Francesco
Biamonti e Giovanni Boine di fronte alla crisi della civiltà
dell'olivo. Seconda e ultima parte del nostro intervento al Convegno
di San Biagio della Cima.
La
crisi degli olivi in Boine e Biamonti
La
crisi della monocoltura dell'ulivo viene a maturazione alla fine
dell'Ottocento quando la rendita si annulla e gli olivicoltori,
soprattutto i più piccoli, lavorano ormai in passivo. Una crisi
devastante se nel 1883 Agostino Bertani nella sua monografia
sulla Liguria avvicina la situazione dei contadini della provincia di
Porto Maurizio a quella poverissima dei contadini della Basilicata.
Ne risulterà l'inizio di un forte flusso migratorio verso la
Francia, in particolare il Dipartimento delle Alpi Marittime e
alcune città portuali come Marsiglia e Tolone.15
Un
passato ancora tanto vivo nel ricordo da diventare addirittura norma
di vita per i personaggi di Biamonti:
«Mai
parlar male della Francia: era uno dei suoi principi. Intere
generazioni di Luvaira e di Aùrno erano andate a togliersi la fame,
fame e tante altre cose, sul porto di Marsiglia. Scaricatori di
bastimenti, camallavano nel mistral».16
É con questa realtà che
si confronta Boine nel suo scritto del 1911. La “crisi degli olivi”
è letta come la crisi di un’intera nazione, una crisi morale prima
che materiale
«Gli
oliveti di Puglia e di Calabria, gli oliveti di Grecia, di Turchia,
di Africa, di Spagna, fan olio a cateratte. Olio denso, olio grasso,
olio torbido, od olio aspro e verde. (…) I frantoi in vallata non
lavorano più: son chiusi in gran parte, ma i magazzini dei
negozianti al mare, le giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti al
mare son pieni, son colmi (…). E carri e botti e grue e facchini
rubesti, e i doks sul porto, ed in porto le navi ed al porto le
calate di pietre squadrate son unte, odorano, fumano d’olio,
grondano l’olio. E denaro e denaro (…) denaro a milioni».17
Nelle sue pagine il nuovo
ordine del capitale e dei mercati si sovrappone al vecchio ordine
austero dei contadini, curvi sulla terra a fare del lavoro una
preghiera. Una mutazione violenta che lo coinvolge profondamente
perchè rischia di mandare in frantumi quello che è diventato un
punto di riferimento fondamentale e non solo a livello letterario:
« Le letture, i discorsi, i miei
studi – scrive in una lettera a Alessandro Casati del 13
febbraio 1910 - li vedo ora in rapporto, solo in rapporto alle
cose sode che faccio, a questo paese a cui voglio bene ed in cui
resisterò fin che mi dura la vita».18
Non
sappiamo quanto Boine sia davvero consapevole della portata
gigantesca dei processi in atto (mondializzazione dell'economia,
sviluppo del capitale finanziario, prevalenza dell'esportazione dei
capitali rispetto all'esportazione delle merci) che oltre a
travolgere in Italia il sistema di mediazioni politico-sociali del
giolittismo, prepara in tutta Europa la catastrofe della prima
guerra mondiale. La sua ci pare una reazione più emotiva che
politica ad un fenomeno di cui fatica a cogliere cause e prospettive.
Non sappiamo neppure se nel 1919-20 alla prova del fuoco per la
democrazia liberale egli si sarebbe schierato, come il grosso dei
Vociani, con il fascismo. La sua prematura scomparsa nel maggio 1917,
proprio agli inizi del “secolo breve”, lascia queste domande
senza risposta, anche se il tono quasi rabbioso e l'antisocialismo
esasperato delle sue pagine suscitano non poche perplessità. Così
come nel 1914 un interventismo che nella guerra vede l'antidoto
salutare alla disgregazione morale e sociale dell'Italia giolittiana
e la condizione fondamentale della rinascita del Paese. Una
ultrareazionaria “Religione della Patria” teorizzata nei Discorsi
militari del 1915 dove la condizione del cittadino si identifica
con quella del soldato e l'accettazione volontaria della dura
disciplina della trincea diventa la forma più alta di libertà
possibile.19
Uomo di confine, Boine si
colloca tra due epoche e scompare proprio nel momento in cui il
vecchio mondo muore e uno nuovo sta, forse, faticosamente e tra
travagli dolorosi per vedere la luce. Il suo è un confine temporale,
aperto ancora alla speranza. Biamonti, che scrive quando il secolo
breve è tramontato, che è stato testimone dell'orrore di Auschwitz
e di Hiroshima, che ha visto bruciarsi la speranza dell'Ottobre, non
ha più illusioni. Il paesaggio degli ulivi non può essere più come
per Boine un qualcosa a cui aggrapparsi. La sua è una affermazione
netta, di quelle che non lasciano margini di ripensamento:
“Non credo che il
paesaggio salvi, anche perchè se il tempo è malato anche lo spazio
lo è. Tempo e spazio sono, oggi, entrambi malati. (…) Si lavora su
un terreno che frana, su una luce che diventa ombra, su un azzurro
che diventa nero. Non esiste più nessuna certezza”.20
Il confine di Biamonti
non è temporale, non separa più come in Boine un prima idealizzato
da un dopo degradato, ma connota solo un presente lacerato da cui non
si intravvedono uscite:
“Vi sono due Ligurie
– pensava – una costiera con traffici di droga, invasa e
massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di
Castiglia ancora austera; io sto sul confine”.21
Gli olivi, che con la
loro onnipresenza hanno creato un paesaggio, sono ormai vecchi e
malati, “rami malandati, erbaccio e su per i tronchi, nei loro
squarci, licheni e ragnateli”.22
un luogo di “pace precaria... assediato dai rovi”.23
Una realtà che si può rappresentare solo al crepuscolo, perchè la
“piena luce ne rende visibile l'aspetto malato”.24
Solo nel ricordo gli olivi possono
mantenere intatta quella luminosità interiore che un tempo li
rendeva sacri agli occhi degli uomini:
“Gli venivano in
mente gli ulivi, dalle fronde quasi minerali e dai tronchi quasi
umani. Risplendevano dentro, e sembravano parlare nella luce del
mattino”,25 scrive Biamonti riecheggiando non
sappiamo quanto consapevolmente un versetto bellissimo del Corano che
vede nella luminosità dell'olivo il simbolo più puro della luce
divina:
“Dio è la luce dei
cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui
si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è
come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero
benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio
sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su
luce”.26
In un mondo
desacralizzato e privo di speranza gli oliveti da luoghi di luce si
sono trasformati in luoghi d'ombra. Non a caso in Vento
largo immediatamente dopo la descrizione
dell'oliveto malato Biamonti nota come:
“Se ne andavano
anche i segni cristiani: madonnette sbreccate e rose, e croci, sui
bricchi, inclinate dal vento”.27
Il messaggio è chiaro:
oliveti e simboli cristiani hanno qualcosa in comune, entrambi
rimandano ad una concezione tradizionale della vita fondata sul sacro
che ormai non ha più senso alcuno. Nonostante il pessimismo di
fondo, Biamonti riprende qui, pur rifiutandone il tono
misticheggiante, la lezione di Boine: gli oliveti sono davvero la
cattedrale dei liguri, il luogo del raccoglimento e della preghiera.
Edoardo, il protagonista di Attesa sul mare,
prima di imbarcarsi per una pericolosa navigazione sente il bisogno
di tornare per un'ultima volta nei suoi oliveti ormai in abbandono:
“Gli vennero in
mente i suoi ulivi e si propose di andarli a vedere prima di
ripartire. Avrebbe voluto avere con loro un dialogo, divenire davanti
a loro un uomo di preghiera”.28
Un sogno impossibile, un
desiderio immediatamente frustrato dalla realtà:
“Fece un giro largo,
ma al suo oliveto non riuscì ad arrivare, il sentiero era invaso
dalle arastre. Lo guardò dal basso: era quasi un fantasma accampato
nell'aria. Forse era meglio non avvicinarsi , non vedere il male che
aveva addosso”.29
Francesco
Biamonti non ha illusioni. Quella di Edoardo è la debolezza di un
attimo. Non si può tornare indietro. Da sogni di pietra le fasce
ulivate sono diventate fantasmi nell'aria. “Gli ulivi sono alla
sera... la sera di un lungo giorno”,30 dice con
amaro realismo il protagonista di Vento largo. Siamo
nel 1991, due anni prima era crollato il muro di Berlino, meglio non
si sarebbe potuto descrivere il tramonto definitivo di un secolo che
aveva visto il mondo cambiare aspetto almeno due volte.
15. Augusta Molinari,
Storia e storie di emigrazione
dal Ponente ligure. Alcuni percorsi di ricerca, Recherches
Régionales, 132, 1995 – 3ème
trimestre, p.110.
16.
Francesco Biamonti, Vento
largo,
cit., pp. 88-89.
17.
Giovanni Boine, La
crisi degli olivi in Liguria,
cit., p. 16.
18.
Giovanni Boine, Carteggio, III, A cura di
Margherita Marchione - S. Eugene Scalia, Edizioni di storia e
Letteratura, Roma, 1977 , p. 359.
19. Per un'analisi
esaustiva di questo aspetto del pensiero di Boine cfr. Ugo Perolino,
«Esercito e nazione nei
Discorsi militari
di Giovanni Boine»,
Italies, 19|2015, pp. 57-66.
20. Paola Mallone, “Il
paesaggio è una compensazione”, De Ferrari, Genova, 2001,
p.51.
21. Francesco Biamonti,
Le parole e la notte, Einaudi, Torino, 1998, p. 90.
22. Francesco Biamonti,
Vento largo, cit., p.9.
23. Ivi, p. 7.
24. Francesco Biamonti,
L'angelo di Avrigue, cit., p.19.
25. Francesco Biamonti,
Attesa sul mare, cit., p. 21.
26. È
il versetto 35 della sura 24 del Corano, quella della “Luce”,
ripreso e accostato a Biamonti da Costanza Ferrini. Costanza Ferrini,
Pour une littérature
de l'olivier, La
pensèe de midi, 2003/2 (N°10), pp.136-140.
27.
Francesco Biamonti, Vento
largo, cit., p.11.
28.
Francesco Biamonti, Attesa
sul mare, cit., p.25.
29.
Ivi, p. 55
30.
Francesco Biamonti, Vento
largo,
cit., p.69.