana, e quelle soglie non passa alcuna: ai
soli maschi aperta è l’ara della Dea. Fuori!, si grida, fuori, o
profane: qui non s’ode femmina sparger di tibia o corno il flebil
suono».Anche Sinesio di Cirene (370-413), discepolo di Ipazia e poi
vescovo di Tolemaide di Libia, nelle sue Epistolae parla degli
«effeminati adepti di Cotis coi capelli tutti unti ed arricciati
dediti alle orge».
La relazione tra il
Tevere e le Cotytie celebrate in Roma è dunque nelle cose, ed anche
se nessuno scrittore c’informa del modo particolare in cui si
compiva la funzione del bagno in quei culti, possiamo pensare che in
origine ci sarà stato un vero e proprio tuffo nell’acqua, e in
seguito forse una semplice lustrazione che il sacerdote ordinava a
coloro che alla celebrazione del rito prendevano parte, forse dopo
l’atto sessuale, come ci dice Virgilio del cinedo Lucceio.Qui
ritroviamo l’origine non solo del tuffo ma anche l’aura erotica
che indubbiamente emana ancora il salto nel Tevere, l’ostentazione
del corpo che ne è parte costitutiva, come pure il coté lustrale ed
augurale, di purificazione.
L’origine propriamente
mitologica del tuffo nel Tevere la descrive invece Ovidio che, nei
Fasti (V, vv. 622-659) dice come, nei tempi arcaici, Giove Fatidico
prescrivesse ai nativi laziali di gettare nel Tevere, ogni anno, una
vittima umana per ogni gens, in onore del «vecchio falcifero», cioè
Saturno. A questo «tuffo capitale» pose fine Ercole, che sostituì
i corpi umani con dei fantocci. Il rituale, come prescritto da Giove
ed emendato da Ercole, proseguì poi nei secoli, durante le feste dei
Lemuria in maggio, con il lancio da parte delle Vestali di fantocci
in giunco (scirpea), rappresentanti gli stessi Argei, i cosiddetti
«Quiriti di paglia», dal ponte Sublicio.
Gli Argei sono figure
della mitica origine di Roma; secondo Varrone erano nobili giunti
nella penisola italica al seguito di Ercole per poi stabilirsi nel
villaggio fondato dal dio Saturno sul Campidoglio. Come abbiamo visto
qui viene sostituita la vittima umana con un suo idolo, esattamente
come già nell’antica Grecia il pharmakós umano veniva rimpiazzato
da un animale; nella Bibbia, e prima ancora, dal «capro espiatorio».
Questo simulacro, dunque,
permette di mantenere inalterato, sul piano simbolico, il valore
intrinseco del rito sacrificale: che nel fiume vengano annegati
uomini o fantocci di forma umana non muta e soprattutto non inficia
il senso del sacrificio. Come dice René Girard «ogni sacrificio
capitale riproduce il suo mito fondativo», ed è questo che deve
essere periodicamente riproposto per la conservazione di un aspetto
specifico dell’ordine delle cose. È questa riproduzione che riapre
la parentesi del Grande Tempo, del «tempo sacro» in cui si consumò
l’atto primordiale, mitico, quello «fatto una volta per tutte»
come lo definisce Cesare Pavese nel suoi Dialoghi con Leucò.
Ora, dato che Ovidio non
parla esplicitamente del mito fondativo di questa prescrizione di
Giove, dobbiamo cercarla probabilmente in relazione all’elemento
distintivo del rito
sacrificale capitale, cioè nello specifico fatto che si tratta di un
tuffo mortale nell’acqua. E giacché il rito arcaico viene
prescritto in onore di Saturno, che evirò il padre Urano, possiamo
pensare che esso riproduca, attraverso la morte rituale o
simbolizzata, l’originale sacrificio divino che diede origine al
Mondo degli antichi.
Il mare, o l’acqua,
rappresentano, oltre al principio creatore, anche uno degli accessi
alla morte, al «totalmente altro».
E dunque, a Roma, il
Tevere era visto come una via che portava temporaneamente o
definitivamente agli inferi, e cioè come operatore della «catabasi»,
ossia della classica «discesa all’ade e resurrezione» che vede
protagonisti gli eroi capaci di ritornare dal fatidico viaggio
rigenerati dalla prova.
Il superamento di una
«catabasi» equivale a riemergere in una dimensione di immortalità
spirituale: è sempre nelle acque che si sommergono i residui di uno
stato di perdizione e si rigenera l’essere per riaffiorare in
caelestibus, come nel battesimo cristiano o nella sommersione mazdea
nelle piscine di Persepoli. E certo oggi immergersi e riemergere
dalle acque del Tevere è una prova potenzialmente mortale, al di là
del tuffo.
E allora, se alla luce di
questi antecedenti leggendario-mitologici «attualizziamo» il nostro
sguardo verso il tuffo nel Tevere, il gesto del tuffatore-pharmakós
ci appare come l’auspicio di chi vuole caricare su di sé ogni
impurità per dissolverla così nella morte acquatica e successiva
resurrezione battesimale, permettendo col suo «sacrificio» il
sorgere di un nuovo ciclo, essenza originaria di quella simbolica
rinascita che per noi tutti è il Capodanno.
Il Manifesto/Alias - 31 maggio 2014