Giorgio Amico
La Liguria di Rosa Luxemburg
Già nel 1906 Rosa Luxemburg era stata per un breve periodo in Italia, sul Lago di Garda, in compagnia di Luise Kautsky. Nel 1909 Rosa ritorna in Italia per un periodo più lungo. Dai primi giorni di maggio sino alla fine di giugno soggiorna in Liguria, prima a Genova, poi a Levanto ed infine a Sestri Levante. Di questo soggiorno restano tracce in alcune lettere inviate all'amica Luise. Il primo impatto con Genova non deve essere stato proprio dei migliori se Rosa lamenta il fatto che “gli uomini sono senza vergogna, almeno nelle botteghe, dove continuamente mi truffano sul prezzo e ogni volta anche sul resto mi rifilano un paio di monete fuori corso”. Ma, bottegai a parte, Genova appare alla ancora giovane polacca come un miraggio di luce e sole interrotto dalle fresche parentesi dei vicoli., i “caruggi”, di cui manda alla cara Luise una descrizione pittoresca non priva di ironia:
“Strade strette, case grattacielo (…), due o quattro finestre addobbate dall'alto in basso con biancheria variopinta, così che ad ogni soffio di zefiro svolazzano e sbattono dappertutto camicie, calze bucate e simili oggetti primaverili. Per giungere alle strade poste più in alto esistono incantevoli vicoli o scalinate, vale a dire stradette, che ogni due passi portano all'insù completamente oscure, esuberatamente fetide e tanto larghe che il passaggio vi è ostruito ovunque da un cittadino facilmente appartatosi e facilmente addormentatosi, che vi fa le proprie devozioni e si premura della continua irrorazione delle viuzze”.
Ma come ebbe a riconoscere il suo principale biografo, Rosa si approccia al mondo mediterraneo con la stessa passione acritica delle tante generazioni di tedeschi che l'avevano preceduta, compreso il filosofo Friedrich Nietzsche che a Genova aveva a lungo soggiornato vent'anni prima ricavandone impressioni ed emozioni non molto diverse. Vittima anch'essa di quel “mito goethiano del sud”, per usare la efficace espressione di Nettl, che tanto profondamente era penetrato nell'animo degli intellettuali del Nord Europa. Così, pure il disordine e il caos del traffico cittadino tanto diverso dal compassato e algido stile di vita guglielmino, se un po' la sconcerta, le appare però portatore di una vitalità e di un dinamismo affascinanti.
“Nelle stradette un po' più larghe – scrive – si vede pur sempre carambolare tra carretti a due ruote (…) che passano di preferenza a sinistra, anziché a destra, in modo che a un ben disciplinato uomo civile dell'impero tedesco capita spesso improvvisamente di sentire dietro o sopra la propria testa l'amorevole alito d'un muso, l'estremità di una frusta schioccante: perchè qui qualcosa come la separazione del marciapiede dalla carreggiata è proibita come non democratica, e ad ogni creatura è permesso di battersi a gomitate per la vita e per la strada”.
Ma Rosa, nonostante abbia trovato “una graziosa camera in buona posizione, in alto sopra la città”, si stanca presto di Genova, desiderosa di trovare un contatto più diretto, lontano dalla frenetica operosità del porto, con quel mare che l'attira tanto irresistibilmente.
“Nel complesso – scrive all'amica lontana – la vita e la natura di qui mi piacciono molto, il mare è però la cosa fondamentale, ed è stupendo. Me lo vedo dalla mia camera tutto quanto il giorno e non me ne posso saziare”.
Da Levanto, dove si è traferita nei primi giorni di giugno, Rosa scrive a Luise con un entusiasmo quasi adolescenziale di “cielo azzurro, sole sfolgorante e mare blu cupo con creste di schiuma bianca che alla luce del sole sfavillano come neve”.
Lontano dalla Germania, dagli affanni della politica e soprattutto dal rapporto tormentato con Konstantin Zetkin, Rosa sente lentamente rifluire in lei la voglia di vivere, abbandonarla quello stato depressivo che le rendeva difficile anche concentrarsi nello studio. E' una sensazione fortemente liberatoria. “Oggi – fa sapere all'amica – c'è di nuovo il sole in me e attorno a me”. Lontano dal caos cittadino, senza fabbriche che “smerdano la vista”, lontano da una Aurelia già allora troppo trafficata, “grande strada turistica... dove le automobili passano e olezzano via”, rosa si gode il mare del Ponente ligure e le “dolci colline apenniniche che, coperte di ulivi e pini, offrono verde in tutte le sfumature”. Un mondo che le appare senza tempo, sospeso fra mare e cielo, regno di “gatti bianco-rossi che scivolano attraverso la strada da una siepe all'altra” e la prende tanto da farle venir voglia di “buttar via il lavoro”, di mettere da parte i libri e le carte che si è portata dietro. Ma a distoglierla dalle tentazioni di un ozio tutto mediterraneo ci sono le rane e le campane dei mille campanili delle piccole chiese dei paesi.
“Tutto sarebbe così bello – scrive fra il serio e il faceto – ma, ma...Anzitutto: le rane, appena cala il sole, comincia da tutti gli angoli un concerto di rane, come non ho mai udito altrove... Rane in mio onore. Però rane di tal tipo, un gracidio così generale, stridente, soddisfatto, come se la rana fosse la prima e la più importante personalità. Secondo: le campane. Io apprezzo e amo le campane delle chiese. Ma ogni quarto d'ora scampanellare, e poi con un bimbimbim frivolo, insulso e puerile, bimbambam – c'è di che impazzire”-
Una Rosa gioiosa, piena di vita, all'apparenza persino un po' frivola, ma che in realtà nella calma placida di una Liguria assolata lascia venire allo scoperto la sua più intima natura. Un modo di concepire la vita, ma anche l'impegno politico, che inaspettatamente ritroveremo nella tetra atmosfera del carcere pochi anni più avanti. Dalla prigione in cui è stata rinchiusa per la sua intransigente opposizione alla guerra, nel dicembre 1916, scrivendo all'amica Mathilde Wurm, Rosa ritrova, singolare testimonianza della sua forza morale, gli accenni di quella felice e ormai lontana estate italiana:
“Rimanere umani – scrive – significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola; ah, non so scrivere una ricetta per essere umani, so soltanto come si è umani...”.
“Strade strette, case grattacielo (…), due o quattro finestre addobbate dall'alto in basso con biancheria variopinta, così che ad ogni soffio di zefiro svolazzano e sbattono dappertutto camicie, calze bucate e simili oggetti primaverili. Per giungere alle strade poste più in alto esistono incantevoli vicoli o scalinate, vale a dire stradette, che ogni due passi portano all'insù completamente oscure, esuberatamente fetide e tanto larghe che il passaggio vi è ostruito ovunque da un cittadino facilmente appartatosi e facilmente addormentatosi, che vi fa le proprie devozioni e si premura della continua irrorazione delle viuzze”.
Ma come ebbe a riconoscere il suo principale biografo, Rosa si approccia al mondo mediterraneo con la stessa passione acritica delle tante generazioni di tedeschi che l'avevano preceduta, compreso il filosofo Friedrich Nietzsche che a Genova aveva a lungo soggiornato vent'anni prima ricavandone impressioni ed emozioni non molto diverse. Vittima anch'essa di quel “mito goethiano del sud”, per usare la efficace espressione di Nettl, che tanto profondamente era penetrato nell'animo degli intellettuali del Nord Europa. Così, pure il disordine e il caos del traffico cittadino tanto diverso dal compassato e algido stile di vita guglielmino, se un po' la sconcerta, le appare però portatore di una vitalità e di un dinamismo affascinanti.
“Nelle stradette un po' più larghe – scrive – si vede pur sempre carambolare tra carretti a due ruote (…) che passano di preferenza a sinistra, anziché a destra, in modo che a un ben disciplinato uomo civile dell'impero tedesco capita spesso improvvisamente di sentire dietro o sopra la propria testa l'amorevole alito d'un muso, l'estremità di una frusta schioccante: perchè qui qualcosa come la separazione del marciapiede dalla carreggiata è proibita come non democratica, e ad ogni creatura è permesso di battersi a gomitate per la vita e per la strada”.
Ma Rosa, nonostante abbia trovato “una graziosa camera in buona posizione, in alto sopra la città”, si stanca presto di Genova, desiderosa di trovare un contatto più diretto, lontano dalla frenetica operosità del porto, con quel mare che l'attira tanto irresistibilmente.
“Nel complesso – scrive all'amica lontana – la vita e la natura di qui mi piacciono molto, il mare è però la cosa fondamentale, ed è stupendo. Me lo vedo dalla mia camera tutto quanto il giorno e non me ne posso saziare”.
Da Levanto, dove si è traferita nei primi giorni di giugno, Rosa scrive a Luise con un entusiasmo quasi adolescenziale di “cielo azzurro, sole sfolgorante e mare blu cupo con creste di schiuma bianca che alla luce del sole sfavillano come neve”.
Lontano dalla Germania, dagli affanni della politica e soprattutto dal rapporto tormentato con Konstantin Zetkin, Rosa sente lentamente rifluire in lei la voglia di vivere, abbandonarla quello stato depressivo che le rendeva difficile anche concentrarsi nello studio. E' una sensazione fortemente liberatoria. “Oggi – fa sapere all'amica – c'è di nuovo il sole in me e attorno a me”. Lontano dal caos cittadino, senza fabbriche che “smerdano la vista”, lontano da una Aurelia già allora troppo trafficata, “grande strada turistica... dove le automobili passano e olezzano via”, rosa si gode il mare del Ponente ligure e le “dolci colline apenniniche che, coperte di ulivi e pini, offrono verde in tutte le sfumature”. Un mondo che le appare senza tempo, sospeso fra mare e cielo, regno di “gatti bianco-rossi che scivolano attraverso la strada da una siepe all'altra” e la prende tanto da farle venir voglia di “buttar via il lavoro”, di mettere da parte i libri e le carte che si è portata dietro. Ma a distoglierla dalle tentazioni di un ozio tutto mediterraneo ci sono le rane e le campane dei mille campanili delle piccole chiese dei paesi.
“Tutto sarebbe così bello – scrive fra il serio e il faceto – ma, ma...Anzitutto: le rane, appena cala il sole, comincia da tutti gli angoli un concerto di rane, come non ho mai udito altrove... Rane in mio onore. Però rane di tal tipo, un gracidio così generale, stridente, soddisfatto, come se la rana fosse la prima e la più importante personalità. Secondo: le campane. Io apprezzo e amo le campane delle chiese. Ma ogni quarto d'ora scampanellare, e poi con un bimbimbim frivolo, insulso e puerile, bimbambam – c'è di che impazzire”-
Una Rosa gioiosa, piena di vita, all'apparenza persino un po' frivola, ma che in realtà nella calma placida di una Liguria assolata lascia venire allo scoperto la sua più intima natura. Un modo di concepire la vita, ma anche l'impegno politico, che inaspettatamente ritroveremo nella tetra atmosfera del carcere pochi anni più avanti. Dalla prigione in cui è stata rinchiusa per la sua intransigente opposizione alla guerra, nel dicembre 1916, scrivendo all'amica Mathilde Wurm, Rosa ritrova, singolare testimonianza della sua forza morale, gli accenni di quella felice e ormai lontana estate italiana:
“Rimanere umani – scrive – significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola; ah, non so scrivere una ricetta per essere umani, so soltanto come si è umani...”.