TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 28 febbraio 2021

Non può esserci pace senza dignità. La Pacem in Terris, Camilo Torres e Arnulfo Romero (1963-1980)



    Padre Camilo Torres (1929-1966)

Questo testo era stato pensato per un libro collettivo sulla storia della seconda metà del Novecento che, anche causa Covid, è rimasto poi fermo in tipografia. Lo proponiamo oggi.

Giorgio Amico

Non può esserci pace senza dignità.

L'enciclica Pacem in Terris e il sacrificio di Camilo Torres e Arnulfo Romero (1963-1980)

Nel 1978 Raniero La Valle fonda Bozze, rivista pensata per gettare un ponte fra cattolici e comunisti. In un numero del 1986 La Valle interviene sull'enciclica Pacem in terris, l'ultima enciclica pubblicata da papa Giovanni XXIII, l'11 aprile 1963, quando il Pontefice era già gravemente segnato dai sintomi della malattia - un cancro allo stomaco - che, in meno di due mesi, l'avrebbe portato alla morte. Una sorta di testamento spirituale, potremmo dire, o se si vuole l'ultimo messaggio di speranza da parte di un uomo che molto aveva fatto in anni difficili, ricordiamo la crisi dei missili dell'ottobre 1962 che sembrò portare il mondo sulla soglia della guerra atomica, per creare canali di dialogo fra i due blocchi e superare una politica internazionale fondata dal 1947 sulla diffidenza e la paura reciproca.

Certo l'enciclica riaffermava elementi tradizionali della dottrina cattolica, come l'affermazione al punto 26 che “La convivenza fra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un’autorità che assicuri l’ordine e contribuisca all’attuazione del bene comune in grado sufficiente. Tale autorità, come insegna san Paolo, deriva da Dio.” Così come la tesi profondamente antidemocratica e antimoderna, di Leone XIII secondo cui “certo non può essere accettata come vera la posizione dottrinale di quanti erigono la volontà degli esseri umani, presi individualmente o comunque raggruppati, a fonte prima ed unica donde scaturiscono diritti e doveri, donde promana tanto l’obbligatorietà delle costituzioni che l’autorità dei poteri pubblici”. Affermazioni chiaramente inaccettabili per un laico, ma anche probabilmente per le prime forme di un dissenso cattolico che proprio contro l'autoritarismo delle gerarchie ecclesiastiche si stava iniziando a mobilitare.

Eppure, nonostante queste concessioni alla tradizione, probabilmente frutto di un compromesso fra le diverse componenti vaticane , l'enciclica fece scalpore e fu apertamente accusata dagli ambienti integralisti di filocomunismo, il che la dice lunga sull'arretratezza della Chiesa cattolica e degli ambienti curiali ancora agli inizi degli anni Sessanta. Ed in effetti l'idea che la pace si può e si deve realizzare sulla “terra”, qui e ora e che questo è il compito di ogni uomo, non poteva che suonare scandaloso alle orecchie di chi aveva dimenticato che questo insegnamento era già presente nella tradizione rabbinica, a cui apertamente, e in modo anche allora considerato scandaloso, si era ispirato venti secoli prima un rabbi eretico, consapevole che senza il riconoscimento pieno della dignità di ogni uomo non può esistere vera pace e che questa non può che essere il frutto del rifiuto di ogni forma di oppressione. Un rabbi rivoluzionario fino al punto di scacciare i mercanti dal Tempio e di dichiarare:

«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa». (Mt 10,34-11,1)

I segni de tempi

Ma cosa c'era di tanto scandaloso nelle parole del Papa? Semplicemente l''affermazione che tre erano i segni dei tempi di cui la Chiesa doveva prendere finalmente atto:  l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, la liberazione dei popoli del terzo Mondo dal dominio coloniale. Un messaggio di straordinaria attualità se si pensa che al paragrafo 12 l'enciclica sostiene, e siamo, lo ricordiamo, in un ormai lontanissimo 1963, che «ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse [sottolineatura nostra]».

Parole per molti, allora e anche oggi basti vedere le polemiche sugli immigrati, motivo di scandalo, ma per altri, molto più numerosi, motivo di speranza. Una speranza destinata a crescere e a fermentare negli anni per diventare infine parte integrante del grande moto di rivolta giovanile della fine degli anni Sessanta a cui la componente cattolica non fu estranea. A ragione Raniero La Valle sottolinea nell'articolo a cui ci riferiamo come il testo di Papa Giovanni resti «tuttora il punto più avanzato raggiunto dal magistero ecclesiastico nella riflessione sulla pace. Esso è essenzialmente un documento sulla dignità degli esseri umani e delle loro comunità politiche, sul nesso tra guerra e dominio, e sulla pace come liberazione dal dominio».

Ed in effetti, considerato come la Chiesa fosse stata per l'intera sua storia ferocemente avversa, dalla Riforma all'Illuminismo, dalla Rivoluzione francese al liberalismo e poi al movimento socialista, ad ogni tentativo di allargare i margini di libertà individuale e collettiva, l'idea che un Papa, a differenza dei suoi predecessori che avevano benedetto Mussolini e Franco come uomini mandati dalla Provvidenza, pubblicasse un'enciclica sulla pace come frutto della giustizia, e di una giustizia soprattutto sociale, segnava un oggettivo momento di discontinuità e di rottura.

La teologia della liberazione e Camilo Torres

E questo elemento di rottura fu lievito fondamentale per la maturazione di un diverso modo di concepirsi e viversi come cattolici, immersi nel mondo, ma anche fonte di legittimazione per esperienze come quella, osteggiatissima dalle gerarchie ecclesiastiche, dei preti operai e in America Latina della nascente teologia della liberazione.

Senza la Pacem in terris e il suo messaggio di speranza e di impegno rivolto non solo ai cristiani, ma a “tutti gli uomini di buona volontà”, probabilmente padre Camilo Torres Restrepo, che con Giovanni XXIII aveva dibattuto personalmente della condizione insopportabile dei poveri dell'America Latina, non avrebbe nell'estate del 1965 deciso di unirsi alla guerriglia colombiana e di spiegare la sua scelta con un messaggio ai cristiani in cui proprio in quanto prete sosteneva:  

«La principale regola nel cattolicesimo è l’amore per il prossimo. “Colui che ama il prossimo suo adempie la sua legge”. (S.Paolo, Roma XIII, 8). Quest’amore, perché sia vero, deve trovare la sua efficacia. Se l’elemosina, la beneficenza, le poche scuole gratuite, i pochi piani per le abitazioni, ciò che viene chiamato “carità”, non riesce a dare da mangiare alla maggioranza degli affamati, né a vestire la maggioranza dei denudati, né ad insegnare alla maggioranza di coloro che non sanno, dobbiamo trovare mezzi efficaci per il benessere della maggioranza.

Questi mezzi non li vanno a cercare le minoranze privilegiate che detengono il potere, perché generalmente questi mezzi efficaci obbligano le minoranze a sacrificare i loro privilegi.

E’ necessario allora prendere il potere alla minoranza privilegiata per darlo alla maggioranza povera. (...) La Rivoluzione, quindi, è la forma, per ottenere un governo che dia da mangiare agli affamati, che veste i denudati, che insegna a coloro che non sanno, che adempie alle opere di carità, d’amore con il prossimo, non solo in modo occasionale e transitorio, non solo per pochi, ma per la maggioranza del nostro prossimo. Per questo la Rivoluzione non solo è permessa ma è obbligatoria per i cristiani che vedono in lei l’unica maniera efficace e ampia di realizzare l’amore per tutti.

Quando c’è un’autorità contro il popolo, quest’autorità non è legittima e si chiama tirannia. Noi cristiani possiamo e dobbiamo lottare contro la tirannia. L’attuale governo è tirannico perché non l’appoggia che il 20% degli elettori e perché le sue decisioni escono dalle minoranze privilegiate.

I difetti temporali della Chiesa non ci devono scandalizzare. La Chiesa è umana. L’importante è credere anche che è divina e che se noi cristiani adempiamo coi nostri obblighi d’amore per il prossimo, stiamo rafforzando la Chiesa.»

Camilo Torres, "el cura guerrillero" (il prete guerrigliero), come lo chiamavano i campesinos,  morì il 16 febbraio 1966 in uno scontro con l'esercito colombiano. Si era unito alla guerriglia, ma non portava armi.  

Il sacrificio di Oscar Arnulfo Romero

Senza la Pacem in terris e la testimonianza che ne diede chi offrì la sua vita per affermare la dignità dei poveri, non ci sarebbe stata la conversione ad un cristianesimo autentico rivolto agli ultimi di Monsignor Oscar Arnulfo Romero. La storia è nota. Nel 1977 in un Salvador dove infuria la repressione contro i contadini in lotta per la terra e la libertà, si deve scegliere il nuovo arcivescovo della capitale. La scelta delle gerarchie cade su Monsignor Romero, conosciuto come conservatore, anticomunista e avversario accanito della teologia della liberazione e dunque ben visto dall'oligarchia che da sempre governa il paese. Ma accade un fatto nuovo: i paramilitari assassinano padre Rutilio Grande, animatore del Vangelo tra i contadini. Quel sangue innocente diventa per Romero fattore di conversione. È come se un velo si squarciasse a rendergli visibile l'inumana sofferenza dei campesinos. L'arcivescovo ne è sconvolto al punto di rompere con l'oligarchia e di denunciare pubblicamente i crimini del potere. Additato come un comunista, lasciato solo dagli altri vescovi, stigmatizzato da Papa Wojtila che lo considera un sovversivo, il 24 marzo 1980 Romero viene assassinato sull'altare mentre celebra la Messa. Il giorno prima aveva lanciato ai militari un appello alla disobbedienza:

“Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli campesinos e davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno è tenuto a rispettarla. È ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che agli ordine del peccato …In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente, vi supplico, vi prego, vi ordino: cessate la repressione!”.

Dal 1963 erano passati diciassette anni, ma il messaggio della Pacem in terris non era rimasto inascoltato.