TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 12 ottobre 2011

Letteratura e Resistenza: "Il sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino



Nel 1947 presso Einaudi esce "Il sentiero dei nidi di ragno", primo romanzo di Italo Calvino, uno dei libri più belli sulla Resistenza, in cui la guerra (e le sue atrocità) è raccontata attraverso lo sguardo di un bambino che, pur partecipando agli avvenimenti, fa fatica a comprendere ciò che accade. Nel 1964 ne uscì una nuova edizione riveduta a cui Calvino, ormai autore affermato, aggiunse una lunga prefazione che ancora oggi resta fondamentale per comprendere le motivazioni profonde del suo scrivere, e di cui presentiamo alcuni passaggi.

Italo Calvino

Dalla Prefazione all'edizione del 1964 de "Il sentiero dei nidi di ragno"

Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un'opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d'un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo.Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d'una sua eredità.

Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt'altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l'accento che vi mettevamo era quello d'una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo.

Questo ci tocca oggi, soprattutto:la voce anonima dell'epoca,più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte.L'essere usciti da un'esperienza guerra,guerra civile che non aveva risparmiato nessuno,stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico, si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca.La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d'olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; A grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d'altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie.

Chi cominciò a scrivere allora si trovò cosi a trattare la medesima materia dell'anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s'aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un'espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d'effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all'origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio.

Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare universalìtà dei contenuti, non era lì la molla (forse l'aver cominciato questa prefazione rievocando uno stato d'animo collettivo,mi fa dimenticare che sto parlando di un libro, roba scritta, righe di parole sulla pagina bianca); al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sape­re o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed era­vamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali,parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavo­lozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere.

Il "neorealismo" per noi che cominciammo di li, fu quello;e delle sue qualità e difetti questo libro costituisce un catalogo rappresentati­ vo, nato com'è da quella acerba volontà di far letteratura che era pro­prio della «scuola».Perché chi oggi ricorda il «neorealismo» soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione:in realtà gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica,come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo.




Il «neorealismo» non fu una scuola.(Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una mol­teplice scoperta delle diverse Italie, anche o specialmente delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra o che si supponevano sconosciute, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo».Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco.La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia america­na in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d'essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo sti­le il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro reali­smo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo.Ci eravamo fatta. una linea, ossia una specie di triangolo:I Malavoglia,Conversazione in Sicilia, Paesi Tuoi, da cui partire,ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio. (Continuo a parlare al plurale, come se alludessi a un movimento organizzato e cosciente, anche ora che sto spiegando che era proprio il contrario. Come è fa­cile, parlando di letteratura, anche nel mezzo del discorso più serio, più fondato sui fatti, passare inavvertitamente a contar storie... Per questo, i discorsi sulla letteratura mi dànno sempre più fastidio quelli degli altri come i miei. (...)

Questo romanzo è il primo che ho scritto.Che effetto mi fa,a rileggerlo adesso? (Ora ho trovato il punto: questo rimorso. di qui che devo cominciare la prefazione). Il disagio che per tanto tempo questo libro mi ha dato in parte si è attutito, in parte resta: è il rapporto con qualcosa di tanto più grande di me, con emozioni che hanno coinvolto tutti ì miei contemporanei, e tragedie, ed eroismi, e slanci generosi e geniali, e oscuri drammi di coscienza. La Resistenza; come entra questo lìbro nella Letteratura della Resistenza»?

Al tempo in cui l'ho scritto, creare una letteratura della Resistenza era ancora un problema aperto, scrivere «il romanzo della Resistenza» si poneva come un imperativo; a due mesi appena dalla Liberazione nelle vetrine dei librai c'era già Uomini e no di Víttorini, con dentro la nostra primordiale dialettica di morte e dì felicità; i «gap» di Milano avevano avuto subito il loro romanzo, tutto rapidi scatti sulla mappa concentrica della città; noi che eravamo stati partigiani di montagna avremmo voluto avere il nostro, di romanzo, con il nostro diverso ritmo, il nostro diverso andirivieni...

Non che fossi così culturalmente sprovveduto da non sapere che l'influenza della storia sulla letteratura è indiretta, lenta e spesso Contraddittoría; sapevo bene che tanti grandi avvenimenti storici sono passati senza ispirare nessun grande romanzo, e questo anche durante il «secolo del romanzo» per eccellenza; sapevo che il grande romanzo del Risorgimento non è mai stato scritto... Sapevamo tutto, non eravamo ingenui a tal punto: ma credo che ogni volta che sì è stati testimoni o attori d'un'epoca storica ci si sente presi da una re­sponsabilità speciale…

A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere soggezione dal tema, decisi che l'avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d'un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventaì una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l'aspro sapore, il ritmo.

(...)


Italo Calvino
Il sentiero dei nidi di ragno
Oscar Mondadori
9 euro