TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 23 marzo 2017

L'altra Venezia



Le foto di Giovanni Cocco svelano angoli di una Venezia quasi inimmaginabile dalla gran parte dei turisti: silenziosa, privata, sempre più vuota di abitanti e meravigliosamente autentica.

Caterina Serra
Fotografie di Giovanni Cocco

L'altra Venezia: la città souvenir persa nel vuoto


Guarda, l'aquila di mare è tornata in laguna. Insieme al germano reale, l'alzavola, l'oca lombardella, il piovanello partito dalla Siberia, la garzetta che sembra un airone ma ha il becco nero come le zampe che finiscono gialle. Vengono tutti a svernare a Venezia. Un flusso migratorio gentile, un popolo aereo, che viene e va senza pretese di occupazione né temporanea né permanente. La città alza gli occhi al cielo, con l'aria un po' stanca, stordita dal milione di voci che la assordano, sfinita dal conto dei passi di gente che ogni giorno gira in tondo, si ferma, riparte, si perde. Dove sono? Chiede qualcuno con la cartina della città in mano. Ogni tanto ci gode, a farli perdere, a confonderli, spezzandogli davanti agli occhi la strada, improvvisando un canale che interrompe il cammino. Ogni tanto invece offre ponti all'altro flusso, quello che ha attraversato il mare, e allunga un cappello a ridosso dei muri.


Ogni tanto i due flussi si incrociano ma senza confondersi. Lo sanno tutti, Venezia richiede elasticità, sinuosità di movimenti, e tagli netti improvvisi, come a sparire. È questo a confondere, l'impossibilità di un procedere lineare, omogeneo, l'insostenibilità di un pensiero che non ammette contraddizioni. Sembra ferma, la città più intatta della storia, con le sue gondole che ancora nessuno ha dipinto di rosa, col suo canale di palazzi sospesi come piatti sulle asticelle di un giocoliere, e la stessa aria magica di un castello incantato. Eppure. Come un parco a tema da visita domenicale, Venezia apre ogni giorno come una disneyland da visitare. Qualcuno dice che sta morendo, qualcun altro annuncia a gran voce che la città più bella del mondo è in vendita, che se la godono come un luna park, se la portano via come un bel souvenir, ci passano qualche giorno per foto in pose inchiodate a ponti che servono da belvedere.



Dicono che stia cambiando, che si stia svuotando di chi c'era nato e vissuto, che si stia facendo incatenare di negozi tutti uguali, a omologarla di copie di se stessa, sotto l'estetica un po' fetish di maschere di un brutto carnevale, dentro stanze di ori e stucchi come dark-room, un buio della storia in cui infilarsi eccitati dall'idea stessa di non sapere più dove si è. Dove siamo finiti? Se la comprano i più ricchi della terra e se la affittano, non è che ci vengono a stare, le case costano sempre di più e allora si lascia l'acqua incerta per la terraferma. Ogni tanto qualcuno sibila che sono anche i veneziani che se la vendono la loro amatissima città, affittacamere e venditori di case come si vendessero l'anima, ché agli schei sono attaccati tutti.


Ma dove sono?, nel senso di dove mi trovo, se lo chiede il turista spaesato, e il veneziano spaesato anche lui. Il turista che non solo si perde tra calli che gli sembrano uguali, ma che si ritrova in una città che non sa neanche se è quella vera, per dire storica, quell'unica al mondo fatta così, o non sia invece una delle sue tante riproduzioni. A fine giornata nella città-souvenir, c'è sempre qualcuno che si domanda: a che ora chiude Venezia?, con la paura di restare dentro mentre si spengono le luci, la giostra si ferma, il divertimento è finito.



Cosa accade a una città svuotata dei suoi abitanti e popolata di turisti? Cosa ne è dello spazio pubblico? E cosa succede a quello privato se l'uso di una casa non è più abitativo? Come se lo spazio pubblico potesse essere rinchiuso dietro i cancelli di una biglietteria, come se vivere non fosse abitare, aver cura di ogni bene comune, alimentare lo spirito della città con ciò che fa parte della sua storia, della sua identità. O come se lo spazio privato fosse lì pronto ad aprirsi al miglior offerente, e le cose non facessero parte di noi, non ricordassero niente a nessuno.

Anche le case ogni tanto si chiedono, dove siamo? Se la città diventa un pittoresco spassoso paese dei balocchi, quel pieno di voci e piedi che la affatica tanto è un vuoto di senso, di cittadinanza, di vita reale, di vita vera, verrebbe da dire, in cui la domanda, più storica che geografica, di chi ci passa o ci vive, e vuole viverci ancora con amore per la città, sarà la stessa: dove sono?


La Repubblica – 15 marzo 2017