TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 31 luglio 2014

Parresia Alchemica. Iside e Maria



Iside e Maria alla luce dell'alchimia a partire dall’intuizione junghiana sulla necessità di una integrazione simbolica del femminile all’interno della sfera psichica.

Raffaele K. Salinari

Parresia Alchemica

Il «no» di Iside, il «si» di Maria: la Grande Dea si riflette nello specchio; ora come divinità egiziana, ora come madre del Salvatore, risponde all‘angelo annunciatore attraverso i monosillabi essenziali. «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno» dice anche il Cristo del Vangelo secondo Matteo (5,37).

Questa è la forma che condensa la pratica della parresia, quel «parlare la verità» che fu oggetto delle ultime lezioni di Foucault al Collège de France nel 1984 (Le courage de la vérité).

La verità ed il suo kairos

Il termine venne coniato da Euripide nel V secolo a.C. – età d’oro della democrazia ateniese, quella di Pericle (462-429 a.C.) – con evidenti implicazioni politiche sul funzionamento stesso delle istituzioni democratiche. Nell’Atene di quel tempo il cittadino che interveniva nelle assemblee pubbliche aveva il diritto di dire la sua verità, anche nel caso in cui questa fosse stata contraria alla doxa.

Ma il parresiastes «non è solo sincero nel dire qual è la sua opinione», afferma Foucault, è che in questo modo egli si soggettivizza: diviene soggetto e oggetto della verità che esprime; e così il parresiastes mette in gioco se stesso, fonda il suo spazio-tempo. Ma, avverte Foucault, per la riuscita del processo è fondamentale la presenza dell’«altro» – il maestro, il filosofo, l’amico, il confessore, l’amato – che ci faccia da specchio in questo principium individuationis; una pratica a due. Vedremo come il dialogo con l’«altro» sarà, nel caso degli alchimisti, quello con la Materia stessa.

Per via dell’identità esistenziale tra l’enunciante e l’enunciato, e qui sta l’arcano, la parresia rientra nella sfera di influenza di Kairos, la divinità greca del «tempo opportuno». Un tempo qualitativamente distinto da quello governato da Kronos, il dio vecchio e feroce immortalato nel celebre dipinto di Goya, intento a divorare i suoi figli, geloso del fatidico vaticinio secondo cui uno di essi lo avrebbe spodestato.

L’effige di Kairos è, invece, quella di un bel giovane che avanza rapido sui suoi talari impugnando un rasoio, segno del taglio netto tra il momento del suo comparire e quello della sua scomparsa, della cesura tra un prima ed un dopo.

Questa fuggevolezza diviene anche il motivo della curiosa pettinatura: il dio ha davanti la fronte un bel ciuffo di capelli, per essere afferrato mentre passa; la nuca è invece totalmente calva, poiché una volta fuggito nessuno lo possa riprendere.

Un prezioso bassorilievo, oggi custodito nel Museo municipale di Traù in Croazia, l’antica Tragurium romana, così lo ritrae. Il ragazzo veloce ha talvolta come simbolo una bilancia squilibrata, piegata dalla parte di un tempo che non tiene conto di alcuna ponderazione: il tempo della verità.

La cultura cristiana, a sua volta, ha definito kairos il «tempo scelto da Dio», il momento in cui la divinità decide di agire e cambiare la storia degli uomini. Nella Chiesa ortodossa orientale, prima che la liturgia inizi, il diacono scandisce la formula «kairos tou poiesai to Kyrio», cioè «È tempo che il Signore agisca», dove poiesai significa anche creare, indicando che in quel momento avviene l’incontro con l’Eternità insufflata da Dio nel cuore stesso della Materia.



Alchimia e modernità

La stessa intenzionalità per il «tempo opportuno» in cui viene emanata la Creazione e la sua verità ultima, il suo eskaton, è al cuore del processo che vede l’alchimista, il Filosofo della Natura, cercare con le sue pratiche di rettificarne il «principio vitale materiale», l’archeus come lo definiva Paracelso, e condurlo così alla parusia, la piena realizzazione dei suoi attributi sostanziali.

L’Opus magnum e la sua Pietra filosofale, infatti, altro non sono che l’«altro» che necessita al parrestiates-alchimista per diventare tutt’uno con la verità; dispositivi che inverano e verificano la possibilità di portare a compimento il télos del suo essere, trasmutandolo, nel «tempo opportuno», verso lo stato di perfezione.

Sul piano «metallico» questo significa la sintesi dell’Oro alchemico, l’elemento mistico perfetto ed incorruttibile, metafora di ogni evoluzione materiale. Trasposto specularmente sul piano della vita umana, l’alchimista mira alla Redenzione, cioè alla perfezione dello Spirito che finalmente riesce nel suo compito: riunire anima e corpo.

Ma tutto questo resterebbe confinato nella storia delle arti esoteriche se non fosse per il fatto, come afferma Françoise Bonardel, che l’Opus magnum è invece una visione del Mondo in contrapposizione con la modernità. Nel suo Philosophie de l’alchimie la definisce come «concreta assunzione di responsabilità per l’insieme del Mondo»; un «lavoro filosofale» in risposta al «percorso filosofico» che ci ha portato a distruggere ed umiliare la sacralità della Materia, e dunque di noi stessi come parte senziente di essa.

È ancora l’alchimia, intesa come pratica di cura e manutenzione del Mondo, che, rivisitata alla luce delle differenze di genere, permette di leggere in chiave politico-ecologica l’intuizione originaria di Jung sulla necessità di una integrazione simbolica del femminile all’interno della sfera psichica; per completare così, in maniera olistico-ecologica, il nostro processo di individuazione.

Afferma ancora Bonardel che la ripresa della «filosofia alchemica» può mettere fine all’unilateralità di una episteme – che si suppone essere quella quasi unanime nella modernità – di scissione tra soggetto ed oggetto, ricomponendo la matrice simbolica di una «prassi dell’alleanza» con le forze vive della Creazione. Un’alleanza, e non una competizione o una sottomissione, per dirigere finalmente lo sguardo verso l’essenza delle cose finite.



Questa «verità della Madre Materia» come diceva Giordano Bruno, ha dunque bisogno di un tempo opportuno, cairologico, in cui si compiono le operazioni di coagulazione e dissoluzione – il solve et coagula cuore della pratica alchemica – affinché le fasi dell’Opera possano maturare così da portare ad effetto il ricongiungimento: l’annullamento, simboleggiato dal Rebis filosofico, l’androgino ermetico, delle dualità che esistono tra materia e anima, visibile ed invisibile, immanente e trascendente, per ricomporle finalmente in dualitudini: coppie di opposti non oppositivi che rendono manifesta l’Unità primigenia del Creato, scopo ultimo del magistero alchemico.

L’alchimista dunque, stabilisce, come parresiastes, un patto tra sé e la verità mistica che dorme nella Madre Materia, l’«altro» o meglio l’«altra», con la quale egli è in dialogo.

E allora, operare con la materia ed attraverso la materia nel tempo giusto, implica saggiarne la capacità di sciogliersi e rapprendersi; questo rimanda, per il fatto che la materia operata trasforma a sua volta l’operatore e viceversa, alla volontà dell’alchimista di mettere nell’Athanor se stesso: considerare le proprie impurità come parte della «prima materia».

Da qui il punto di partenza della trasmutazione interiore – il neidan alchemico taoista – il cui obiettivo è la pienezza del nostro stesso esistere; ex-sistere cioè essere in atto consapevolmente per il tempo che ci è dato.

Zosimo di Panopoli (IV secolo), sostiene che tutta l’alchimia dipende dal kairos, e definisce le operazioni alchemiche kairikai baphai, tinture di kairos. Egli teorizza che i processi non avvengono da sé, ma soltanto nella giusta congiunzione astrologica.

David di Dinat, filosofo panteista del XIII secolo, difeso da Bruno ed avversato da Tommaso d’Aquino nella Summa contra Gentiles (I, 17), sostiene che la Materia sia «cosa eccellentissima e divina», come ribadirà nei suoi dialoghi De la causa, Principio et uno il monaco di Nola, e gli sarà fatale: sarà mandato al rogo in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600.

Qui troviamo il nucleo moderno di quella teoria delle corrispondenze tra micro e macrocosmo che verrà sviluppata più tardi da Paracelso e dall’alchimia rinascimentale. La sintonia, di stampo neoplatonico, tra il tempo soggettivo e quello planetario, al quale l’alchimista deve per così dire accordare i suoi gesti operativi, riduce poi ulteriormente l’intervallo tra soggetto ed oggetto, tra operatore e materia operata, contribuendo in questo modo all’identità dell’Opera con l’operatore.

Ecco che, come nella parresia e nel messaggio evangelico, la Madre Materia dispiega alchemicamente la sua verità tra un «no» e un «si», in altre parole tra un resistere (coagula) ed un concedersi (solve).

E dunque ripercorriamo la storia di un «si» e di un «no» pronunciati da due personaggi femminili, entrambe ipostasi della stessa Grande Madre, che agiscono con modalità speculari perché operano e sono operate in momenti diversi della storia del Mondo: l’antico Egitto e la Cristianità.

Vedremo come il «no» pronunciato da Iside alle avances sessuali dell’angelo che le offre il segreto dell’«acqua scintillante» corrisponde analogicamente al «si» sussurrato da Maria di Nazareth di fronte al messaggio di quello dell’Annunciazione.

Iside e Maria: due donne divine che rappresentano, in forme distanti nel tempo ma non distinte nell’essenza, il medesimo femminino totipotente, la matrix paracelsiana capace di portare ad effetto e far coincidere la causa materiale con quella finale.

La falce di luna comune ad entrambe, simbolo dell’eterno rinnovarsi delle cose, così come la loro verginità, cioè il numinoso intangibile ed immodificabile insito nella Materia cosmogonica di cui sono immagini – «nessuno ha mai sollevato il mio velo» dice Iside, di Maria Immacolata la purezza è provata dai suoi contemporanei con l’ordalia dell’acqua amara – testimoniano sul piano metastorico la loro sostanziale identità.

Sulla parete esterna occidentale della chiesa del Crocefisso, la prima delle cosiddette Sette Chiese di Santo Stefano in Bologna, è ancora visibile la lapide marmorea che titolava l’originale tempio romano ad Iside Vittoriosa.



Iside dice di no all’angelo

Il Codex Marcianus è un voluminoso manoscritto alchemico conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia; sulla copertina è possibile osservare l’effigie dell’Uroboro – il serpente che si morde la coda (da oura coda e boros che morde) simbolo dell’eterna rinascita come dell’unità della materia – che racchiude la scritta En to Pan, cioè nell’Uno il Tutto, e diverse altre simbologie riferite all’arte della trasmutazione ed ai suoi apparecchi.

Un testo greco qui contenuto è intitolato La Profetessa Iside a suo Figlio. Si tratta di uno scritto risalente all’incirca al I secolo a.C.; sotto il titolo è visibile il simbolo della falce di luna. La metafora utilizzata per cifrare il processo operativo è quello di un episodio centrale della mitologia egizia: la storia che narra della famosa battaglia in cui Seth, che rappresenta il caos distruttivo della brutalità, si batte contro Horus, divinità solare dell’ordine ricostituito, figlio di Iside ed Osiride.

Nel testo alchemico Iside così esordisce: «Oh, figlio mio, quando tu decidesti di andare a combattere il perfido Tifone [Seth] per il regno di tuo padre [Osiride], io mi recai a Hormanouthi, cioè a Hermopolis, la città di Hermes [il dio Thot], la città egizia della sacra arte [l’alchimia], e vi rimasi qualche tempo. Dopo un certo passaggio dei kairoi [il necessario movimento della sfera celeste], accadde che uno degli angeli che abitavano nel primo firmamento mi vide dall’alto e venne a me desiderando congiungersi carnalmente. Aveva gran fretta che l’unione avesse luogo, ma io gli dissi no. Resistetti, perché volevo interrogarlo sulla preparazione dell’oro e dell’argento. Quando gli feci la domanda, replicò che non intendeva rispondermi poiché si trattava di un mistero capitale, ma disse che sarebbe tornato il giorno seguente e avrebbe portato con sé Amnael, un angelo più grande, il quale sarebbe stato in grado di rispondermi e di risolvere il mio problema. Ed egli mi disse qual era il suo segno [cioè in che modo Iside avrebbe potuto riconoscerlo] e che mi avrebbe portato e mostrato, reggendolo sul capo, un vaso di ceramica pieno d’acqua scintillante. Egli [l’altro angelo] intendeva dirmi la verità. Il giorno seguente, quando il sole era a mezzo del suo corso, scese dal cielo l’angelo che era più grande del primo, e fu preso dallo stesso desiderio di me e aveva gran fretta [di soddisfarlo]. Ciononostante io volevo solo fargli la mia domanda. Quando stette con me non mi diedi a lui. Gli dissi di no e vinsi il suo desiderio finché non mi mostrò il segno sul suo capo e mi consegnò la tradizione dei misteri, in piena verità e senza nasconder nulla. [A questo punto Iside vince la battaglia e l’angelo le rivela tutto ciò che sa sulla tecnica dell’alchimia]. Indicò poi nuovamente il segno, il vaso che portava sul capo, e cominciò a rivelarmi i misteri e il messaggio. Dapprima pronunziò il gran giuramento e disse: “Giuro, in nome del Fuoco, dell’Acqua, dell’Aria e della Terra; giuro in nome della Sommità del Cielo e della Profondità della Terra e degli Inferi; giuro in nome di Hermes e di Anubi, dell’ululato di Kerkoros e del drago guardiano; giuro in nome della barca e del traghettatore Acharontos; e giuro in nome delle tre necessità, e delle fruste e della spada”. Dopo che ebbe pronunciato il giuramento, lo fece ripetere anche a me e mi fece promettere che non avrei mai rivelato a nessuno il mistero che stavo per ascoltare, tranne a mio figlio, al mio bambino, e al mio più intimo amico, così che tu sei me, e io sono te».

E dunque Iside ottiene il segreto della trasmutazione resistendo alle offerte sessuali dell’angelo; una modalità che obliquamente ricorda quella di Sherazade nelle Mille e una Notte…

Qui la metafora ci dice che chi voglia giungere al compimento deve resistere alle forze che cercano di distoglierlo dal retto sentiero attraverso le lusinghe di una strada puramente sensuale, priva di salda convinzione dottrinale e retta volontà. È il cedimento di coloro i quali intraprendono l’Opera per ottenere facili guadagni materiali, dimentichi della posta in gioco spirituale. In questo senso si sviluppa anche il significato nascosto dall’allusione sessuale vera e propria: la Materia non concederà le sue grazie, cioè non si darà all’operatore, se non quando questo sarà in grado di trarre da lei il segreto con le giuste manipolazioni: mostrandosi all’altezza del potere insito nelle trasmutazioni. Eros, come agente del cambiamento, è da sempre il daimon che sovraintende questo tipo di operazioni catalizzate, ma non certo limitate, alla sfera sessuale.

Qui il tempo cairologico è una componente centrale; senza la capacità di saper aspettare il momento opportuno nessuno svelamento è possibile. Anche se l’angelo si mostra ansioso di accoppiarsi con Iside, non dobbiamo pensare che la divinità non lo sia altrettanto; ma ella ha compreso che solo sapendo attendere avrà il suo premio.



Il si di Maria

Assolutamente speculare, e dunque analoga, è la postura assunta da Maria di Nazareth che, non a caso, trasmette lo stesso nome a quella Maria la Giudea, vissuta tra il primo ed il terzo secolo forse ad Alessandria d’Egitto, che per prima ha descritto concretamente alcune operazioni alchemiche ancora oggi titolate a suo nome, tra cui il celebre «bagno Maria».

E dunque: «Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine. Allora Maria disse all’angelo: come è possibile? Non conosco uomo. Le rispose l’angelo: lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio. Allora Maria disse: eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto. E l’angelo partì da lei».

Maria di Nazareth simboleggia la Madre Materia che si «lascia impregnare» dal solvente universale per sua stessa volontà; anche il suo «si», come il «no» di Iside, è pronunciato nel kairos, il momento opportuno alla fecondazione, quando l’anima può prendere posto nel suo involucro di materia, nel suo «vestito di carne» dice Francesco d’Assisi.

La metafora della fecondazione, comparsa per la prima volta nell’alchimia bizantina, così viene descritta nel Testamentum attribuito allo pseudo Raimondo Lullo per richiamare lo stile del monaco alchimista spagnolo vissuto nel XIII secolo: «Dunque figliolo, devi comprendere che nella prima cottura, quando avviene il coito e l’unione per amore della natura, allora si ottiene la prima mescolanza, unendo il corpo e lo spirito, affinché si accordino e le loro qualità si mescolino formando un composto delle virtù elementari dell’uno e dell’altro in forza del concepimento che fa dei due uno….».

Maria è dunque il «corpo perfetto per il coito perfetto» dal quale può nascere la Pietra della trasmutazione, il Lapis-Cristo, «pietra scartata dai costruttori che diviene testata d’angolo» (Salmo 117, 22-23).

Ma, nella simbologia esoterica alchemica, la congiunzione dello Spirito Santo con la Vergine di Nazareth rappresenta la ricomposizione dell’antica Unità che vedeva nella Grande Dea primigenia la scaturigine del tutto. Solo il patriarcato ecclesiale l’aveva scomposta nei due aspetti per rendere la figura femminile subalterna.

L’epistemologa femminista Evelyn Fox Keller, nella sua introduzione a Genere e Scienza, evidenzia come il «si» mariano alla congiunctio apre la porta ad un nuovo approccio che annulla la distanza tra la verità della mente e quella del corpo; dove per «corpo» si intende il codice comunicativo di tutti i fenomeni prelinguistici con i quali comunque dobbiamo negoziare la nostra permanenza sulla Terra.

Nella stessa prospettiva James Hillman ammette che «nella scienza moderna la femminilità della materia non può mai essere realmente riconosciuta» e che in questo modo il metodo galileiano si rivolta contro se stesso; dunque «la scienza attuale non può vedere le cose che l’alchimia vedeva».

Infine, come nella simbolica cristiana l’Annunciazione è aurora della nuova creazione, kairos scelto da Dio per irrompere nello spazio della storia, così per l’alchimista il momento della trasmutazione finale, l’Opera al Rosso, coincide con la sua intima transustanziazione: l’umile villaggio di Nazareth non è Gerusalemme; l’annuncio della nascita del Messia viene fatto a Maria in un luogo insignificante della semi-pagana Galilea che né Flavio Giuseppe né il Talmud nominano.

Nello stesso modo e momento, compiuta l’Opera, l’umile dimora dell’alchimista, improvvisamente, diventa il centro del Mondo.


Il manifesto Alias – 21 giugno 2014