Giorgio Amico
“Io torno di notte”. Lettere dal Perù di un ligure di Ponente.
Ci sono libri che, come lo specchio di Alice, già dalle prime righe hanno il potere magico di proiettarti in un altro mondo. Libri che ti prendono con una forza irresistibile e che non ti lasciano finchè non hai finito di leggerli. E neppure allora, perchè ti viene di continuo di ripensare a quelle pagine e ti vengono spontanei pensieri e riflessioni sull'oggi. Insomma, libri che ti entrano dentro e non ti lasciano, che ti aiutano a capire un poco meglio chi sei e il mondo da cui vieni e quello in cui vivi. È il caso di “Io torno di notte”, di Mario Ferrando che, pur non essendo uno scrittore di professione, ha saputo da un plico di lettere trovate per caso in un baule nella vecchia casa di famiglia a Villa Viani, nell'immediato entroterra di Imperia, far emergere con grande pudore e rispetto l'animo di un uomo, le sue speranze e delusioni, i suoi affetti più intimi.
Sono frammenti di un diario e una scelta di lettere che Giovanni Battista Viani, detto “Giobatta” o “Baciccin”, come si usava allora nei paesi dove si era conosciuti soprattutto attraverso soprannomi o il nome dei padri, manda alla moglie dal Perù, dove si era trasferito in cerca di fortuna nel 1914 e dove resterà, salvo un breve intermezzo negli anni Venti, fino al 1947.
Entrare nella vita di un uomo, nei suoi pensieri più reconditi che egli condivide solo con la moglie,non è operazione facile né indolore. Si ha l'impressione di oltrepassare una soglia in qualche modo proibita, di avventurarsi su di un terreno quasi sacro. Entrare nel cuore di un uomo, leggere parole scritte per essere lette solo da un'altra persona, rappresenta una esperienza emotivamente terribile che pone interrogativi prima di tutto etici: è lecito farlo o è violare un segreto che tale deve restare? Forte è la tentazione di rinchiudere quel baule e lasciare tutto com'è stato per quasi un secolo: una questione privata. Ma, come la Tradizione insegna, le parole non sono semplici rappresentazioni di realtà esterne, ma hanno il potere magico di far apparire davanti a noi cose e mondi di cui neppure immaginavamo l'esistenza. E dunque ti afferrano il cuore, ti entrano dentro e non ti lasciano più. E le lettere di “Baciccin” Viani hanno questo potere. Leggerle è come fare un viaggio per sentieri sconosciuti e come Ulisse, una volta tornati a casa, sentire forte dentro la voglia di raccontare ciò che si è visto, di condividere con altri quella esperienza troppo grande per poter restare nel cuore di un solo uomo. E allora la decisione di pubblicarle, di farne un libro, che altri possano leggere, che ad altri possa trasmettere quelle sensazioni profonde. Decisione non facile, perché davvero, facendolo, si supera una soglia in qualche modo proibita.
Mario Ferrando ha deciso di farlo e l'ha fatto nell'unico modo possibile, riportando quelle frasi, quei pensieri con il pudore e la tenerezza con cui svolge la sua professione di pediatra. Quasi quelle parole arrivate inaspettate dal passato fossero quei bambini di cui si prende cura ogni giorno. Da qui la carica emotiva straordinaria del libro, che affascina e commuove.
Difficile recensire un libro tanto intenso. Tanto difficile che non proverò neppure a farlo. Altri, ben più illustri, hanno saputo con grande abilità ricostruire in due saggi introduttivi di grande spessore culturale e scientifico sia la lingua che il protagonista usa – lingua colta perché Giobatta Viani non è un semplice contadino, ma proviene da una famiglia benestante - che il momento storico in cui quegli avvenimenti si collocano e soprattutto il fenomeno, complesso e articolato, dell'emigrazione italiana e ligure in America latina.
A me interessa soprattutto trasmettere le sensazioni profonde che queste pagine mi hanno suscitato. Pagine bellissime, in particolare quelle del diario della traversata da Genova a Santos nel dicembre 1914 e poi del viaggio da Santos a Valparaiso del gennaio successivo. Un diario pensato per la moglie Paolina, per condividere con lei ogni attimo di quella esperienza. Costante è il tentativo di riportare quanto accade sulla nave e quello che egli vede a esperienze fatte insieme, in modo che lei possa più facilmente capire e quasi immedesimarsi con lui. C'è un passo bellissimo che rende bene questo tentativo di tradurre emozioni nuove nel linguaggio comune delle esperienze vissute insieme:
“Il cielo serenissimo era illuminato da milioni di stelle, le quali coll'aria limpida e fina si discernevano bene e lasciavano una di quelle impressioni così incantevoli che non si dimenticano. Pareva il cielo che si contempla dai nostri monti, quando, d'estate, si è al raccolto del fieno in quelle notti così belle quando sono belle, così splendide, così in pace”.
“ Quando, d'estate, si è al raccolto del fieno”. Giovanni si porta dietro sul mare i monti della sua Liguria, e i ricordi del tempo passato,come la visione di un cielo stellato avendo accanto a sé la donna amata.
E questo mi porta ad un'ultima riflessione. Leggendo queste lettere mi è venuto spontaneo pensare che il vero protagonista di questa storia, così intensa, non sia Giobatta, ma proprio Paolina. È lei, rimasta sola ancora giovane a Villa Viani, che fa crescere i tre bimbi piccoli,che si prende cura della casa, dell'uliveto e di quelle quattro fasce pietrose che comunque vanno lavorate. È lei a dare forza a Giobatta, a infondergli coraggio e speranza. Nelle avversità e nella durezza della vita in Perù, è la presenza di Paolina, la sua autorità materna a rassicurarlo. Comunque lei c'è e lo attende, come un porto a cui infine approdare. Davvero, simile in questo a Ulisse, per Giovanni Paolina rappresenta la sua Itaca di sogno.
Io torno di notte
Lettere tra l'Italia e il Perù dal 1914 al 1947.
La Vita Felice, Milano 2020
230 pp.