TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 13 giugno 2020

Se il situazionismo diventa l'ultimo rifugio delle canaglie


Qualche giorno fa abbiamo salutato con piacere l'arrivo nelle librerie della rilettura che Afshin Kaveh ha fatto del lascito teorico di Guy Debord, critico feroce e attualissimo di un mondo in via di disintegrazione. Da ragazzo Guy si era profondamente identificato in Arthur Cravan, boxeur professionista e poeta che, prima di scomparire misteriosamente nel 1918, aveva reso questo straordinario omaggio a Rimbaud.

Gasteropode amaro… e sorridevo all’erba,
grande trampoliere smarrito
triste di essere un pugile
ho bisogno di soldi,
Dio santo, che razza di tempo e di primavera!
le mie musiche gaglioffe, eccoti qua, vecchio faraone!
Della luna poco m’importava; i prati stravaganti;
mordevo i passanti; un record!
Pastorale, Egloga, Georgica,
Pazzo a essere un pugile pur sorridendo all’erba;
venti volte ho rinnegato il mio cuore. Non posso più restare…

Grande poeta Cravan, diventato un mito per Breton e i surrealisti, da cui Debord riprende l'idea che l'arte sia un grande incontro di boxe, parole e gesti come pugni contro una società di spettri. Afshin nelle sue pagine rende perfettamente questa visione. Oggi proponiamo la nostra introduzione al suo libro che consigliamo di leggere assieme al volume che Adelphi ha recentemente dedicato a Cravan.

Giorgio Amico

Se il situazionismo diventa l'ultimo rifugio delle canaglie

"Voglia il cielo che il lettore, imbaldanzito e diventato momentaneamente feroce come ciò che sta leggendo, trovi, senza disorientarsi, la sua via dirupata e selvatica attraverso gli acquitrini desolati di queste pagine oscure e venefiche; infatti, a meno che non ponga nella lettura una logica rigorosa e una tensione dello spirito pari almeno alla sua diffidenza, le micidiali esalazioni di questo libro gl'imbeveranno l'anima, come l'acqua lo zucchero. Non è bene che tutti leggano le pagine che seguono; solo pochi potranno assaporare questo frutto amaro senza rischio".

Il lettore un minimo smaliziato avrà riconosciuto l'incipit folgorante de I Canti di Maldoror di Lautréamont, opera carissima a Debord che la prese a riferimento cardine della sua intera esperienza dai giovanili esordi lettristi nella Cannes conformista della fine degli anni Quaranta agli anni amari dell'autoesilio di Champot, gli anni del ritiro da un mondo diventato integralmente spettacolo che nelle sue presunte avanguardie intellettuali osava definirsi situazionista citando a vanvera idee che era incapace di comprendere e di assimilare.

A chi si avvicini all'ultimo lavoro di Afshin Kaveh tocca lo stesso ingrato compito: mettere in guardia il lettore scrivendo come sulle confezioni delle sigarette: Attenzione! Questo prodotto nuoce gravemente alla salute.

Si, perché il libro che girate nelle mani e state per aprire è un'opera pericolosa, tale da nuocere gravemente all'assoluta mancanza di pensiero del mondo accademico e al sovversivismo fasullo degli imbonitori televisivi che per fare audience si aggrappano a Debord sperando di fare scandalo con il minimo di spesa. Tanto che si può tranquillamente affermare che , come il patriottismo per Samuel Johnson, così questo presunto situazionismo evirato ed imbelle, guarnito di veline e Gabibbi, è l'ultima risorsa delle canaglie intellettuali, a partire da quelle che hanno costruito le loro fortune nelle anticamere televisive berlusconiane. E dunque ben ragione aveva avuto Debord a negare persino l'esistenza di un qualcosa definibile situazionismo, essendo la sua non una weltanschauung adattabile alla fase della decadenza senile del modo di produzione capitalistico, ma una sorta di gioco strategico atto a fornire i capisaldi teorici di una guerriglia di lungo periodo fatta di situazioni dove l'arma del ridicolo contro i detentori di una cultura e di un'arte ridotta a mera merce giocasse un ruolo non secondario.

L'utilità di questo saggio, densissimo e profondo, che l'autore con eccessiva modestia definisce pamphlet, consiste proprio nel recupero integrale della radicalità del pensiero di Debord , della sua assoluta irriducibilità ad un uso funzionale al mantenimento dello stato di cose presenti e dunque del potere. Lo stesso rifiuto che l'autore metodologicamente compie di dare un ordinamento temporale al suo lavoro, accavallando momenti, situazioni, pensieri, permette di entrare in profondità, ci si passi il termine, nella poetica debordiana, svelandone la complessità ma anche le contraddizioni, ma soprattutto facendola ritornare cosa viva.

Una lettura sovversiva, l'unica possibile, di un pensatore sovversivo, capace di prefigurare con mezzo secolo di anticipo l'inferno quotidiano in cui oggi ci ritroviamo a vivere, dove neppure il gesto artistico per quanto pensato come radicale è più capace di rappresentare una possibile via di fuga dalla banalità. E dunque ben vengano i mangiatori di banane spacciati da un Cattelan quale ultima frontiera dell'arte come se futuristi, dadaisti, surrealisti non fossero mai esistiti.

In questo farci sentire contemporanei di Debord, molto più di chi allora ebbe la ventura di vivere con lui, sta il fascino di questo libro che senza infingimenti già dalle prime righe chiarisce da che parte si schieri l'autore. Un incipit che ci ha riportato ad anni passati, al vecchio glorioso manifesto dell'occupazione di Palazzo Campana con il manichino imparruccato del potere accademico trafitto dalla lama della rivolta studentesca. Un assassinio rituale, gioiosamente crudele, che era prima di tutto uccisione simbolica dei padri che con la loro onnipotenza castratoria ci impedivano di crescere.

Il pensiero di Debord rappresentò quella lama che la mia generazione ancora imbevuta di un marxismo-leninismo ossificato fu incapace di impugnare e di usare con efficacia, in Francia come in Italia. Poche furono le eccezioni, Afshin le cita, velocemente, perché, come scrive, si tratta di "un'altra lunga storia che meriterebbe un approfondimento in altra sede". Io, che di quella storia fui se non altro per motivi anagrafici piccolissima parte, ricordo in particolare Gianfranco Faina, compagno di lotte nella Genova del '68 e poi relatore della mia tesi di laurea, lasciato morire senza cure in carcere dalla nostra Repubblica "democratica fondata sul lavoro" che nega un futuro ai giovani, il cui accanito voler essere cattivo maestro ritrovo in queste pagine che mi piacerebbe fossero idealmente a lui dedicate.

Savona, gennaio 2020