TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 27 dicembre 2013

La città sulla costa (Le illusioni d'Itaca 4)


Continua il viaggio nel passato del marinaio senza nome. Quarto capitolo de Le illusioni d'Itaca.

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

4. La città sulla costa



Il giorno dopo si alzò di buon mattino. La montagna sopra il bosco era invisibile nella nebbia lattiginosa dell'alba. Si preparò in fretta, accese la prima sigaretta della giornata e uscì nella frescura mattutina. Prese di dietro alla casa per un viottolo che scendeva fra le fasce. Andava tra muri d'orti con passo deciso senza pensare a nulla. Tutto attorno a lui era silenzio, solo, a tratti, giù nella valle, vicino al torrente, si sentiva il richiamo dei tordi. Questa volta non attraversò il paese, ma si fermò sulla piazza accanto alla corriera dei pendolari che sostava in attesa dei rari passeggeri. Dalla piazza la montagna ora si vedeva nitidamente. Si distingueva anche la croce che ne sovrastava la nuda cima, segno di un'antica devozione ormai irrimediabilmente perduta. Piano piano il paese si risvegliava. Dal fremito improvviso di una tendina si accorse che da una vecchia casa lì accanto un volto lo sbirciava incuriosito.

Entrò nel bar per fare colazione. Il viso del proprietario che dietro il bancone smanettava alla macchina del caffè, gli era sconosciuto, né questi mostrò a sua volta di riconoscerlo. Si sentì sollevato.
  • Meglio così – pensò. Gli sarebbe stato insopportabile raccontare di sé, dare spiegazioni.
Più tardi, mentre in auto percorreva la carrozzabile lungo il torrente, pensava alla sua gioventù, agli anni passati a studiare in città, quando era stato costretto ogni giorno a quell' andirivieni. Altri tempi, forse anche altri luoghi. Anche se, vista dal finestrino, la valle non gli pareva poi tanto diversa da allora, fatta eccezione per gli immigrati (in prevalenza arabi e albanesi) che solitari o a gruppi vedeva frettolosamente dirigersi verso le serre e i capannoni industriali sorti a decine al posto dei vecchi orti. Simboli di una modernità invadente, che nulla pareva ormai poter arrestare. Vittime rassegnate, consapevoli della loro alterità, quegli uomini camminavano curvi nel mattino, il capo abbassato, i pugni serrati nelle tasche. Quella vista lo turbò. Immutata, pur nel cambiare delle cose, gli apparve la tristezza di quei luoghi, indelebilmente segnati anche nell'opulenza consumistica dell'oggi dall'antica povertà di un tempo. Una miseria che l'austera bellezza dei borghi, che punteggiavano le colline, non era mai riuscita del tutto ad annullare e che ora la presenza stessa di quegli sventurati riportava allo scoperto.

L'irrompere impetuoso dei ricordi, che non riusciva a fermare, lo costrinse a ripensare a cosa avevano rappresentato per lui quegli anni lontani, a ricordare che vi era stato un tempo in cui anch’egli aveva creduto possibile il cambiamento. Erano stati giorni febbrili. Giorni di speranza. Giorni passati. Egli, che aveva visto deserti ed oceani, aveva ormai da molto nel suo cuore strappata ogni immagine del mondo che non fosse solitudine e silenzio. Da tempo per lui le parole non significavano più nulla, non avevano più respiro le cose. Era come se l’avvenire non esistesse più, come se si fosse condannato a vivere in un presente senza fine.

In città cercò di sbrigare in fretta i suoi affari. Questo era d'altronde il motivo per cui era tornato. Doveva risolvere vecchie questioni legate alla proprietà di poche fasce e della casa. Faccende senza alcun interesse per lui, ma che andavano ora sbrigate, possibilmente in fretta, se voleva davvero vendere tutto e andare via per sempre da quei luoghi. Nell'ultimo ufficio che gli toccò di visitare (ed era ormai quasi mezzogiorno) gli venne da sorridere al pensiero di sé stesso ordinatamente in fila in attesa di essere intrattenuto da un impiegato scorbutico, palesemente poco interessato al suo lavoro. Lui che per tutta la vita aveva evitato con la massima cura ogni contatto con quel mondo fatto di pratiche codificate, di moduli in triplice copia, di timbri e di lunghe, pazienti attese. Lui che, interrotti gli studi, se ne era andato per mare in cerca di una libertà impossibile intravista sui libri. Lui, capace di vivere di niente, pur di restare padrone di se stesso.

Uscito dall'ufficio, trovò ad attenderlo un traffico caotico ed un acre sapore di zolfo che prendeva alla gola. Il rumore e l'odore della strada, unitamente al caldo soffocante lo misero di cattivo umore, piegò allora verso la città vecchia attirato dall'invitante ombra dei vicoli. Svoltato l'angolo non si sentivano più i rumori del traffico, né il puzzo dei tubi di scappamento, ma solo odori di cibo, echi di conversazioni, scampoli di trasmissioni televisive che fuoriuscivano dalle finestre delle case e si riversavano in strada in un impasto di suoni e sensazioni che gli ricordavano altri luoghi. Posti dove aveva vissuto, dove lasciato una parte di se: i bicos di Alfama, i barrios di Barcellona, i vicoli del Panier proprio dietro al Vieux-Port di Marsiglia. Ancora una volta nei tranelli d'ombra dei carruggi, nel caos babelico delle voci e dei rumori, negli odori forti che lo circondavano sentiva recheggiare misterioso il richiamo archetipico del mare.

Vagava per la città senza una meta precisa. Lungo il viale alberato che portava alla spiaggia i tavolini dei caffè erano affollati di gente intenta al rito provinciale dell'aperitivo. Frotte di impiegati e di commesse sciamavano dagli uffici e dai negozi per la pausa di mezzogiorno. Dappertutto attorno a lui sentiva voci e risa. Una improbabile felicità collettiva lo circondava. In pochi minuti arrivò alla marina tappezzata di ombrelloni. Anche lì tanta folla. Sotto il sole cocente di agosto la spiaggia brulicava di gente. Famiglie intere entravano e uscivano dagli stabilimenti balneari. Sulla passeggiata un bambino correva ridendo dietro ad una tortorella grigia. Attorno ad una panchina un gruppo di giovanissimi discuteva animatamente.

Si fermò davanti ad un piccolo ristorante dall'aria elegante. All'ingresso un cavalletto da pittore sorreggeva un menù del giorno scritto con caratteri ricercati. Si mise con attenzione a leggere la lista dei piatti come lui e Giulia avevano fatto quella sera di tanti anni prima. Ricordava tutto benissimo. Giovani e squattrinati si erano fermati a lungo lì davanti, incerti se entrare o no, intimiditi dall'eleganza del locale. Era stato lui a rompere il ghiaccio, ostentando una sicurezza che non provava.
  • Entriamo? Il menù mi pare eccellente.
  • Vuoi davvero? - aveva chiesto lei, con una certa esitazione - mi sembra un po' troppo per noi. Se vuoi, possiamo cercare un posto più modesto.
  • Figurati. Per questa sera possiamo permettercelo. Entriamo.
Un vecchio cameriere li aveva fatti accomodare a un tavolo d'angolo elegantemente apparecchiato. Ora attendeva pazientemente le loro ordinazioni. Giulia scorreva il menù con l'entusiasmo di una bambina. Lui cercava di capire se gli sarebbe bastato il denaro che aveva in tasca.

La sala era piccola, con quadri alle pareti, separata dalla passeggiata da una grande vetrata. Dalla cucina provenivano le voci dei cuochi. Erano gli unici giovani lì dentro. Gli altri tavoli erano occupati da coppie di mezza età che mangiavano in silenzio senza guardarsi. Loro, invece, per tutta la sera non smisero un attimo di parlare, di ridere, di guardarsi negli occhi.
  • Noi non diventeremo così. - Aveva detto ad un tratto Giulia con voce d'improvviso divenuta seria.
  • No. - Aveva risposto lui - Noi non saremo mai come loro.
Seduto accanto alla vetrata, mangiava meccanicamente senza sentire il sapore del cibo, guardando le macchine parcheggiate e la gente che andava avanti e indietro sul marciapiede. Spiare brandelli di vita altrui e scrivere di sentimenti che non provava più: questo era ormai diventata la sua esistenza. Per questo aveva rinunciato a Giulia. Si sentiva logoro, svuotato. Come se fosse arrivato alla fine di un cammino iniziato tanti anni prima. Forse aveva ragione Paolo: era giunto anche per lui il momento di fermarsi.

Finì di mangiare. Si versò un ultimo bicchiere di vino. Poi chiese che gli portassero il conto.

Dall'altra parte della strada in un turbinio bianco di ali un vecchio gettava croste di pane ai gabbiani che frenetici gli svolazzavano intorno.

(continua)