TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 19 novembre 2009

Francesco Biamonti, gli inizi




Giorgio Amico

Francesco Biamonti, gli inizi


Nel 1951 Francesco Biamonti ha ventitre anni e un diploma di ragioniere in tasca. Probabilmente coltiva come tutti i giovani molti sogni ed insieme tante insicurezze, forse anche qualche paura, ma una cosa gli è certa: non finirà i suoi giorni in un ufficio o in una banca come il padre.

Quello che immagina per sé non è un tranquillo avvenire piccolo-borghese, la sicurezza economica di un posto fisso, una vita fatta di rituali codificati, di giorni tutti uguali, di orizzonti ristretti. Francesco vola alto, vuole scrivere.

In modo un po' fortunoso riesce a far uscire un suo racconto, Serenità tra i fiori, su un giornaletto, apparso come numero unico nel maggio in occasione della “battaglia dei fiori”, la grande sfilata di carri fioriti che si ripete ogni anno a Ventimiglia a festeggiare il ritorno della primavera.

Tentativo “ingenuamente pascoliano” lo definirà, quasi cinquant'anni dopo nella lunga intervista rilasciata a Paola Mallone, raccolta poi nel volume “Il paesaggio è una compensazione” - Itinerario a Biamonti, pubblicato solo pochi mesi prima della sua morte e che dunque rappresenta la riflessione conclusiva dello scrittore sull'intero suo percorso artistico e umano, una traccia certa ad indicare il percorso a chi in futuro si accingerà all'analisi critica della sua opera. Ma quella sorta di pudore a parlare di sé che lo scrittore ha manifestato nelle più diverse occasioni lo porta a liquidare con quelle sbrigative due parole la sua prima fatica letteraria, come a tagliar corto, quasi non mettesse conto parlarne, quasi se ne vergognasse un pochino come di un'opera ancora immatura, “ingenua”, di cui parlare, se proprio si deve, il meno possibile, con ritrosia se non con fastidio.

Sembrerebbe difficile dargli torto. Ad una prima lettura il racconto appare scritto in una prosa assai lontana dalla scarna efficacia delle opere della maturità, faticosa, involuta e in alcuni passaggi impacciata. In realtà a rileggerlo con attenzione, il breve racconto è tutto meno che ingenuo. Non sappiamo, né, come si è visto, Biamonti ce lo rivela, quali fossero le aspettative del giovane scrittore esordiente di allora, ma di certo il testo ha ambizioni alte ed evidenzia già dal primo periodo echi di letture compiutamente metabolizzate, lungamente rimeditate fino a farle proprie. Colpiscono in particolare un paio di citazioni di Montale, poste significativamente proprio all'inizio e alla fine del testo, a evidenziare quanto importante sia stato questo poeta nella formazione dello scrittore, le esplicite notazioni autobiografiche, l' attenzione costante fin dalle prime righe al paesaggio come luogo del ricordo e al tempo stesso trionfo di luce e colori:

"Uscito dalla stazione, gli appare lo specchio verdeazzurro del mare in fondo ai platani, oltre le palme simili a verdi girasoli impazziti di luce."
(Le citazioni sono tratte da: Serenità tra i fiori, ora in Paola Mallone, "il paesaggio è una compensazione", De Ferrari, 2001, pp. 99-101)

Qui, come si diceva, l'omaggio al Montale di Ossi di seppia è esplicito. Letterale la citazione dell'ultimo verso della poesia Portami il girasole ch'io lo trapianti:

"Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce."


Il racconto descrive le sensazioni confuse e contraddittorie del giovane Enzo tornato proprio per la “Battaglia dei fiori” nella Ventimiglia, dove ha vissuto fanciullo, in cerca di una pace interiore che è incapace di trovare:

"Lo stordisce un riflesso acuto d'acqua e di cielo, l'accecante luminosità gli dà un senso penoso di fastidio, troppo balzandone viva la sua cupa tristezza derivantegli da una ipersensibilità che lo fa piangere quando appassiscono le rose. Il suo animo aderisce ad ogni sfumatura di tristezza, ma rimane totalmente chiuso ad ogni espressione di gioia. Forse è il senso inconscio della caducità della vita, del fatale trascorrere degli anni. Cosciente del suo male, in Ventimiglia è andato a cercare la pace."

Difficile in questo giovane triste, solitario, incapace di comunicare con gli altri non riconoscere lo stesso Biamonti che in almeno una occasione, accennando alla sua giovinezza, aveva parlato di anni di muta disperazione, vissuti “nell'incertezza, nello smarrimento, in una specie di compiacimento maledettistico” arrivato fino a “atteggiamenti di suicidio”.
(Paola Mallone, cit., p. 161)

In città Enzo incontrerà Mara, compagna di giochi infantili, omai diventata donna, oggetto di desiderio innocente nel ricordo, con cui passerà una giornata. Da quell'incontro il giovane uscirà profondamente trasformato, finalmente capace di affrontare la complessità angosciosa del vivere.

Storia minimale ed in questo intimamente pascoliana, interamente giocata sul filo della memoria e dei sentimenti, Serenità nei fiori esplicita sensazioni impalpabili, immagini mentali, come quella di un cespuglio di rose scosso dal vento, che del sogno hanno tutta l'ambiguità surreale:

"Ad Enzo si ricompone nella mente l'immagine triste di quel cespuglio di rose tutte in fiore che una folata di vento ha improvvisamente lasciato nudo, dipingendo nell'aria un momentaneo pensiero di luce rosa."
Così come ambigua è Mara, in fondo autentica protagonista della storia, vera e propria immagine archetipale, affettuosamente materna, ma anche angelicamente perversa nell'enigmaticità di quel sorriso che l'autore non descrive, ma ci fa sapientemente intuire:

"Il sole sfolgora sul giardino. Prima di varcare il cancello, Enzo si volta, Mara fa un cenno colla mano, il sole le dà ai capelli una morbidezza luminosa."
La storia si avvia al suo epilogo: travolti dal profumo dei fiori, dai rumori della festa, dall'eco delle grida e delle risate, i due giovani camminano sulla spiaggia abbracciati. Innocente e tentatrice al tempo stesso, Mara si stringe al cugino mentre attorno a loro il giorno lentamente declina:

"Camminando sui petali, a “battaglia” conclusa, s'avviano sulla riva del mare. È quasi notte ormai. Venere appare una scheggia di quarzo incastonata in una grande volta di cristallo. Enzo sente il corpo esile della donna che reclina sulla sua spalla il capo stanco..."

Oggetto di sogno, stanza della memoria, Mara diventa nella fisicità esasperata dell'incontro strumento di salvezza. A lei, come alle protagoniste dei romanzi della maturità – Ester, Sabel, Veronique, Clara – ci si si rivolge in una disperata ricerca di autenticità che dia senso alle cose, che in qualche modo pacifichi l'esistenza, plachi l'irrequietezza, sani quel male profondo del vivere, tipico dei personaggi maschili biamontiani, di cui il giovane Enzo per primo è portatore:

"Il suo cuore accoglie finalmente l'armonia dei fiori del corso. In lui piange e canta mortale il coro eterno della vita. E' un coro che gli sembra provenire dagli astri, cenere o polvere degli astri, di tutti i mondi che ruotano intorno agli infuocati soli."

Di nuovo, proprio in chiusura, ritorna il richiamo esplicito, insistito a Montale, quasi a saldare con una seconda citazione del poeta ligure il cerchio magico della creazione artistica.

“....e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri”.


Un effetto circolare, voluto, del tutto coerente con la ferma convinzione di Biamonti che solo la frequentazione assidua dei poeti potesse insegnare a scrivere. Un punto di vista che lo scrittore riaffermerà con grande convinzione ancora quasi alla fine della sua vita:

"I poeti insegnano lo stile, perchè inventano un modo nuovo di metaforizzare il linguaggio, affinchè sia il più immediato possibile. Il poeta rinnova la metafora e la metonimia più velocemente del romanziere. Non si può pensare di fare una buona prosa senza aver letto i poeti. Si vede sempre, nella scrittura che conta, apparire un esercizio alla poesia." (Paola Mallone, cit., p. 54)