TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 6 agosto 2017

Italo Calvino, partigiano del Ponente ligure


Dai ricordi di Italo Calvino la storia di un giovane di Sanremo dal rifiuto del fascismo alla militanza partigiana.

Giorgio Amico

Italo Calvino, un partigiano del Ponente ligure


Tutti conoscono, magari per vaghi ricordi scolastici, Il sentiero dei nidi di ragno, il romanzo sulla Resistenza di Italo Calvino, pochi invece sanno che lo scrittore sanremese fu un valoroso partigiano proprio nelle zone, l'entroterra fra Sanremo e Imperia, dove è ambientato il libro. Eppure lo scrittore, come i liguri sempre molto restio a parlare di sé, raccontò in diverse occasioni dell'esperienza partigiana, considerata lo snodo fondamentale della sua vita anche letteraria:

«Sono nato il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, un villaggio nei pressi dell'Avana, dove mio padre, ligure di Sanremo, agronomo, dirigeva una stazione sperimentale d'agricoltura, e mia madre, sarda, botanica, era la sua assistente. Di Cuba non ricordo nulla, purtroppo, perchè nel 1925 ero già in Italia, a Sanremo, dove mio padre era tornato con mia madre a dirigere una stazione sperimentale di floricultura. (…) Ho vissuto con i miei genitori a Sanremo fino a vent'anni, in un giardino di piante rare e esotiche, e per i boschi dell'entroterra con mio padre, vecchio instancabile cacciatore. Arrivato all'età di entrare all'Università, mi iscrissi in agraria, per tradizione familiare e senza vocazione, ma già avevo la testa alle lettere. (…) Intanto era venuta l'occupazione tedesca, e, secondando un sentimento che nutrivo fin dall'adolescenza, combattei coi partigiani, nelle Brigate Garibaldi. La guerra partigiana si svolgeva negli stessi boschi che mio padre m'aveva fatto conoscere fin da ragazzo; approfondii la mia immedesimazione in quel paesaggio, e vi ebbi la prima scoperta del lancinante mondo umano. Da quell'esperienza nacquero, qualche mese dopo, nell'autunno del '45, i miei primi racconti (…) [e] un romanzo ([scritto] in venti giorni, nel dicembre '46) intitolato Il sentiero dei nidi di ragno, e così prese forma quel mondo poetico dal quale bene o male non mi sono più discostato di molto».

Italo Calvino cresce in una famiglia antifascista. I genitori, entrambi docenti universitari, sono repubblicani e mazziniani, pacifisti e, come si diceva allora, liberi pensatori. Il loro rifiuto del regime è netto:

«Sono cresciuto – scrive nel 1960 - in una cittadina che era piuttosto diversa dal resto dell'Italia, ai tempi in cui ero bambino: Sanremo, a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto insolita sia per Sanremo sia per l'Italia d'allora: i miei genitori erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse tra loro ed entrambe all'opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiano e poi socialista riformista (…) mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel '15, ma con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia dopo anni all'estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un'Italia diversa, difficilmente comprensibile. (…) La critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza, l'incompetenza, l'ingordigia, la soppressione della libertà di critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto su due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la conciliazione col Vaticano».

Fin da bambino Italo, sentendo i discorsi dei grandi in casa, guarda con fastidio alla retorica e ai riti del regime: le sfilate, le divise, i canti, l'esibizione delle armi e delle virtù guerresche. Ma questo sentimento di rifiuto non prende immediatamente una chiara forma politica. Lo riconoscerà lui stesso:

«Ma non è affatto detto che per questo la mia via verso l'antifascismo fosse segnata. Ero allora ben lontano dal prospettare la situazione in termini politici».

Quello che cambia radicalmente la situazione e che determina la sua definitiva scelta di campo è la guerra:

«L'estate in cui cominciavo a prender gusto alla giovinezza, alla società, alle ragazze, ai libri, era il 1938: finì con Chamberlain e Hitler e Mussolini a monaco. La «belle époque» della riviera era finita. Ci fu un anno di batticuore, poi la guerra sulla Maginot, poi il crollo della Francia, l'intervento dell'Italia, i bui anni di lutti e di disastri».

    Tesserino partigiano

Il crollo del fascismo e poi la disfatta dell'8 settembre sono il vero momento di svolta. Anche per Calvino arriva il momento delle scelte. Quando vengono affissi i manifesti con la chiamata alle armi della classe 1923, Calvino non si presenta e rimane nascosto per qualche tempo sulle colline a monte della città per poi prendere definitivamente la via dei monti. Sono momenti difficili, non si può rimanere spettatori inerti, occorre decidere da che parte stare:

«Al 25 luglio – ricorda - ero rimasto deluso e offeso che una tragedia storica come il fascismo finisse con un atto d'ordinaria amministrazione come una deliberazione del Gran Consiglio. Sognavo la rivoluzione, la rigenerazione dell'Italia nella lotta. Dopo l'otto settembre fu chiaro che questo vago sogno diventava realtà: e io dovetti imparare come è difficile vivere i propri sogni ed esserne all'altezza».

Così, assieme al fratello, entra a far parte di una formazione partigiana stanziata fra Baiardo e Ceriana. Poi con alcuni studenti suoi amici entra a far parte del 16° Distaccamento della IX Brigata Garibaldi, comandato da Bruno Luppi (Erven), nel dopoguerra insegnante a Savona, figura importante della Resistenza. Nell'estate 1944 la situazione si fa particolarmente dura con la battaglia di Sella Carpe durante la quale Luppi rimane gravemente ferito e i garibaldini subiscono forti perdite, a cui seguono violenti rastrellamenti da parte delle truppe nazifasciste e l'incendio dei paesi di Triora e di Molini. Il 5 settembre Calvino partecipa alla difesa di Baiardo e poi il primo ottobre 1944, entra a far parte del Distaccamento partigiano comandato da Jaures Sughi (Leone), formazione della Brigata Cittadina GAP “Giacomo Matteotti”, che opera sulle colline intorno a Sanremo, a sua volta comandata da Aldo Baggioli (Cichito). Il 15 di novembre i tedeschi rastrellano la zona di San Romolo, a monte di Sanremo. Calvino viene arrestato ma, per un fortuito caso, è risparmiato e, dopo tre giorni di carcere riesce a fuggire. Subito raggiunge la V Brigata Garibaldi “Luigi Nuvoloni” che fa parte della II Divisione “F. Cascione”. In un suo scritto degli anni Sessanta Calvino ricorda la durezza della lotta e la figura straordinaria della madre che esorta i figli alla lotta incurante delle violenze naziste:

«Eravamo nel lembo più periferico dello scacchiere resistenziale italiano, privo di risorse naturali, di aiuti alleati, di guide politiche autorevoli; ma esso fu uno dei focolai di lotta più accanita e spietata per tutti i venti mesi e tra le zone che ebbero una percentuale più alta di caduti. (…) Non posso tralasciare qui di ricordare il posto che nell'esperienza di quei mesi ebbe mia madre, come esempio di tenacia e di coraggio in una Resistenza intesa come giustizia naturale e virtù familiare, quando esortava i due figli a partecipare alla lotta armata, e nel suo comportarsi con dignità e fermezza di fronte alle SS e ai militi, e nella lunga detenzione come ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare mio padre davanti ai suoi occhi».

    Attestato degli Alleati

È in questo periodo che il giovane aderisce al Partito comunista. Un'adesione di cuore, prima che di testa, interamente fatta nel nome di felice Cascione, u Megu (il dottore), creatore del canto Fischia il vento e figura straordinaria della Resistenza ligure.

«La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche (…) Quando seppi che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio 1944, chiesi a un amico comunista di entrare nel partito. Subito fui messo in contatto con compagni operai, ebbi compiti di organizzazione degli studenti nel Fronte della Gioventù, e un mio scritto fu ciclostilato e diffuso clandestinamente».

Il 10 marzo 1945 partecipa come portamunizioni all' attacco vittorioso al presidio repubblichino di Baiardo. Ricostruirà la battaglia in un articolo molto bello pubblicato in prima pagina sul Corriere della Sera in occasione del 25 aprile 1974. Nei primi giorni di aprile, si trasferisce con la Brigata al campo di lancio rifornimenti alleati, in Pian Rosso, a monte di Viozene. Nonostante la fine della guerra si avvicini, sono ancora giorni difficili:

«Il fronte più vicino a noi - quello sul confine francese – non accennava a muoversi, da otto mesi, cioè da quando la Francia era liberata, sentivamo rombare a ovest i cannoni del fronte; da otto mesi la libertà era a pochi chilometri da noi, ma intanto la vita dei partigiani sulle Alpi Marittime era diventata sempre più dura perché, come retrovia del fronte, la nostra era di importanza vitale per i tedeschi che dovevano tenere ad ogni costo sgombre le strade; per questo non ci hanno mai dato tregua, né noi a loro; e per questo la nostra zona ha avuto una percentuale di caduti tra le più alte»

Poi, in previsione dell'insurrezione e della liberazione di Sanremo e Ventimiglia, i partigiani scendono a Badalucco a pochi chilometri dalla costa. Proprio lì, quasi alla vigilia della Liberazione, Calvino rischia di essere catturato dai tedeschi:

«Ancora negli ultimi giorni i tedeschi erano venuti di sorpresa e avevamo avuto dei morti. Proprio pochi giorni prima andando di pattuglia era mancato poco che cascassi nelle loro mani. L'ultimo accampamento del nostro reparto, se ricordo bene, era tra Montalto e Badalucco: già il fatto che fossimo scesi nella zona degli uliveti era il segnale di una nuova stagione, dopo l'inverno nella zona dei castagni che voleva dire la fame».

    Primi articoli

Poi, il 25 aprile, la discesa su Sanremo con la sua formazione. Sono momenti esaltanti: dopo tante sofferenze e tanti compagni caduti, i partigiani sono vittoriosi. Nel ricordo l'ultima battaglia diventa quasi una festa: lo scrittore ce ne ha lasciato una descrizione vivissima, quasi fotografica:

«C'era stato un incendio in un bosco: ricordo la lunga fila dei partigiani che scende tra i pini bruciati, la cenere calda sotto la suola delle scarpe, i ceppi ancora incandescenti nella notte. Era una marcia diversa dalle altre nella nostra vita di continui spostamenti notturni in quei boschi. Avevamo finalmente avuto l'ordine di scendere sulla nostra città, Sanremo; sapevamo che i tedeschi stavano ritirandosi dalla riviera; ma non sapevamo quali caposaldi erano ancora in mano loro. (…) Dalle parti di Poggio cominciammo a incontrare sul margine della strada la popolazione che veniva a vedere passare i partigiani e a farci festa. Ricordo che per primi vidi due uomini anziani col cappello in testa che venivano avanti chiacchierando di fatti loro come in un giorno di festa qualsiasi; ma c'era un particolare che fino al giorno prima sarebbe stato inconcepibile: avevano dei garofani rossi all'occhiello. Nei giorni seguenti dovevo vedere migliaia di persone col garofano rosso all'occhiello ma quelli erano i primi».

Oltre che combattere il partigiano Calvino scrive su i giornali clandestini Il Garibaldino, La Nostra Lotta (organo del PCI di Sanremo), poi dopo la Liberazione su La voce della democrazia (organo del CLN di San Remo) e sull'edizione genovese de l’ Unità. Netta la sua scelta di campo. Alla lotta armata deve seguire una nuova battaglia per il rinnovamento democratico e civile di un'Italia devastata dal fascismo prima e dalla guerra poi.

«Nella politica attiva mi trovai immerso naturalmente, alla Liberazione, proseguendo sulla spinta della Resistenza. L'aver fatto il partigiano apparve a me come a molti altri giovani un avvenimento irreversibile nelle nostre vite, non una condizione temporanea come il «servizio militare». Da quel momento in poi vedevano la nostra vita civile come la continuazione della lotta partigiana con altri mezzi; la disfatta militare del fascismo non era che un presupposto; l'Italia per cui avevamo combattuto esisteva ancora solo in potenza, dovevamo trasformarla in una realtà su tutti i piani. Qualsiasi attività volessimo intraprendere nella vita civile e produttiva, ci pareva naturale che fosse integrata dalla partecipazione alla vita politica, ricevesse da essa un senso. (…) Ma per noi che vi aderimmo allora, il comunismo non era soltanto un nodo di aspirazioni politiche: era anche la fusione di queste con le nostre aspirazioni culturali e letterarie. Ricordo quando, nella mia città di provincia, arrivarono le prime copie dell' «Unità», dopo il 25 aprile. Apro l'«Unità» di Milano: vice-direttore era Elio Vittorini. Apro l'«Unità» di Torino: in terza pagina scriveva Cesare Pavese. Manco a farlo apposta erano i due scrittori italiani miei preferiti, di cui nulla conoscevi fino allora se non due loro libri e qualche loro traduzione. E ora scoprivo che erano nel campo che anch'io avevo scelto; pensavo che non poteva essere altrimenti. E così a scoprire che anche il pittore Guttuso era comunista! Che era comunista anche Picasso! Quell'ideale d'una cultura che fosse tutt'uno con la lotta politica ci si delineava in quei giorni come una realtà naturale».

    Italo Calvino in un comizio dopo la Liberazione

In realtà le cose non erano così semplici. La ricostruzione morale e civile del Paese si rivelò un'impresa molto più difficile e contradditoria. Ma, nelle delusioni che pure verranno, resta intatta la lezione fondamentale di libertà e di morale civile della Resistenza: Una Resistenza che non è non tanto rappresentata dai partiti quanto soprattutto dalla gente comune, uomini e donne capaci di reagire con dignità e coraggio all'ingiustizia e all'oppressione. Una fiducia nel popolo, nella capacità di lotta della “gente semplice”che nulla riuscirà mai davvero a scalfire:

«Ciò che chiamiamo Resistenza in molti casi fa parte della memoria familiare, della storia privata prima che pubblica. Questo in qualche misura è vero per tutte le guerre, ma lo è particolarmente in questo caso, dove era meno netta la separazione tra combattenti e popolazione civile, e il comportamento delle donne e degli uomini nella vita quotidiana era il fattore decisivo, il reagire delle persone normali a circostanze eccezionali. (…) Poi vorrei ricordare la disponibilità che c'era ad aiutarci anche tra gente che non si conosceva, solo per venire incontro a chi si trovava nei guai. Questa generosità la si poteva incontrare tra la gente qualsiasi in un tempo pieno di crudeltà e fanatismi, ed era resistenza anche quella, un'anonima resistenza all'imbarbarimento. (…) La Resistenza si presta male alle interpretazioni dottrinarie, la sua realtà era piena di gente semplice e umile e oscura come gli italiani di allora (…). Tutto il contrario di tante cose che sono venute dopo e di cui non mi metto a fare l'elenco perchè in questo contesto non mi sembrerebbe leale. Ma allora – mi si dirà – che cosa ha portato? Che cosa ne è rimasto? C'è uno strato profondo della coscienza d'una società dove si depositano lentamente la memoria delle ferite, la capacità di sopportazione e il rifiuto dell'insopportabile, le allergie, le adattabilità, le costanti tendenziali di lunga durata, le capacità d'equilibrio e di ripresa, il senso di cos'è fasullo e di cos'è vero. E' quello il fondo che si sedimenta e che rimane, mentre tutto il resto farà il suo ciclo e andrà in polvere».


Una fiducia che resta, a decenni di distanza, il lascito fondamentale di un giovane partigiano diventato poi con Beppe Fenoglio, anche lui partigiano, il più grande scrittore dell'Italia del dopoguerra.

(I Resistenti n.2/2017)