La luce del divino che
abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli, la
luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da
lontano. Ecco come e perché nasce il gesto della mano che sale alla
fronte, diventato poi l'attuale saluto militare. Uno straordinario
saggio di Raffaele K. Salinari sul rapporto simbolico dell'uomo con il sacro.
Raffaele K.
Salinari
Il saluto militare
Chi visitasse
il museo di Heraklion a Creta, potrebbe posare lo sguardo su di una
serie di statuette votive risalenti al periodo cosiddetto
prepalaziale (IV-III millennio a.C.) effigiate in una strana posa:
rigide sull’attenti sembrano intente a fare il «saluto militare»,
portando la mano di taglio sulla fronte.
Il gesto si ripete
identico in diverse figurine bronzee, alcune delle quali sono
inclinate, ora in avanti ora indietro rispetto al loro baricentro,
quasi fossero fotogrammi isolati da uno stesso film. L’insieme si
compone così nell’effetto di un continuo movimento oscillatorio,
come di chi tenesse una postura religiosa quale ancora oggi è
possibile vedere durante alcune preghiere o processioni, ad esempio
quelle ebraiche davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme.
Statuine di Heraklion
La prima riflessione
che queste statuine sollecitano è proprio quella della coincidenza
tra il loro gesto ed il «saluto militare». Com’è noto la
spiegazione comunemente data è che l’atto marziale sia collegato
all’usanza di alzare la celata dell’elmo per mostrare il volto.
In realtà ritroviamo la stessa gestualità molto prima che venissero
in uso le armature, dato che già gli antichi centurioni romani
usavano salutare i superiori in questo modo.
Il sostanziale isolamento
del mondo militare da altri contesti, resosi indispensabile sia per
mantenere la compattezza gerarchica, sia per preservarne la logica e
le tradizioni da influenze esterne, è d’altra parte un fenomeno
che si ritrova, anche con le stesse definizioni, in altre
«istituzioni totali», a partire da quelle religiose: basti pensare
alle «legioni di Cristo» o ai «Generali» del vari Ordini.
Dalle forti analogie
tra mondo militare e mondo ecclesiale, possiamo così risalire alla
genuina natura di questo gesto che, come abbiamo visto nelle
statuette votive di Candia, appartiene certamente in origine
all’ambito della sacralità estatica caratteristica della civiltà
minoica, mentre oggi rimane come puro formalismo, svuotato cioè di
quella carica visionaria che probabilmente lo ha generato.
D’altronde, come dice
giustamente Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini, ogni
volta che una grande cultura riesce ad emergere, nel nostro caso
quella Greca, patriarcale, imperialista e guerriera, nel suo
soppiantare l’antica civiltà minoica, si riscontra una sensibile
regressione delle forme della religiosità estatica: esse vengono
svuotate della loro antica importanza, respinte alla periferia della
vita pubblica, ridotte a ruoli sempre più modesti e intermittenti,
se non addirittura clandestini e illeciti, oppure confinate
nell’ambito limitato e regolato dei giochi.
Qui scorgiamo un
aspetto centrale del passaggio storico dalla civiltà minoica, che
poggiava le sue basi su un matriarcato «più che di autorità, di
comprensione e di prestigio muliebri», a quello «brusco e buio» di
tipo patriarcale dominato dai Dori – «barbari senza remissione» –
come li definiva Momolina Marconi. Per l’evoluzione
storico-mitologica di queste diverse fasi, dal neolitico sino
all’invasione achea del XIII secolo a.C., rinviamo all’introduzione
a I miti greci del «bardo» Robert Graves, cantore della Dea
Bianca, che disegna mirabilmente il passaggio da un mondo ed una
religiosità matrilineare, ad una patriarcale – dalla Grande Dea a
Zeus – per poi arrivare alle religioni monoteiste attuali. Ma è
proprio in questo particolare tipo di religiosità, e della visione
che da essa scaturiva, che dobbiamo ricercare le origini sacre del
gesto di portare la mano di taglio alla fronte.
La Grande Dea
La visione della Dea
Per ricostruirne la
scaturigine, dunque, dobbiamo necessariamente partire dal momento
cultuale in cui queste statuette sono state forgiate: era il tempo in
cui nell’area del Mediterraneo dominava il culto della Grande Dea
che, al tempo stesso, emanava e raccoglieva in sé, componeva e
ricombinava dentro una figura unificante, tutti gli aspetti della
creazione, delle cose visibili così come di quelle invisibili: la
pánton genéthla della religiosità arcaica.
Nella Creta minoica il
numinoso, cioè la percezione del Principio generatore universale,
non era separato e neppure separabile dalla vita di ogni giorno: le
sue manifestazioni, a partire da quelle che nella cultura greca
verranno poi attribuite a Dioniso, il dio-archetipo della «vita
indistruttibile», erano immediate, in altre parole visionarie e
mistiche.
Kerényi riporta nel
capitolo Gestualità minoica del suo Dioniso, un
giudizio di H. A. Groenewegen-Frankfort che, per così dire,
illumina, attraverso un’analisi delle forme d’arte, la concezione
religiosa da cui sarebbero poi nati i gesti originati da queste
visioni e che ritroveremo, «civilizzati», in quelli profani
odierni, «saluto militare» compreso. L’arte cretese, dice lo
studioso, non conosceva quella tremenda distanza fra l’essere umano
e il trascendente, che poteva indurre nell’uomo la tentazione di
cercare una via d’uscita dallo spazio e dal tempo.
Altrettanto poco
conosceva la magnificenza e la vanità delle semplici azioni umane
che sono legate al tempo e allo spazio. A Creta gli artisti non hanno
conferito consistenza al mondo dei morti facendone un’ombra del
mondo dei vivi, non hanno eternato gesta superbe, e neppure hanno
elevato attraverso i loro templi una modesta pretesa ad essere presi
in considerazione dagli dei. Questa concezione dell’esistenza che
include la morte impediva, come vedremo più avanti, l’emergere di
quella forma di malessere diffuso nelle nostra civiltà di aspiranti
immortali che Freud denominò Das Unheimliche, il «perturbante».
Là, e là soltanto –
contrariamente a quanto accadde in Egitto e nell’Asia Minore – la
pretesa umana di svincolarsi dal tempo fu disprezzata, dando luogo
alla più totale adesione alla leggiadria della vita che il mondo
abbia mai conosciuto. Poiché vita significa movimento, la bellezza
del movimento era intessuta in quella trama di forme viventi che si
definiscono «scene naturalistiche»; questa bellezza si mostrava nei
corpi umani occupati nei loro giochi severi e ispirati da una
presenza trascendentale, giochi liberi e insieme conformi alle
regole, senza alcuno scopo, proprio come senza scopo è il tempo
ciclico.
Tra questi giochi
spiccano l’altalena e le acrobazie con i tori, ma soprattutto il
dondolamento su se stessi o appesi ad un albero sacro: la forma più
semplice di produrre una condizione estatica. Roberto Calasso, nelle
Nozze di Cadmo ed Armonia, sottolinea come il «mistero a
Creta, era palese, e nessuno tentava di nasconderlo». Le «cose
innominabili» erano spalancate dinanzi agli occhi di tutti. E così,
se continuiamo a risalire verso la fonte della gestualità legata al
culto della Grande Dea, troviamo che il gesto su cui stiamo indagando
è esattamente uno di quelli determinato dalla sua visione estatica,
per cui si potrebbe dire che un tale movimento – contemporaneamente
spontaneo e limitato – sia ispirato dalla sua presenza
trascendente, anzi, sia in qualche modo questa stessa presenza.
Dondolamento rituale
La visione smeraldina
E infatti, come dice
Pavel Florenskij nel suo saggio sulle icone, Le Porte regali,
tradotto in italiano da Elémire Zolla, l’immagine iconica è
quella che permette a chi la guarda di riconnettersi con l’invisibile
luce che permea tutte le cose: la luce del sacro, per lo studioso
russo segnatamente quello «incarnato» della tradizione cristiana. È
dunque nello sguardo dell’Icona che si concentra la sua capacità
simbolica, quella cioè di costituirsi come vera e propria «soglia»
ontologica che l’osservatore può traguardare per accedere
all’essenza immutabile dell’Anima Mundi.
Un esempio, nell’arte
cristiana, è certamente quello della Madonna con Bambino e Santa
Margherita del Parmigianino (1530), attualmente presso la Pinacoteca
di Bologna. Qui l’intensità dello sguardo che si scambiano il
piccolo Gesù e la Santa restituisce la possibilità stessa della
Visione ma, forse, la chiave di volta del dipinto è quella
dell’Angelo che guarda lo spettatore come ad attirare il suo
sguardo.
Chi sia questa figura
angelica è ancora oggetto di controversia; noi azzardiamo una
ipotesi seguendo le connessioni cabalistiche proposte da Giulio
Camillo che, nel suo Theatro, stabilisce una corrispondenza
tra le Sefiroth e le schiere angeliche, in particolare tra la terza
detta Bina, e Metatron, il «principe del volto divino». Chi meglio
di lui potrebbe, in effetto, sostenere nei confronti della nostra
visione il ruolo di messaggero, di anghelos, mediatore tra l’attuale
e l’eterno?
Egli ci guarda come
attraverso la sua aura, e dunque ci ri-guarda, così come la Santa
attira verso di sé il volto del piccolo Gesù sostenendone il mento
con la mano affusolatissima e sensuale per essere tutta nel fuoco dei
suoi occhi. Per restituire la carica simbolica di questi gesti
Francesco Giorgio Veneto, nel suo In Scripturam sacram
problemata, trattando della visione immediata di Dio, usa
l’espressione «visio facie ad faciem».
In altre parole se ci
identifichiamo con questi sguardi ne veniamo illuminati noi stessi:
lo sguardo «è» la visione. Ma, non essendo noi dei Santi, anzi,
come diceva Melisso seguace di Parmenide, «noi essendo anime volgari
che non sopportano i raggi della divinità», lo sguardo a tutti
possibile è invece quello «ermetico», da Ermes dio del mutamento e
degli scambi, che permette di trasmutare la realtà fenomenica nel
suo ris/volto, individuare quei nessi, la «trama nascosta»
eraclitea, che unisce tra loro tutte le cose, trovare la
correspondance di cui parla Baudelaire.
Come annuncia
Florenskij qui, come in altre questioni metafisiche, il punto di
partenza e ciò che già sappiamo dentro di noi: infatti anche in noi
la vita nel visibile si alterna a quella nell’invisibile, come nel
sogno, anche se questa percezione può essere totalmente e
lucidamente vissuta solo «nell’attimo del tempo». E non è forse
questo «attimo» che l’artista coglie e riverbera nei momenti di
ispirazione, come nelle figurine votive di Candia? E, come nello
sguardo di Santa Margherita, non è forse la significanza del gesto
stesso a dirci che la Dea esiste? E non è allora il nostro modo
trasmutante e trasmutato di guardare le cose che può restituircene
il volto nascosto, cioè quella sostanziale unità che le unisce e
che ci unisce ad esse?
Di sguardo ermetico
parla in termini felicemente «sovversivi» Paolo Mottana, Direttore
del Master in Culture simboliche della Bicocca che, nel suo La
visione smeraldina, delinea le coordinate per una vera e propria
«pedagogia dell’Immaginale», come ad indicare una pratica per la
quale Platone usa la parola greca ópsis, che vuol dire a un tempo
«atto del vedere, visione, occhio e sguardo». Attraverso l’ópsis
ciò che è immateriale, l’anima, l’essenza, che così diventa
reale e visibile ci fa tornare in noi: «ritorna in te stesso e
guarda», dice Plotino (Enneadi I,6,9,4-8).
È dunque la luce del
divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli.
È stata la l’oscillazione, documentata dalla postura delle
statuette votive di Candia, a farlo entrare in contatto con
l’epifania; ma la luminosità del sacro è sopportabile solo per un
momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto. Nel caso
della Grande Dea della Zoé, e qui sta l’arcano, è questa unità
tra umano e divino che viene simboleggiata dall’atto di schermarsi
gli occhi al cospetto della sua luce incommensurabile: il gesto
stesso diviene così una sua ipostasi.
È dunque la sua essenza
simbolica a presupporre la possibilità di epifanie: tutti i gesti
che si compiono nell’esperienza visionaria di una epifania sono
autentici, non ripetitivi, genuinamente simbolici, diversamente da
quelli stereotipati del culto, che non possiede più il carattere
originario della visione, anche se cerca di suscitarla. Da qui
l’attuale meccanicità del «saluto militare», che riprende solo
l’aspetto secolarizzato della sottomissione gerarchica al superiore
e la necessità che questi, per mantenere il suo carisma, sia visto,
ma da lontano.
Klee, Angelus Novus
Il tramonto del gesto
sacro
Ma essere immersi nel
ciclo della Vita, essere esposti all’estatica visione della Dea,
intesa come prismatica ipostasi della Zoé, porta certamente a
confrontarsi con l’irrazionale che vi regna, con l’angoscia
dell’imponderabile. Torna qui la riflessione di Valéry quando
diceva che ogni vera metafisica esige che l’uomo sia partecipe di
uno spettacolo che in qualche modo lo esclude.
La ricerca della trance
visionaria, dice ancora Caillois, assoggetta nell’uomo
discernimento e volontà, ne fa il prigioniero di estasi esaltanti,
di rapimenti mistici che lo dispensano dall’essere «solo un uomo»
ma, proprio per questo, rischiano di annientarlo.
Basterebbero, a questo
proposito, le parole di Maria Maddalena de’Pazzi, la mistica
visionaria che, alla fine del ‘500, colloquiava con Dio, quando
descrive, con le sue parole trasgressive, lo stato d’animo
dell’estasi come: «una quiete crudele e furiosa». Non a caso i
mistici sono sempre stati tendenzialmente emarginati, se non
chiaramente perseguitati, in ogni religione; specie in quelle dove il
clero ha voluto amministrare la spiritualità, essi rappresentano
infatti un pericolo potenziale proprio per la loro immediatezza.
Che siano i Sufi
islamici o i mistici cristiani, essi sono invisi alla gerarchie
ecclesiali, esattamente come un soldato che discute gli ordini lo
sarebbe ai ranghi dell’esercito. Dalla volontà di sottrarsi al
potenziale pericolo dell’immediatezza sarebbe dunque nata la nostra
civilizzazione, figlia del pensiero Greco con la sua razionalità,
per quanto sempre intrisa di ascendenze irrazionali, come ci fa
notare Dodds nel suo I Greci e l’irrazionale. Da questa
progressiva razionalizzazione, e gerarchizzazione, del pensiero
occidentale sul Mondo, arriviamo alla sfida che segna la nostra
modernità tecnologicamente orientata, il grande esperimento che ora
si rivela un inganno tragico: la sostituzione del divino con l’umano,
il superamento del limite della vita, il diniego della morte come
parte costitutiva della vita.
E così che si
edifica la «grande rimozione» che oggi alimenta l’enorme macchina
edonistico-consumogena con la conseguente trasformazione della natura
in un insieme di materie prime inanimate, da utilizzare per il nostro
crescente controllo sulla biosfera, e non certo come un insieme
animato col quale vivere in con/senso, e dal quale trarre
suggerimenti per orientare il nostro stesso modello di civiltà.
Giorgio De Santillana, nel suo saggio sul Fato antico, sintetizza che
la gravità di questo percorso non risiede tanto nel distacco dalla
Natura, per certi versi consustanziale all’intelligenza umana ed
alla sua volontà di comprensione, quanto nell’aver cancellato
dalla nostra visione il Cosmo che ci contiene ed esprime – il Fato
degli antichi appunto – nel quale le leggi di natura erano da
conoscere perché immutabili nella loro perfetta interazione.
In questa visione delle
relazioni uomo mondo non c’è posto per il numinoso, certamente non
per la sua visione diretta, immediata, e dunque, non avendo luogo,
questa visione semplicemente «non ha luogo»: non c’è allora
nessuna necessità di «schermare lo sguardo dell’anima».
Ma questa assenza del
numinoso dalla nostra percezione diretta, estatica, se ci mette al
riparo dall’esposizione alla sua terribilità, ogni Angelo è
tremendo ci ricorda Rilke, produce a sua volta altre perturbazioni.
In definitiva il decadimento del sacro dal nostro orizzonte visuale,
ed il conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti
ricongiungenti, genera a sua volta una visione «perturbata» delle
relazioni natura-cultura, che mette a repentaglio il nostro stesso
equilibrio psichico, ammorbato dalla volontà di affermazione
prometeica e di sottrazione all’ordine superiore delle cose.
Freud, nel suo saggio sul
«Perturbante» (1919), cita a proposito una definizione di
Schelling secondo cui questo sentimento sarebbe legato a qualcosa di
segreto che torna a galla, rimarcando, da padre della psicanalisi,
come nulla di più segreto permane nell’anima dell’uomo della
paura della morte e dunque sia proprio questa rimozione, che
continuamente riaffiora, a perturbare tutta la nostra psicosfera.
E allora, se il
«progresso» è questo passaggio da una visione, ed organizzazione,
della società governata dall’estasi e dalla consapevolezza di una
comune appartenenza alla Zoé, ad una in cui ci si affida alle
scienze esatte ed al pensiero raziocinate – per sua natura incapace
a comprendere l’Ombra e dunque tutto ciò che si muove seguendo
ragioni diverse da quelle della pura razionalità economica –
ebbene non possiamo meravigliarci che il Mondo dentro e fuori di noi
sia ridotto a ciò che nella Cabbala viene definito in termini
spirituali klippoth, guscio, una pseudorealtà privata della
comunione tra le sue molteplici anime, un insieme di Idoli, di Loghi,
che giocano con la nostra percezione a sembrare Simboli.
Apollineo e
dionisiaco
«L’anima si
inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano
dell’invisibile – questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi
del visibile. Sollevata che si sia in alto, nell’invisibile, essa
cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono incontro
ancora le immagini simboliche del mondo invisibile – i volti delle
cose, le idee: questa è la visione apollinea del mondo spirituale».
Cosi ci dice Florenskij e sembra che solo le droghe, oggi, possano
ricondurci verso quella strada: una scorciatoia in realtà impervia e
molto pericolosa, dato che sul cammino psichedelico sono molte le
Maschere che si spacciano per Volti. Anche in questo caso ci vuole
una robusta disciplina immaginale, in altre parola un intento di
visione, una fede cioè, come dice ancora Florenskij: una «certa
convinzione di cose invisibili», che riesca a combinare apollineo e
dionisiaco, per sollevare la mente dalle immagini agli archetipi.
Ora, le droghe,
quelle psicotrope in particolare, sono sempre state supporti
importanti per la comprensione umana del mondo; hanno contribuito a
tendere il nostro arco sensorio sino a rompere con le loro frecciate
le false dualità che ci opprimono, ma al contempo ci proteggono:
conscio/inconscio, persona/cosmo.
Le droghe psicotrope e
psichedeliche agiscono come un processo alchemico interiore,
immaginale: fluidificano le concrezioni della mente mentre fissano in
immagini i pensieri volatili, «poste all’incrocio tra senziente e
sensibile», come scriveva Merleau-Ponty. Nulla a che vedere con i
composti chimici «da sballo» che servono l’effetto opposto.
Nietzsche, nella Gaia
scienza, propone una storia delle droghe come storia del sentire;
ogni periodo dell’umanità ha avuto le sue droghe, i suoi
stupefacenti di riferimento, spesso identificati con le divinità del
ciclo vita/morte. Coleridge, un frequentatore del laudano, così
poetizza il ruolo ricongiungente degli stupefacenti, nel suo L’arpa
eolia: «E che dir poi se tutte le cose della natura animata, non
fossero che arpe vere e proprie di diversa foggia, il cui brivido si
traducesse in pensiero mentre sovra esse passasse, plastico e immenso
lo stesso soffio intelligibile, anima di ciascuno ed al contempo Dio
di tutti?». Questa sinestesia aiuta il transito della soglia, il
ricongiungimento, la visione del sacro.
Anche le luci
psichedeliche che emanano dalle vetrate colorate delle cattedrali,
unite al salmodiare ininterrotto dei fedeli ed ai loro digiuni, sono
ancora oggi i residuali strumenti della stessa visionarietà
sacramentale. Non abbiamo lo spazio per analizzare qui le deviazioni
contemporanee da questi cammini, ma possiamo dire che l’uso odierno
degli stupefacenti è tutto all’interno del mondo secolarizzato che
ci circonda e ci attraversa, e dunque che l’effetto prodotto da
questi operatori non può che essere degenerato, come tutto ciò che
oramai afferisce al «Regno della quantità», secondo la celebre
definizione dell’Occidente desacralizzato coniata da René Guènon.
Ecco perché, già nel
passaggio epocale, paradigmatico, da una visione immediata della Zoé,
ad una mediata dalla presenza della soggettività umana nel mondo,
vediamo emergere l’emblematica figura di Dioniso, il dio
dell’ebbrezza, con la sua droga, il vino.
«Cosa è Dioniso»,
cosa simboleggia a quel punto della storia del sacro nel
Mediterraneo? A quale esigenza culturale e cultuale risponde il dio
della Zoé? Una risposta possibile nasce non solo dall’ipotesi
accademica che egli rappresenti il punto intermedio nel processo di
progressiva soggettivazione della bios umana che, lentamente, smette
di essere solo spettatrice estatica della visione divina – di
«giocare per la Dea» – per prendere posto da protagonista sulla
scena del mondo, ma dalla necessità attuale di avere una divinità
alla nostra portata per sperimentare ancora la via dell’ebbrezza,
della visione estatica. Non a caso il cristianissimo Padre Florenskij
lo inserisce tra le sue figure di riferimento insieme al «gemello»
Apollo.
Dioniso
Se la danza minoica
sul toro, la «vertigine» del dondolio, portavano l’uomo più
vicino alla divinità anche a prezzo del rischio mortale, adesso la
bios umana, nel suo processo di soggettivazione, ha bisogno di una
divinità «umana» che combini estasi ed archetipo della «vita
indistruttibile» con la presenza dell’uomo nella storia; che
faccia da specchio, con il suo ciclo, non solo a quello della Natura,
ma della vita umana caratterizzata, che vuole essere anch’essa
celebrata. Così nasce Dioniso e si afferma il suo avvento: nelle
celebrazioni, nel culto del dio che nasce, muore e rinasce, si
rispecchia finalmente l’umanità.
Ognuno di noi allora
può sempre cercare e vivere momenti dionisiaci, la cui determinante
essenziale altro non è che la percezione immediata ed istantanea di
tutti gli opposti che la vita contiene: un precipitarsi nella
totalità dell’essere senza frapposizioni di sorta. A questa
dimensione, seppure per un solo momento, si accede però solo
attraverso quella che Florenskij chiama la «visione apollinea del
mondo spirituale», in altre parole l’intento deliberato e la
consapevole disciplina immaginale del ricercare il ricongiungimento
con l’Anima Mundi. Evidentemente nulla a che fare con lo sbattere
dei tacchi degli scarponi mentre si porta la mano alla fronte
salutando un qualsiasi Generale.
il manifesto Alias – 6
febbraio 2016