TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 24 dicembre 2017

La crisi degli olivi in Boine e Biamonti


Francesco Biamonti e Giovanni Boine di fronte alla crisi della civiltà dell'olivo. Seconda e ultima parte del nostro intervento al Convegno di San Biagio della Cima.

La crisi degli olivi in Boine e Biamonti

La crisi della monocoltura dell'ulivo viene a maturazione alla fine dell'Ottocento quando la rendita si annulla e gli olivicoltori, soprattutto i più piccoli, lavorano ormai in passivo. Una crisi devastante se nel 1883 Agostino Bertani nella sua monografia sulla Liguria avvicina la situazione dei contadini della provincia di Porto Maurizio a quella poverissima dei contadini della Basilicata. Ne risulterà l'inizio di un forte flusso migratorio verso la Francia, in particolare il Dipartimento delle Alpi Marittime e alcune città portuali come Marsiglia e Tolone.15 Un passato ancora tanto vivo nel ricordo da diventare addirittura norma di vita per i personaggi di Biamonti:

«Mai parlar male della Francia: era uno dei suoi principi. Intere generazioni di Luvaira e di Aùrno erano andate a togliersi la fame, fame e tante altre cose, sul porto di Marsiglia. Scaricatori di bastimenti, camallavano nel mistral».16

É con questa realtà che si confronta Boine nel suo scritto del 1911. La “crisi degli olivi” è letta come la crisi di un’intera nazione, una crisi morale prima che materiale

«Gli oliveti di Puglia e di Calabria, gli oliveti di Grecia, di Turchia, di Africa, di Spagna, fan olio a cateratte. Olio denso, olio grasso, olio torbido, od olio aspro e verde. (…) I frantoi in vallata non lavorano più: son chiusi in gran parte, ma i magazzini dei negozianti al mare, le giarre, i pozzi, i truogoli dei negozianti al mare son pieni, son colmi (…). E carri e botti e grue e facchini rubesti, e i doks sul porto, ed in porto le navi ed al porto le calate di pietre squadrate son unte, odorano, fumano d’olio, grondano l’olio. E denaro e denaro (…) denaro a milioni».17


Nelle sue pagine il nuovo ordine del capitale e dei mercati si sovrappone al vecchio ordine austero dei contadini, curvi sulla terra a fare del lavoro una preghiera. Una mutazione violenta che lo coinvolge profondamente perchè rischia di mandare in frantumi quello che è diventato un punto di riferimento fondamentale e non solo a livello letterario:

« Le letture, i discorsi, i miei studi – scrive in una lettera a Alessandro Casati del 13 febbraio 1910 - li vedo ora in rapporto, solo in rapporto alle cose sode che faccio, a questo paese a cui voglio bene ed in cui resisterò fin che mi dura la vita».18

Non sappiamo quanto Boine sia davvero consapevole della portata gigantesca dei processi in atto (mondializzazione dell'economia, sviluppo del capitale finanziario, prevalenza dell'esportazione dei capitali rispetto all'esportazione delle merci) che oltre a travolgere in Italia il sistema di mediazioni politico-sociali del giolittismo, prepara in tutta Europa la catastrofe della prima guerra mondiale. La sua ci pare una reazione più emotiva che politica ad un fenomeno di cui fatica a cogliere cause e prospettive. Non sappiamo neppure se nel 1919-20 alla prova del fuoco per la democrazia liberale egli si sarebbe schierato, come il grosso dei Vociani, con il fascismo. La sua prematura scomparsa nel maggio 1917, proprio agli inizi del “secolo breve”, lascia queste domande senza risposta, anche se il tono quasi rabbioso e l'antisocialismo esasperato delle sue pagine suscitano non poche perplessità. Così come nel 1914 un interventismo che nella guerra vede l'antidoto salutare alla disgregazione morale e sociale dell'Italia giolittiana e la condizione fondamentale della rinascita del Paese. Una ultrareazionaria “Religione della Patria” teorizzata nei Discorsi militari del 1915 dove la condizione del cittadino si identifica con quella del soldato e l'accettazione volontaria della dura disciplina della trincea diventa la forma più alta di libertà possibile.19


Uomo di confine, Boine si colloca tra due epoche e scompare proprio nel momento in cui il vecchio mondo muore e uno nuovo sta, forse, faticosamente e tra travagli dolorosi per vedere la luce. Il suo è un confine temporale, aperto ancora alla speranza. Biamonti, che scrive quando il secolo breve è tramontato, che è stato testimone dell'orrore di Auschwitz e di Hiroshima, che ha visto bruciarsi la speranza dell'Ottobre, non ha più illusioni. Il paesaggio degli ulivi non può essere più come per Boine un qualcosa a cui aggrapparsi. La sua è una affermazione netta, di quelle che non lasciano margini di ripensamento:

Non credo che il paesaggio salvi, anche perchè se il tempo è malato anche lo spazio lo è. Tempo e spazio sono, oggi, entrambi malati. (…) Si lavora su un terreno che frana, su una luce che diventa ombra, su un azzurro che diventa nero. Non esiste più nessuna certezza.20

Il confine di Biamonti non è temporale, non separa più come in Boine un prima idealizzato da un dopo degradato, ma connota solo un presente lacerato da cui non si intravvedono uscite:

Vi sono due Ligurie – pensava – una costiera con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera; io sto sul confine”.21

Gli olivi, che con la loro onnipresenza hanno creato un paesaggio, sono ormai vecchi e malati, “rami malandati, erbaccio e su per i tronchi, nei loro squarci, licheni e ragnateli”.22 un luogo di “pace precaria... assediato dai rovi”.23 Una realtà che si può rappresentare solo al crepuscolo, perchè la “piena luce ne rende visibile l'aspetto malato”.24 Solo nel ricordo gli olivi possono mantenere intatta quella luminosità interiore che un tempo li rendeva sacri agli occhi degli uomini:

Gli venivano in mente gli ulivi, dalle fronde quasi minerali e dai tronchi quasi umani. Risplendevano dentro, e sembravano parlare nella luce del mattino”,25 scrive Biamonti riecheggiando non sappiamo quanto consapevolmente un versetto bellissimo del Corano che vede nella luminosità dell'olivo il simbolo più puro della luce divina:

Dio è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce”.26



In un mondo desacralizzato e privo di speranza gli oliveti da luoghi di luce si sono trasformati in luoghi d'ombra. Non a caso in Vento largo immediatamente dopo la descrizione dell'oliveto malato Biamonti nota come:

Se ne andavano anche i segni cristiani: madonnette sbreccate e rose, e croci, sui bricchi, inclinate dal vento”.27

Il messaggio è chiaro: oliveti e simboli cristiani hanno qualcosa in comune, entrambi rimandano ad una concezione tradizionale della vita fondata sul sacro che ormai non ha più senso alcuno. Nonostante il pessimismo di fondo, Biamonti riprende qui, pur rifiutandone il tono misticheggiante, la lezione di Boine: gli oliveti sono davvero la cattedrale dei liguri, il luogo del raccoglimento e della preghiera. Edoardo, il protagonista di Attesa sul mare, prima di imbarcarsi per una pericolosa navigazione sente il bisogno di tornare per un'ultima volta nei suoi oliveti ormai in abbandono:

Gli vennero in mente i suoi ulivi e si propose di andarli a vedere prima di ripartire. Avrebbe voluto avere con loro un dialogo, divenire davanti a loro un uomo di preghiera”.28

Un sogno impossibile, un desiderio immediatamente frustrato dalla realtà:

Fece un giro largo, ma al suo oliveto non riuscì ad arrivare, il sentiero era invaso dalle arastre. Lo guardò dal basso: era quasi un fantasma accampato nell'aria. Forse era meglio non avvicinarsi , non vedere il male che aveva addosso”.29

Francesco Biamonti non ha illusioni. Quella di Edoardo è la debolezza di un attimo. Non si può tornare indietro. Da sogni di pietra le fasce ulivate sono diventate fantasmi nell'aria. “Gli ulivi sono alla sera... la sera di un lungo giorno”,30 dice con amaro realismo il protagonista di Vento largo. Siamo nel 1991, due anni prima era crollato il muro di Berlino, meglio non si sarebbe potuto descrivere il tramonto definitivo di un secolo che aveva visto il mondo cambiare aspetto almeno due volte.



15. Augusta Molinari, Storia e storie di emigrazione dal Ponente ligure. Alcuni percorsi di ricerca, Recherches Régionales, 132, 1995 – 3ème trimestre, p.110.
16. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., pp. 88-89.
17. Giovanni Boine, La crisi degli olivi in Liguria, cit., p. 16.
18. Giovanni Boine, Carteggio, III, A cura di Margherita Marchione - S. Eugene Scalia, Edizioni di storia e Letteratura, Roma, 1977 , p. 359.
19. Per un'analisi esaustiva di questo aspetto del pensiero di Boine cfr. Ugo Perolino, «Esercito e nazione nei Discorsi militari di Giovanni Boine», Italies, 19|2015, pp. 57-66.
20. Paola Mallone, “Il paesaggio è una compensazione”, De Ferrari, Genova, 2001, p.51.
21. Francesco Biamonti, Le parole e la notte, Einaudi, Torino, 1998, p. 90.
22. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.9.
23. Ivi, p. 7.
24. Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue, cit., p.19.
25. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p. 21.
26. È il versetto 35 della sura 24 del Corano, quella della “Luce”, ripreso e accostato a Biamonti da Costanza Ferrini. Costanza Ferrini, Pour une littérature de l'olivier, La pensèe de midi, 2003/2 (N°10), pp.136-140.
27. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.11.
28. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, cit., p.25.
29. Ivi, p. 55

30. Francesco Biamonti, Vento largo, cit., p.69.