Roberto Massari
Arturo Schwarz
Arturo Schwarz ci ha
lasciato il 23 giugno all’età di 97 anni. D’ora in poi saremo
tutti un po’ più soli sul terreno culturale e rossoutopico. Ma il
patrimonio che egli ci lascia sopravviverà a lui e alle generazioni
future.
Ebreo del Cairo (dov’era
nato nel 1924), fu tra i costruttori della sezione egiziana della
Quarta internazionale, pagando di persona alti prezzi alle autorità
militari britanniche (prigionia, torture, internamento e finalmente
espulsione verso l’Italia). Nel nostro Paese militò nella sezione
italiana della Quarta (i Gcr), dalla quale uscì per divergenze
sull’orientamento politico.
Munito di doppia laurea
(Sorbona e Oxford) diede vita nel 1952 alla celebre casa editrice
«Schwarz» che rappresentò la prima vera fucina editoriale del
pensiero d’avanguardia in questo Paese dilaniato tra due
potentissime fonti di arretratezza culturale: la Chiesa cattolica e
il togliattismo. E fu proprio Togliatti che riuscì a far chiudere
questa eroica casa editrice che, per gli italiani reduci dal
fascismo, pubblicava Breton, Trotsky, Naville, Nadeau, il primo
Giorgio Galli e altri esponenti del pensiero antistaliniano, o poeti
come Luzi, Merini, Quasimodo… La chiusura fu realizzata facendogli
togliere il credito bancario (in qualche modo entrò nella congiura
anche la Lega delle cooperative).
Eppure la corrente
editoriale rappresentata da Schwarz non morì e rinacque sotto non
tanto mentite spoglie con la Samonà & Savelli, che a sua volta
fece da madrina all’attuale Massari editore.
Schwarz-Savelli-Massari,
una linea di continuità editoriale che vive ed è proiettata nel
futuro, a differenza del moribondo togliattismo (vecchio e nuovo) e
degli ostacoli che la Chiesa incontra in campo culturale. Questa
linea di contiinuità fa ben sperare per il futuro del pensiero
razionale e rossoutopico e una parte del merito dovrà sempre essere
riconosciuto a chi ha aperto la strada, cioè ad Arturo Schwarz.
Verso la fine degli anni
’50, Arturo abbandonò la Quarta, ma la sua ammirazione per Trotsky
continuò sino alla fine dei suoi giorni. Suo è il bel libro
sull’amicizia fra Breton e Trotsky, tradotto in più lingue,
che dal 1997 è nel catalogo della Massari editore, insieme con il
suo L’avventura surrealista. Amore e rivoluzione, anche (a
sua volta del 1997).
A un certo punto Arturo
si definì anarchico e credo che lo sia stato
profondamente, nel senso migliore del termine. E infine sionista,
anche questo nel senso migliore del termine, secondo un iter
attraversato da molti altri esponenti dell’intelligentsia ebraica
di sinistra o comunista, sempre comunque internazionalista.
Era un convinto e
commosso ammiratore della nuova cultura israeliana ma anche, come mi
confessò una volta, dell’accoglienza che la sua personalità
culturale aveva in quel Paese, dove lo facevano addirittura insegnare
all’università, mentre in Italia continuavano l’ostracismo o il
silenzio nei suoi confronti.
Non si faccia caso alle
commemorazioni ipocrite che si leggeranno nei prossimi giorni, perché
Arturo è rimasto sostanzialmente un emarginato sulla scena culturale
italiana, nonostante il suo grande prestigio a livello
internazionale. Più che il suo trotsko-anarco-sionismo, non gli è
mai stato perdonato il suo precoce e duraturo antitogliattismo:
proprio questo tratto culturale che deve restare come un suo titolo
di grande merito, indipendentemente da altre considerazioni
politiche.
Si tenga conto che grazie
alla sua pionieristica opera di collezionista e ai suoi studi
sull’arte d’avanguardia, Schwarz aveva aperto una galleria a
Milano, nella quale aveva raccolto un’enorme quantità di pezzi del
dadaismo e del surrealismo di tutto il mondo, ma che portavano a
volte le firme prestigiose di Duchamp (il più rappresentato), Tzara,
Ray, e dello stesso Breton (un suo collage ebbi modo di vederlo nella
sua casa museo di via Giuriati a Milano e l’ho poi adottato - su
riproduzione datami da Arturo - come copertina del libro di
Breton, Entretiens, altro capolavoro dell’editore Schwarz
trasmigrato nella Massari editore).
Arturo è stato
considerato uno dei massimi studiosi del dadaismo e del surrealismo,
e non c’è stata praticamente nessuna grande mostra su questi temi
(dagli Usa, alla Francia, all’Italia, a Israele ecc.) che non si
sia avvalsa dei suoi prestiti e della sua consulenza, sia per
l’allestimento, sia per il catalogo.
A un certo punto Arturo
decise di donare una parte della sua grande collezione
all’immeritevole Galleria d’Arte moderna di Roma (ormai
degenerata a livelli impensabili per chi in quel Museo ha imparato a
conoscere e amare l’arte del Novecento). Ma a me disse che quella
donazione all’Italia la faceva soprattutto per superare gli
ostacoli giuridici alla donazione più grande e corposa che riuscì a
fare nel 2000 per il Museo di Tel Aviv.
Arturo scrisse molti
libri. Io stesso vado accumulando da anni alcuni suoi testi (inclusa
la conversazione con Marcuse) che mi permetteranno di includerlo ben
presto nella collana degli «eretici e/o sovversivi», nella speranza
che qualche studioso rediga una sua affascinante biografia. Scrisse
di alchimia, di misticismo ebraico e orientale, scrisse poesie e
scrisse di donne, da lui amate nella concretezza corporea, ma anche
in una sorta di fantasiosa proiezione ideale.
E amò molto se stesso, e
a tale riguardo non fu mai ipocrita o modesto. Chi lo ha frequentato,
sa che ebbe un carattere brusco, imprevedibile e a volte
intrattabile. Io che sono riuscito miracolosamente a restargli amico
(nonostante un diverbio che avemmo per una questione di dettaglio
dopo gli indimenticabili incontri avvenuti nella villa/antico
convento «incantato» nei pressi di Badia al Pino [Arezzo] ) posso
assicurare che era questo il suo modo di difendersi dalla più infida
minaccia per un uomo della sua celebrità internazionale: la discesa
nella banalità, il cedimento alla società dello spettacolo. E per
questo grande e anomalo intellettuale morto quasi centenario,
possiamo dire che almeno lui ce l’ha fatta a vincere la battaglia
più difficile.
Hasta siempre, Arturo...
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