TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 21 ottobre 2017

15. Karl Korsch. Gli ultimi anni (1946-1961)



Ultimo capitolo del nostro “Il «rinnegato» Korsch. Storia di un'eresia comunista". Le dieci tesi sul marxismo oggi e il lascito teorico di Karl Korsch.

Giorgio Amico

Gli ultimi anni (1946-1961)


Fin dagli anni giovanili Korsch si era identificato nella classe operaia, ma gli ideali giovanili non passano mai indenni la verifica della realtà. In quattro occasioni la sua vita si incrocia con grandiosi movimenti di massa che paiono porre all’ordine del giorno la possibilità concreta di costruire un ordine sociale superiore: le lotte di classe in Germania negli anni compresi fra il 1918 e il 1923, la rivoluzione russa e la costruzione dello Stato sovietico, la rivoluzione spagnola, la grande stagione di lotte operaie nell’America del New Deal.

Con l’eccezione della Spagna dove comunque l’insorgenza proletaria viene sanguinosamente schiacciata dalla controrivoluzione franchista e stalinista, 1 Korsch si confronta ogni volta con una realtà che non corrisponde alla teoria. Ogni volta il solco fra prassi concreta e teoria appare profondo. La teoria stessa via via perde i suoi connotati scientifici per trasformarsi in ideologia o sfumare nel mito. L’esperienza tedesca gli aveva offerto l’immagine di un proletariato esitante, incerto, incapace di svolgere il suo ruolo storico di affossatore della borghesia. La particolare storia del movimento operaio tedesco, il peso del revisionismo bersteiniano e dell’ortodossia kautskiana sembravano fornire una valida spiegazione dell’accaduto.

A Oriente, nella Russia arretrata e dispotica un proletariato ancora bambino, non corrotto dalle lusinghe del capitale, pareva essersi alzato in piedi e assumere statura di gigante. Anche questa illusione doveva dissolversi rapidamente: la Russia bolscevica simbolo di liberazione cambiava natura, si trasformava nel regno di un nuovo dispotismo, forma asiatica di una rinnovata fase di accumulazione del capitale. Anche qui la critica dell’ortodossia leninista pareva bastare.

Nell’America del New Deal, infine, le stesse lotte operaie e la crescita impetuosa del movimento sindacale diventavano veicolo della ripresa del capitale da una crisi devastante: il riformismo operaio funzionava da strumento di sostegno della domanda in un momento di forte stagnazione degli investimenti. Restava però la speranza che la guerra avrebbe fatto pulizia e generato una “rivoluzione proletaria mondiale” come risultato dialettico dell’inasprimento della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Ma quando la guerra arriva, la situazione nei principali paesi imperialisti si caratterizza per la totale assenza di un’azione autonoma degli operai anche a livelli embrionali. Mandata al macello, la classe operaia resta passiva.

Posto di fronte a tutto questo, Korsch è portato a rimettere in discussione non più le varie interpretazioni del marxismo - il revisionismo di Bernstein, l’ortodossia di Kautsky, il bolscevismo di Lenin, la nuova ortodossia staliniana - ma lo stesso valore rivoluzionario del marxismo come scienza di classe. Altri in quegli anni si erano posti lo stesso problema. Trotsky ad esempio in un uno dei suoi ultimi scritti si interroga sulla natura del regime sovietico e ipotizza con grande lucidità e coraggio intellettuale tutte le possibili conseguenze che ne possono derivare a livello teorico:

“Portata sino in fondo, l’alternativa storica è la seguente: il regime staliniano costituisce una pausa ripugnante nel processo di trasformazione della società borghese in società socialista, oppure è la prima fase di una nuova società sfruttatrice. Se la seconda ipotesi dimostrerà di essere la più giusta, allora naturalmente la burocrazia diventerà una nuova classe sfruttatrice. Dovremo quindi riconoscere a malincuore che, se il proletariato mondiale dovesse realmente dimostrarsi incapace di compiere la missione che gli è stata affidata dal corso degli eventi, non rimarrebbe altro che riconoscere che il programma socialista basato sulle contraddizioni interne della società capitalista si sarà risolto in un’utopia. È chiaro che richiederebbe un nuovo programma minimo, per la difesa degli interessi degli schiavi della società burocratica”. 2

Per Trotsky la guerra rappresenta la cartina al tornasole della questione: egli è fermamente convinto che la guerra determinerà la rivoluzione e il crollo della corrotta ed inefficiente dittatura staliniana. Come tutti sanno, le cose presero un altro corso. Trotsky, assassinato nel 1940 da un sicario staliniano, non potè vedere come la guerra generasse un capitalismo trionfante destinato ad una trentennale espansione da un lato e rafforzasse il giogo staliniano sul proletariato dall’altro. I suoi seguaci rifiutarono di vederlo e si arrampicarono sugli specchi per far quadrare i conti, inventandosi teorie sempre più astruse su Stati operai deformati e/o degenerati da un lato e sulla crisi irreversibile del capitalismo dall’altro. 3 Cose non dissimili possono dirsi dei bordighisti. Certamente più lucidi nell’analisi del presente, ma egualmente sicuri del prossimo, inevitabile risollevarsi della rivoluzione proletaria. 4

Nel 1972 Jacques Camatte, in piena rottura con il marxismo terzinternazionalista, centra il problema, mettendo senza esitazione il dito nella piaga:

“I vari gruppuscoli che hanno fatto la loro comparsa a partire dal 1945, si sono sempre rifiutati di riconoscere la morte del vecchio movimento operaio. Avrebbero dovuto proclamare la loro stessa autonegazione. Ciò tuttavia non ha impedito loro di evocarla, interpretarla, teorizzarla nella solita rubrica: crisi del movimento operaio, concepita per lo più come una crisi di direzione rivoluzionaria. Molto raramente ciò ha comportato una ricerca delle cause di questa morte in seno alla classe stessa”. 5

Korsch, che ha ormai da anni definitivamente rotto con la logica paralizzante del “partito”, non indietreggia di fronte al compito ingrato di fare i conti con una realtà operaia che non segue i contorni del sogno rivoluzionario. Egli inizia a smontare il mito dall’interno. Dopo esserlo stato per gli stalinisti, egli torna ad essere il “rinnegato Korsch”, ma questa volta per i “marxisti rivoluzionari” che si sentono insidiati nelle loro certezze dalla sua lucida critica marxista del marxismo. Gabriella Bonnacchi nella sua corposa introduzione all’edizione italiana dei “New Essays” commenta così questo snodo cruciale della ricerca politica ed umana di un Korsch sempre più problematico:

“Il mancato ribaltamento rivoluzionario della crisi economica ( e, successivamente, della guerra) e il superamento ad opera del soggetto-stato (fascista e monopolistico) della vecchia separazione scolastico-marxista tra economia e politica gli apparve, di conseguenza, la dimostrazione della contradditorieà di una dottrina che, come quella marxista, aveva a suo soggetto proprio la classe operaia”. 6



Per un marxismo non dogmatico

Già nel 1935 in un breve articolo intitolato Perché sono marxista, Korsch aveva riformulato in quattro punti quelli che a suo parere erano le caratteristiche essenziali del marxismo:

“1. Tutte le affermazioni di principio del marxismo, anche quelle apparentement generali, sono specifiche.
2. Il marxismo non è positivo ma critico.
3. Il suo oggetto non è la società capitalistica esistente nel suo stato affermativo, ma la società capitalista in declino, come si rivela nelle tendenze al crollo e alla rovina in modo dimostrabile.
4. Il suo fine principale non è il piacere contemplativo del mondo esistente, ma la sua attiva trasformazione”. 7

Cosa fare, allora, se il capitale divenuto totale esercita un dominio così reale sulla società da riducrre il proletariato a spettatore passivo di conflitti interamente giocati all’interno del capitale stesso? In che modo pensare il superamento dell’esistente se la contraddizione capitale-lavoro diviene fittizia al punto che le lotte operaie ridanno vita al ciclo stesso dell’accumulazione? Prassi e teoria sono destinati a restare eternamente scissi o si può dialetticamente ricomporre la totalità che negli anni ’70 Jacques Camatte chiamerà, rifacendosi a un Marx in gran parte sconosciuto ai marxisti, Gemeinwesen? 8 Questi in sostanza gli interrogativi che Korsch si pone quando nella primavera del 1946 scrive un breve saggio per «Politics», intitolato significativamente Approccio non dogmatico al marxismo.

“A diverse persone – inizia Korsch – è stato chiesto tavolta perché sono o non sono marxiste, proprio come si sarebbe potuto chiedere loroperchè credono o non credono in Dio, nella scienza, nella morale, nella dottrina razzista, nella guerra, nella pace o nella minaccia di distruzione della civiltà con la bomba atomica. (…) Troppo spazio ha preso infine la questione - la più insensata di tutte – di cercare di chiarire quale particolare variante delle teorie di Marx, Engels o delle generazioni successive fino a Lenin, Stalin o Leontiev sia la versione più ortodossa della dottrina di Marx; oppure – ad un livello più alto – quale dei vari metodi applicati in tempi diversi da Hegel, Marx e dai marxisti sia veramente da considerarsi come il corretto metodo «dialettico».

Di contro a questa concezione assolutamente dogmatica, che ha reso sterile la teoria marxista rivoluzionaria in quasi tutte le fasi del suo sviluppo centenario in Europa e ha frustrato sin dall’inizio l tentativo di diffondere il marxismo negli Stati Uniti, proponiamo qui la rivalutazione dell’elemento critico, pragmatico e attivistico che nonostante tutto non è mai stato completamente assente nella teoria sociale di Marx e ha reso, nei brevi periodi del suo predominio, questa teoria l’arma più efficace nella lotta di classe proletaria”. 9

Elemento centrale di questa riproposizione di un marxismo critico, spogliato da ogni paludamento scientista, è ancora una volta la dialettica. Ma una dialettica di tipo nuovo. Non una specie di “superlogica”, per usare l’efficace espressione korschiana, bensì una pragmatica della conoscenza umana. Scrive Korsch:

“Il primo risultato non dogmatico di questo modo di considerare la dialettica è che non si diventa rivoluzionari con lo studio della dialettica, ma al contrario è la trasformazione rivoluzionaria della società ad agire tra l’altro anche sul modo in cui gli uomini di un determinato periodo tendono a produrre e a scambiarsi i loro pensieri. La dialettica materialista è quindi il modo in cui in un determinato periodo rivoluzionario e durante le varie fasi di questo periodo particolari classi sociali, gruppi, individui creano e assumono nuove parole e idee. È la ricerca delle forme, spesso inconsuete e sorprendenti, nelle quali essi collegano i propri pensieri e quelli di altri, collaborano nella dissoluzione di sistemi esistenti chiusi e li sostituiscono con altri sistemi più flessibili, anzi, nel migliore dei casi, con nessun altro sistema, ma con un nuovo movimento del libero pensiero senza impedimenti che percorre rapidamente le mutanti fasi di uno sviluppo più o meno continuo o discontinuo”. 10

Ancora una volta emerge l’anima libertaria di Korsch che non ha alcun timore a sviluppare un concetto di dialettica come libera espressione del pensiero. Korsch recupera qui e utilizza pienamente una serie di strumenti concettuali che si è andato via via costruendo nel lavoro di ricerca, iniziato già negli anni Trenta, assieme a Kurt Lewin sui costrutti matematici in psicologia e sociologia. Una ricerca che sfocia nello sviluppo da parte di Lewin della “teoria del campo”, frutto ultimo, genuinamente rivoluzionario, a livello della psicologia sociale della vecchia dialettica marxiana 11 e che condiziona fortemente l’angolazione metodologica da cui Korsch parte nella sua rivisitazione critica del marxismo.

In una relazione tenuta nel settembre del 1939 al Congresso per l’unità della scienza a Cambridge (Mass.), Korsch e Lewin avevano chiarito il legame profondo che la teoria del campo creava tra la psicologia e le scienze sociali:

“Uno dei prerequisiti più importanti di questo nuovo tipo di formalizzazione era una ricostruzione abbastanza radicale dell’idea generale di causa nei processi psicologici e sociali. Invece di riferirsi ad astratte relazioni tra classi di fenomeni, l’evento individuale fu considerato nella sua posizione particolare ad un dato momento. Ogni mutamento fu concepito come dovuto alle interrelazioni di tali fatti coesistenti. Questo approccio è generalmente chiamato «teoria del campo». (…) La sua introduzione in psicologia è all’origine di un cambiamento non poco rivoluzionario. (…) Una rivoluzione simile, anche se sotto nome diverso, è adombrata nello sviluppo delle scienze sociali. Mentre le tesi specifiche della cosiddetta concezione materialistica della storia, che insiste sull’importanza basilare dei rapporti economici per ogni comportamento e sviluppo sociale, ha trovato solo un esiguo numero di sostenitori, non c’è praticamente opposizione al principio generale che sottosta a quel teorema specifico. Questo principio corrisponde strettamente all’approccio della teoria del campo in psicologia. Come i teorici del campo considerano ogni evento psicologico nella sua collocazione particolare ad un dato momento, la sociologia materialistica considera ogni attività sociale, istituzione, processo come un risultato del campo sociale totale esistente in una determinata epoca. Da questo punto di vista, risulta un’integrazione dinamica in un tutto interconnesso di comportamento sociale e sviluppo, di campi apparentemente così separati quali la produzione materiale o economia, da un lato, e la politica, il diritto e tutte le cosiddette branche superiori del processo mentale e vitale dell’umanità, dall’altro”. 12

Come si vede l’assonanza tra questa presentazione della teoria del campo e la nuova formulazione korskiana della dialettica materialistica appare pressochè totale. Per Korsch chi si affanna a cercare di separare con pignoleria cause ed effetti dei fenomeni sociali, è condannato a non cogliere mai la dinamica profonda dei processi in atto. La società borghese va intesa come un organismo vivente, frutto dell’integrazione dinamica e complessa di una molteplicità di fattori. Il marxismo è teoria rivoluzionaria proprio per la sua capacità radicale di rappresentare questa complessità, cogliendo i nessi fra i singoli fattori non staticamente, ma nel loro movimento.

Chi in nome di un marxismo “scienza esatta” usa la teoria per fotografare la realtà non può che banalizzarla, appiattirla in una inquadratura unidimensionale, in una parola falsarla. Ciò che conta è cogliere il ritmo dei processi sociali, il loro reciproco e sempre cangiante interconnettersi. E più importante ancora, come ciò si rappresenta nella coscienza e nell’ operare di uomini e donne colti nella loro concreta quotidianetà.. Korsch, che ha fatto l’esperienza dei grandi partiti e dei piccoli gruppi, sa bene di cosa parla. Una rappresentazione statica del mondo, frutto di una visione determinista e scientista della realtà, rimanda alla teologia, non certo alla dialettica. In questa dimensione groppuscolare le idee di Marx perdono di significato, si trasformano in formule astratte. Il marxismo si tramuta in ideologia, visione ossificata del mondo. La teoria critica diventa fabbrica di miti. La pratica politica diviene rito. L’organizzazione assume le caratteristiche della setta. Il militante si ritrova trasformato in credente. Il marxismo diventa “coscienza repressiva”.



A mò di conclusione: abbandonare il marxismo per tornare a Marx

Dopo la guerra Korsch è solo. La sua produzione si dirada sempre di più col peggiorare delle sue condizioni di salute. Nei primi anni Cinquanta riesce ancora a compiere una serie di conferenze in Europa e a stendere il progetto di un Libro delle abolizioni, tentativo di costruire una teoria marxista dello sviluppo storico come tendenza all’abolizione di ogni separatezza, ricostituzione della totalità originaria. 13 Poche decine di pagine di appunti per il lavoro futuro di sistemazione teorica di una mole immensa di materiali, frutto di una vita intera dedicata alla militanza e allo studio. Un progetto che non vedrà mai la luce. Nel 1957 Korsch si ammala gravemente, da allora fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1961, il suo sarà un lento, doloroso, progressivo spegnersi a livello fisico e intellettuale.

Considerato lo stato frammentario ed embrionale, poco più di una trentina di pagine, delle Abolizioni, la vera opera conclusiva di Korsch sono le 10 tesi sul marxismo oggi, che rappresentano un vero e proprio testamento politico. Stese nel 1950 come schema di una conferenza a Zurigo e non destinate alla pubblicazione, le tesi compendiano l’intero processo critico ed autocritico del marxismo di Korsch che è stato scritto resta, nonostante tutto e non senza contraddizioni e paradossi “fedele e fermo alle idee di Marx, se necessario contro lo stesso Marx”. 14

Per Korsch non ha più senso alcuno porsi la domanda in che misura sia ancora valida e praticamente applicabile la teoria di Marx (Tesi 1). La realtà stessa del capitalismo è profondamente cambiata. Il dominio del capitale sulla vita degli uomini è diventato totale. Ne consegue che ogni tentativo di restaurare come un tutto la dottrina marxista non rappresenta altro che una “utopia reazionaria” (Tesi 2). Un ritorno all’indietro che non può sortire effetti positivi. Ciò non toglie che importanti elementi della teoria marxista mantengano la loro validità (Tesi 3). Va chiarito dunque che

“Il primo passo per la ricostituzione di una teoria e prassi rivoluzionaria consiste nel rompere con la pretesa del marxismo di monopolizzare l’iniziativa rivoluzionaria e la sua direzione teorica e pratica” (Tesi 4) 15

In questo senso Marx è da considerarsi solo uno dei molti precursori e fondatori del movimento socialista. Altrettanto importanti sono uomini come Proudhon o Bakunin (Tesi 5). La frattura fra comunismo “scientifico” e comunismo “libertario” può essere finalmente colmata. Preliminare è, tuttavia, il riconoscimento che il marxismo presenta numerosi punti critici, quali la sopravvalutazione del ruolo dello Stato o l’identificazione dello sviluppo dell’economia capitalistica con la rivoluzione socialista (Tesi 6 e 7). Proprio su questi basi si è costruita la grande illusione per alcuni, la cinica menzogna per altri della natura socialista dell’Unione Sovietica.

Con il leninismo il marxismo si è trasformato definitivamente in ideologia, utilizzabile nei più diversi contesti e per i più vari obiettivi (Tesi 8 e 9). Il proletariato è stato così definitivamente spossessato della sua teoria. Ma la storia non finisce con il crollo delle speranze nell’URSS socialista e nel ruolo salvifico dell’Ottobre. Il socialismo resta una possibilità. Ma questa possibilità di costruire una società diversa può solo nascere dalla gestione pianificata dell’economia da parte degli esclusi di oggi (Tesi 10). In quali forme e con quali rappresentazioni teoriche sarà la storia a dirlo.

C’è chi ha visto nelle Tesi la manifestazione dell’abbandono definitivo del marxismo da parte di Korsch. In realtà, nonostante la radicalità della sua critica, egli continua a considerare Marx un punto di riferimento fondamentale. In una lettera a Partos, pur densissima di critiche a Marx e al marxismo, egli afferma che se

“l’attuale e futuro capitalismo rimane ancora, per profonde che siano le trasformazioni subite, il «capitalismo», sarà possibile anche in futuro chiamare ancora socialismo-comunismo-marxismo, la teoria e la prassi dell’unico movimento veramente anticapitalistico, per mutate che siano le forme sotto cui esso si presenterà”. 16

Molto tempo dopo, alla metà degli anni Cinquanta, in una lettera inviata a vecchi compagni degli anni dalla KPD egli chiarisce con grande chiarezza di che natura sia il suo rapporto con Marx:

“sono sempre preso dal mio sogno: restaurare teoricamente le ‘idee di Marx’ apparentemente distrutte dopo la conclusione dell’episodio Marx-Lenin-Stalin”. 17

Un’affermazione che pare in piena contraddizione con quanto sostenuto con la tesi 2, ma non è così. Si noti bene, Korsch parla di “idee di Marx” e non di marxismo. Una parola che volendo significare troppe cose, ha finito col tempo per non significare più nulla tanto da apparire oggi una specie di caos di ideologie contrapposte ciascuna delle quali pretende di essere il «vero marxismo». 18 Cosa accomuna Bernstein e Fidel Castro, Labriola e Mao tse Tung, Hilferding e Che Guevara, Rosa Luxemburg e Pol Pot ? In questo senso la storia della seconda metà del Novecento ha dato ampiamente ragione a Korsch.

Più che l’affermazione su scala planetaria delle idee di Marx, il XX secolo ha visto il trionfo del giacobinismo con la sua fede nello Stato rivoluzionario e nella dittatura del partito. Il prezzo pagato per questo trionfo è stato l’annientamento della classe operaia come autonomo soggetto sociale, protagonista della propria emancipazione. Nella sua polemica di inizio secolo con Lenin (e Plechanov) il giovane Trotsky lo aveva in qualche modo intuito.

Ancora una volta l’interpretazione autentica del reale pensiero di Korsch ci è offerta dai ricordi di Hedda, sua compagna di vita e di militanza, che riportiamo qui di seguito a conclusione di questo lavoro:

“ La sua conferenza del 1950, intitolata Dieci tesi sul marxismo, si presta facilmente a malintesi ma non costituiva un ripudio del marxismo. Quelle tesi non erano destinate alla pubblicazione, anche se in seguito io permisi che venissero date alle stampe. Fino alla fine, il perno centrale del suo interesse fu il marxismo. Ma egli cercò di adattare il marxismo, così come lo intendeva, ai nuovi sviluppi (…). L’altra sua preoccupazione principale a quell’epoca era l’ampliamento del marxismo per far fronte all’avanzare delle altre scienze. Pensava che, nella misura in cui la società capitalista si era sviluppata dai tempi di Marx, anche il marxismo dovesse essere sviluppato per capirla. Il suo testo incompiuto, il Manoscritto delle abolizioni, costituisce un tentativo di sviluppare una teoria marxista dello sviluppo storico in termini di futura abolizione delle divisioni che costituiscono la nostra società – come quelle tra le diverse classi, tra città e campagna, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale”. 19

Leggendo queste parole ci è venuto di pensare che a Korsch sarebbe piaciuto il ’68. Vi avrebbe trovato il segno di quella tendenza alla «abolizione delle divisioni» che aveva visto all’opera in Spagna e in cui non aveva mai realmente smesso di credere. Proprio per questo ai giovani del ’68 è piaciuto Korsch. Non poteva essere diversamente per una generazione di giovani rivoluzionari che coglievano la “separazione” come caratteristica fondamentale del dominio ormai totale del capitale sulla specie umana. 20

Qualcuno ha definito il maggio-giugno 1968 come il momento del «disvelamento». Un momento di rottura fondamentale: «l’emergere della rivoluzione, ma non la rivoluzione stessa». 21 Un momento di generale rimessa in discussione dell’esistente che trovava nell’estrema radicalità del pensiero korschiano, così come nelle opere di Marcuse, alimento e stimolo per andare oltre ad una semplice denuncia dell’integrazione delle organizzazioni operaie nell’ambito della società industriale avanzata che in realtà non spiega nulla.

Da qui la fortuna che gli scritti di Korsch hanno avuto in quel periodo, come testimonia anche la sua fugace riscoperta in Italia. Il recupero del “maggio” da parte del capitale mediante un’ulteriore accelerazione della spettacolarizzazione della società da un lato e la degenerazione groppuscolare del movimento con il ritorno immaginario ad un marxismo-leninismo “restaurato” dall’altro, avrebbero determinato il rapido richiudersi già dai primi anni Settanta di questi spazi di ricomposizione e con essi la pressochè totale perdita di visibilità delle idee di Korsch. Eppure in un momento di grande disincanto come l’attuale il pensiero di Korsch, così radicale nella sua critica di ogni visione consolatoria del reale, così estremo nel suo rifiuto di ogni schema preconfezionato, ma anche così carico di speranza può ancora dirci qualcosa. Il suo coraggioso abbandono del marxismo in favore di un recupero radicale delle idee di Marx può ancora una volta parlare alla mente (e al cuore) di una nuova generazione di giovani.



1 Considerato l’ambito di questo lavoro riteniamo di maggior interesse sottolineare rispetto alla reazione fascista, il ruolo controrivoluzionario giocato in Spagna dallo stalinismo. Rimandiamo pertanto il lettore curioso ai seguenti testi: P. BROUÉ-E. TÉMIME, La rivoluzione e la guerra di Spagna, Mondadori, Milano 1980; F. MORROW, L’opposizione di sinistra nella guerra civile spagnola, Samonà e Savelli, Roma 1970; G. ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano 1982; C. SEMPRUN MAURA, Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, Edizioni Antistato, Milano 1976.
2 L. TROTSKY, In difesa del marxismo, Samonà e Savelli, Roma 1969, p. 48.
3 Fedeli alla lettera dei testi di Lenin e Trotsky dei primi anni Venti, i trotskisti di tutte le tendenze per l’intera durata dello straordinario boom economico del dopoguerra hanno continuato in ogni occasione a ripetere che le forze produttive avevano ormai da decenni “cessato di crescere”.
4 Con l’eccezione di alcune parti dell’enorme lavoro teorico svolto nel dopoguerra da Amadeo Bordiga e dai contributi di bordighisti dissidenti come Jacques Camatte.
5 J. CAMATTE, Il capitale totale, Dedalo, Bari 1976, p. 429.
6 G.M. BONACCHI, Teoria marxista e crisi: i «comunisti dei consigli» tra New Deal e fascismo, in Capitalismo e fascismo, cit., p.LIV.
7 K. KORSCH, Perché sono marxista, in Dialettica e scienza nl marxismo, cit., pp. 172-173.
8 Gemainwesen=comunità materiale.
9 K. KORSCH, Approccio non dogmatico al marxismo, in Dialettica…, cit., p. 190.
10 Ivi, pp. 193-194.
11 Sulle teorie di Lewin cfr. A. PALMONARI, Teoria di campo e psicologia sociale, in K. LEWIN, Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, il Mulino, Bologna 1990.
12 K. KORSCH, Costrutti matematici in psicologia e sociologia, in Dialettica e scienza nel marxismo, cit., pp. 100-101.
13 Sul Libro delle abolizioni cfr. R. DUTSCHKE, Lenin rimesso in piedi, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 304-305.
14 G.E. RUSCONI, Autonomia operaia e controrivoluzione, cit., p. XLIV.
15 K. KORSCH, 10 tesi sul marxismo oggi, in Scritti politici, 2, cit., p. 429.
16 K. KORSCH, Lettera a Partos del 25.11.1935, in Marxiana 2, cit., pp.160-161.
17 Citato in G.E. RUSCONI, Autonomia operaia…, cit., p. XLI.
18 P. SOUYRI, Il marxismo dopo Marx, Mursia, Milano 1973, pp. 98-99.
19 H. KORSCH, cit., p. 15
20 “Con la separazione generalizzata tra il lavoratore e il suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività compiuta, ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Con il progredire dell’accumulazione dei prodotti separati, e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione diventano l’attributo esclusivo della direzione del sistema. La vittoria del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo”. G. DEBORD, La società dello spettacolo.
21 J. CAMATTE, Il disvelamento, La Pietra, Milano 1978, pp. 31 e sgg.