Nonostante da decenni
fosse lontano dalla scena politica, al momento della morte Amadeo
Bordiga fu ricordato con rispetto da commentatori anche molto distanti dalle sue
idee. E' il caso di questo articolo apparso su Il Popolo, organo
centrale della Democrazia Cristiana.
Paolo Pinna
Bordiga, ovvero il
dissenso proibito
Amadeo Bordiga, spentosi
a 81 anni nell'abitazione di Formia dove si era riturato in rigorosa
vita privata sin dal 1930 allorché, rimesso in libertà dal
fascismo, aveva appreso che durante la propria relegazione al
confino, i «dirigenti provvisori» del PCd'I lo avevano, senza
possibilità di contraddittorio, espulso dal partito, fu il vero
ideatore di un partito comunista in Italia. La sua scomparsa offre
l'opportunità per alcune considerazioni su certo carattere
permanente del partito comunista.
Sono sufficientemente
note, almeno nelle loro linee di sviluppo, le vicissitudini talvolta
paradossali attraverso cui questioni di strategia rivoluzionaria,
strettamente connesse a precise opzioni ideologiche, condussero
Bordiga ad una contrapposizione frontale con Gramsci e Togliatti,
sino al provvedimento che doveva definitivamente estrometterlo dalla
organizzazione e dalla vita stessa del partito ch'egli aveva fondato.
Melanconica sorte, per colui che a Livorno, appena nove anni prima,
aveva rotto gli indugi e al canto dell' Internazionale aveva
abbandonato il teatro Goldoni, dove si celebrava il congresso
socialista, per recarsi con i primi seguaci al teatro San Marco dove,
con un fermo atto fideistico nell'imminenza di una rivoluzione
proletaria in Italia, si procedette alla costituzione del nuovo
movimento politico.
E' difficile stabilire,
oggi, sino a qual punto egli sia rimasto rigorosamente coerente con
la decisione di una volontaria apartheid, se è vero che taluni
scritti apparsi ancora di recente, pur nell'anonimato dell'edizione,
devono farsi risalire alla sua mano: recano essi, di volta in volta,
aspri giudizi sui dirigenti comunisti che, in Russia ancor prima che
in Italia, hanno avuto in braccio l'eredità della Rivoluzione
d'Ottobre. Certamente, invece, è rimasto vittima di quanto
egli stesso era andato teorizzando, auspicando l'instaurazione di una
ferrea disciplina, come può leggersi su l' Ordine Nuovo (21 giugno
1919) in una frase che ben rispecchia anche l'enfasi rivoluzionaria
del tempo: «Il partito deve essere... il focolare della fede, il
depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce
alla meta le forze organizzate e disciplinate», ragion per cui «il
partito non può spalancare le porte all'invasione di nuovi aderenti,
non abituati all'esercizio ... della disciplina».
Quando prefigurò il
partito come l'insindacabile depositario della dottrina,
probabilmente Bordiga non prevedeva che i dirigenti avrebbero
fatalmente inclinato a identificare se stessi con l'ortodossia, con
il partito. Certo è che, una volta enunciato così rigido assioma,
sarebbe stato impossibile sottrarsi all'implacabile logica che ne
discende. E infatti lo stesso Bordiga non poté far altro che
assoggettarvisi.
Ancor meno nella sventura
- d'altronde - egli avrebbe potuto disporre di strumenti e mezzi per
opporsi. Per tre anni, durante il confino, era rimasto isolato dalle
organizzazioni clandestine di base. Il fascismo aveva già ridotto
anche il PCd'I ad una esigua, segreta attività «illegale». Non
esistevano dunque modi efficaci di opposizione. Ma anche per ciò
l'espulsione si presenta ancor oggi, per taluni versi, come un
provvedimento al limite del grottesco e si configura, al tempo
stesso, in termini di autentica sopraffazione politica.
Probabilmente Bordiga
avrebbe dovuto, facendo violenza al proprio temperamento uso fin
dalla giovane età ad un'aperta, lineare opposizione alle classi
agiate da cui egli discendeva, procedere con maggior cautela e
circospezione, sapendo che Lenin già nel 1919 («L'estremismo»),
riferendosi alla situazione italiana e al ruolo parlamentare di un
partito rivoluzionario, aveva appuntato su di lui critiche di non
poco conto, rilevando che «Bordiga e i suoi amici... non immaginano
neppure una nuova utilizzazione del parlamentarismo e continuano a
strepitare ripetendosi senza fine a proposito dell'utilizzazione
vecchia, non bolscevica del parlamentarismo».
Erano rilievi di una
brutalità strumentale che avrebbero dovuto suonare per lui come una
precisa ammonizione al pari del famoso «punto 21» votato quello
stesso anno dal II Congresso dell'Internazionale comunista, riunitosi
in luglio a Mosca. Vi si legge istruttivamente: «Quei membri del
partito che respingono... le condizioni e le tesi formulate
dall'Internazionale comunista debbono essere espulsi dal partito».
Invece, anche in antitesi
al conformismo di Gramsci e di Togliatti, Bordiga replicò che «tutto
quanto i dirigenti dell'Internazionale dicono e fanno è materia di
cui rivendichiamo il diritto di discutere».
Parole troppo nette, per
un militante comunista. Il X Congresso , frattanto, sancendo il
divieto del frazionismo, aveva decretato che il partito non sbaglia e
che l'Internazionale neppure essa può sbagliare. Non importano i
risvolti ideologici del nuovo assioma. Qui è sufficiente ricordare
che spettò proprio a Luigi Longo, allora alfiere del movimento
giovanile nella battaglia contro Bordiga, ribadire seccamente a
quest'ultimo che «vi deve essere... una centrale che ordina a dei
compagni costretti, dalla disciplina, a obbedire». Era il 17 luglio
del 1925.
Preceduta da una serie
di "diktat" organizzativi nei confronti del gruppo
dissidente, si giunse così all'espulsione, decretata dai dirigenti
frattanto riparati all'estero, per aver Bordiga «sostenuto, difeso e
fatto proprie le posizioni dell'opposizione trotskista... la quale
conduce sistematicamente la lotta... contro l'Unione
sovietica».
Non pare dunque difficile
ravvisare oggi nella vicenda politica di Amadeo Bordiga il singolare
parallelismo con una situazione che ha caratterizzato recentemente la
vita interna del partito comunista sino all'espulsione del gruppo
Pintor-Natoli-Rossanda. Il raffronto con la vicenda de Il Manifesto
sorge infatti immediato, sia per le configurazioni ideologiche del
conflitto con il gruppo dirigente, sia per la conclusione cui la
vicenda stessa è approdata.
Ieri l'accusa di
trotskismo, oggi quella di maoismo; nell'un caso e nell'altro una
rigida subordinazione alla strategia dell'Unione Sovietica. Allora
Bordiga reclamava, come si è ricordato, il diritto di discutere le
direttive del partito e della stessa Internazionale; il gruppo
Pintor-Natoli-Rossanda, rivendicava oggi il diritto (e il dovere) di
discutere la linea del partito e gli stessi orientamenti di Mosca, al
di fuori dei restrittivi schemi dettati dai dirigenti in carica, che
allora come oggi identificano se stessi con l'ortodossia e con il
partito.
Né allora né oggi un
vero metodo democratico ha consentito l'analisi e la ricerca critica.
Come non ravvisare dunque in questa "costante", un dato
permanente del modo di porsi del partito comunista rispetto alla
società in cui opera, alle istituzioni ad ai suoi propri iscritti?
Il Popolo, 29 luglio 1970
(In ricordo di Sandro Saggioro e del sito "Avanti barbari!")