Proseguiamo nel nostro omaggio a Francesco Biamonti, riproponendo la recensione che Nico Orengo fece di "Vento largo" su "L'Indice".
Nico Orengo
"Andiamo, andando". Con il passo lento e cadenzato sulle asprezze del terreno scosceso dei pascoli di Provenza, Francesco Biamonti ci ha dato, otto anni dopo il suo primo romanzo "L'angelo di Avrigue", una nuova narrazione. Quell'"Andiamo, andando", che pronuncia uno dei personaggi del ligure Biamonti, esprime la misura della sua scrittura. Una scrittura che si fa meditando sulla scrittura e bruciando nell'atto di stenderla. Francesco Biamonti è scrittore molto colto, uomo che ha letto tutti i libri, che ha accettato la leggenda di essere, laggiù, nell'ultima Liguria, fra Bordighera e la frontiera, un "coltivatore di mimose" per pubblicare il suo primo libro e incuriosire, con la carta dell'insolito mestiere, i primi lettori dell'industria editoriale. Ricordo che per "attirare l'attenzione" di Giulio Einaudi sul dattiloscritto de "L'angelo di Avrigue" gli dissi che per quella sua mimosa che soffriva contro il muro del castello di Perno avevo un coltivatore ligure di mimose che, tra l'altro, aveva scritto un bel romanzo. E Biamonti, allora, con prosa alta e nitida, parlando di "chelato di ferro" e spiegando che "il chelato era fotofobo", stese una relazione sulla malattia della mimosa di Einaudi. Il che permise poi l'invio del manoscritto e una lettura della Ginzburg, sfavorevole, e una di Calvino, favorevole.
In realtà Biamonti è un 'flaneur' della notte, un ex bibliotecario della ventimigliese Aprosiana, un lettore di filosofia e poesia, divoratore di cultura francese e spagnola. E un attento conoscitore di pittura. È la pittura a nutrire, di continuo, la sua visione, da Morlotti a Cézanne a de Staël.
Se con "L'angelo di Avrigue" Biamonti aveva raccontato i frammenti di un giallo, con un ragazzo morto per droga, un marinaio colpito dal male dell'orizzonte, in "Vento largo" lo scrittore affronta il tema del gelo e dell'abbandono.
Varí ha le terre bruciate dal freddo: non vale più la pena di riprendere a coltivarle. Si lascia attrarre dalla proposta di Sabel, a cui è morto il padre, vecchio 'passeur' di clandestini, di tener fede agli ultimi impegni: indicare e portare, attraverso gli impervi passi, gruppi di disperati verso l'agognata Francia. Varí, affascinato da Sabel, accetta. E inizia quel pericoloso, solitario lavoro, muovendosi nella notte e fra le rovine di un paesaggio dove tutto sta morendo, paesi natura. Una morte che tocca anche gli uomini, persi nella vecchiaia, nell'instabilità affettiva, nello spaesamento individuale che li fa muovere verso lontani orizzonti o bruciare negli inferni della droga. Varí cammina, affronta i passaggi. Lo tiene in viaggio il sorriso dolente di Sabel. E, quando lei scomparirà, sottraendosi al suo sguardo, la cercherà sui grandi altipiani di lavanda che incendiano i cieli di Provenza, sul mare. Ma senza troppa convinzione, sicuro che la libertà di restare o andare, esserci o non esserci, è, troppo privata e grande per cercare di mutarla. Biamonti racconta, attraverso una lingua lirica sempre alta, al massimo dei giri, che rischia e la maniera ("Povero cane da pastore, ridotto a cane da passeur da quattro soldi, tu pensi che la rivedremo, con quei suoi occhi chiari d'oltremare, di cielo toccato dal bianco eterno delle nevi?") una Liguria tramontata, perduta. Una Liguria riscoperta, molto dopo gli inglesi, da tedeschi e olandesi, in cerca di rifugio e nicchie nelle quali sopravvivere, alla meglio, tirando su ristoranti, allestendo barche per turisti, spargendo droga. È la Liguria estrema dei 'passeurs', dei valichi clandestini, sconfitti ormai, dalla grande Autostrada dei Fiori, sulla quale si svolge il commercio dei passaggi e degli intrighi.
È, la Liguria di Biamonti, quella degli anni cinquanta e sessanta, una Liguria di roccia umida, muschiosa, dove i paesi si trasformavano in cascate d'acqua, in morgane di sabbia. E Biamonti la racconta nei suoi colori di luci e ombre, ma, si direbbe, guardandola non già dov'è, ma dove è già stata riportata: nei cieli di Cézanne, nella roccia di Morlotti, fra le ali dei gabbiani ("Intonacati d'aria") di de Staël. Un paesaggio materico, un paesaggio di pittura. Ed è in quei pittori che Biamonti riconosce Liguria e terra di Provenza e ritrasforma in emozioni e ferite dolenti.
Non bisogna dunque cercare in "Vento largo" una storia forte, una struttura robusta. Si direbbe che a Biamonti non interessi, i suoi sono personaggi di vento, vanno e spariscono, si muovono e s'afflosciano, vengono avanti e deviano improvvisi. Non sempre, come il vento, c'è un perché a sorreggerli. Così, è leggera la trama che lascia intravedere strappi e necessità di qualche punto di sutura, soprattutto verso la fine, dalla fuga di Sabel al suo misterioso eremo. Ma a Biamonti interessa la lingua e non la storia, scoprire i nervi della parola e ascoltarli battere. Pietre "conchillifere", "giomeruli", il "chelato era fotofobo", scienza della parola e parola della scienza, trovano in Biamonti un abilissimo, sincero, artigiano, al limite del virtuosismo, colmo d'echi e schegge sbarbariana.
Biamonti scarnifica il linguaggio, lavora in levare, vorrebbe comportarsi come la luce che descrive: "divorava i suoi stessi riflessi e lasciava le cose nette..." Se questo è l'obiettivo, gli auguriamo di arrivarci, magari con un po' più di pazienza, con meno ansia di "chiudere" il libro: un romanzo è un po' come una casa, ha corridoi, sottoscala, cantine; luoghi che non sempre si vedono, ma sono passaggi e fondamenta e fanno la costruzione.
(Da: L'Indice, 1991, n. 5)