Qualche
giorno fa abbiamo salutato con piacere l'arrivo nelle librerie della
rilettura che Afshin Kaveh ha fatto del lascito teorico di Guy
Debord, critico feroce e attualissimo di un mondo in via di
disintegrazione. Da ragazzo Guy si era profondamente identificato
in Arthur Cravan, boxeur professionista e poeta che, prima di
scomparire misteriosamente nel 1918, aveva reso questo straordinario
omaggio a Rimbaud.
Gasteropode
amaro… e sorridevo all’erba,
grande
trampoliere smarrito
triste
di essere un pugile
ho
bisogno di soldi,
Dio
santo, che razza di tempo e di primavera!
le
mie musiche gaglioffe, eccoti qua, vecchio faraone!
Della
luna poco m’importava; i prati stravaganti;
mordevo
i passanti; un record!
Pastorale,
Egloga, Georgica,
Pazzo
a essere un pugile pur sorridendo all’erba;
…venti
volte ho rinnegato il mio cuore. Non posso più restare…
Grande
poeta Cravan, diventato un mito per Breton e i surrealisti, da cui
Debord riprende l'idea che l'arte sia un grande incontro di boxe,
parole e gesti come pugni contro una società di spettri. Afshin
nelle sue pagine rende perfettamente questa visione. Oggi proponiamo
la nostra introduzione al suo libro che consigliamo di leggere
assieme al volume che Adelphi ha recentemente dedicato a Cravan.
Giorgio
Amico
Se
il situazionismo diventa l'ultimo rifugio delle canaglie
"Voglia
il cielo che il lettore, imbaldanzito e diventato momentaneamente
feroce come ciò che sta leggendo, trovi, senza disorientarsi, la sua
via dirupata e selvatica attraverso gli acquitrini desolati di queste
pagine oscure e venefiche; infatti, a meno che non ponga nella
lettura una logica rigorosa e una tensione dello spirito pari almeno
alla sua diffidenza, le micidiali esalazioni di questo libro
gl'imbeveranno l'anima, come l'acqua lo zucchero. Non è bene che
tutti leggano le pagine che seguono; solo pochi potranno assaporare
questo frutto amaro senza rischio".
Il
lettore un minimo smaliziato avrà riconosciuto l'incipit folgorante
de I Canti di Maldoror di Lautréamont, opera
carissima a Debord che la prese a riferimento cardine della sua
intera esperienza dai giovanili esordi lettristi nella Cannes
conformista della fine degli anni Quaranta agli anni amari
dell'autoesilio di Champot, gli anni del ritiro da un mondo diventato
integralmente spettacolo che nelle sue presunte avanguardie
intellettuali osava definirsi situazionista citando a vanvera idee
che era incapace di comprendere e di assimilare.
A chi
si avvicini all'ultimo lavoro di Afshin Kaveh tocca lo stesso ingrato
compito: mettere in guardia il lettore scrivendo come sulle
confezioni delle sigarette: Attenzione! Questo prodotto nuoce
gravemente alla salute.
Si,
perché il libro che girate nelle mani e state per aprire è un'opera
pericolosa, tale da nuocere gravemente all'assoluta mancanza di
pensiero del mondo accademico e al sovversivismo fasullo degli
imbonitori televisivi che per fare audience si aggrappano a Debord
sperando di fare scandalo con il minimo di spesa. Tanto che si può
tranquillamente affermare che , come il patriottismo per Samuel
Johnson, così questo presunto situazionismo evirato ed imbelle,
guarnito di veline e Gabibbi, è l'ultima risorsa delle canaglie
intellettuali, a partire da quelle che hanno costruito le loro
fortune nelle anticamere televisive berlusconiane. E dunque ben
ragione aveva avuto Debord a negare persino l'esistenza di un
qualcosa definibile situazionismo, essendo la sua non una
weltanschauung adattabile alla fase della decadenza senile del modo
di produzione capitalistico, ma una sorta di gioco strategico atto a
fornire i capisaldi teorici di una guerriglia di lungo periodo fatta
di situazioni dove l'arma del ridicolo contro i detentori di una
cultura e di un'arte ridotta a mera merce giocasse un ruolo non
secondario.
L'utilità
di questo saggio, densissimo e profondo, che l'autore con eccessiva
modestia definisce pamphlet, consiste proprio nel recupero
integrale della radicalità del pensiero di Debord , della sua
assoluta irriducibilità ad un uso funzionale al mantenimento dello
stato di cose presenti e dunque del potere. Lo stesso rifiuto che
l'autore metodologicamente compie di dare un ordinamento temporale al
suo lavoro, accavallando momenti, situazioni, pensieri, permette di
entrare in profondità, ci si passi il termine,
nella poetica debordiana, svelandone la complessità ma
anche le contraddizioni, ma soprattutto facendola ritornare cosa
viva.
Una
lettura sovversiva, l'unica possibile, di un pensatore sovversivo,
capace di prefigurare con mezzo secolo di anticipo l'inferno
quotidiano in cui oggi ci ritroviamo a vivere, dove neppure il gesto
artistico per quanto pensato come radicale è più capace di
rappresentare una possibile via di fuga dalla banalità. E dunque ben
vengano i mangiatori di banane spacciati da un Cattelan quale ultima
frontiera dell'arte come se futuristi, dadaisti, surrealisti non
fossero mai esistiti.
In
questo farci sentire contemporanei di Debord, molto più di chi
allora ebbe la ventura di vivere con lui, sta il fascino di questo
libro che senza infingimenti già dalle prime righe chiarisce da che
parte si schieri l'autore. Un incipit che ci ha riportato ad anni
passati, al vecchio glorioso manifesto dell'occupazione di Palazzo
Campana con il manichino imparruccato del potere accademico trafitto
dalla lama della rivolta studentesca. Un assassinio rituale,
gioiosamente crudele, che era prima di tutto uccisione simbolica dei
padri che con la loro onnipotenza castratoria ci impedivano di
crescere.
Il
pensiero di Debord rappresentò quella lama che la mia generazione
ancora imbevuta di un marxismo-leninismo ossificato fu incapace di
impugnare e di usare con efficacia, in Francia come in Italia. Poche
furono le eccezioni, Afshin le cita, velocemente, perché, come
scrive, si tratta di "un'altra lunga storia che meriterebbe un
approfondimento in altra sede". Io, che di quella storia fui se
non altro per motivi anagrafici piccolissima parte, ricordo in
particolare Gianfranco Faina, compagno di lotte nella Genova del '68
e poi relatore della mia tesi di laurea, lasciato morire senza cure
in carcere dalla nostra Repubblica "democratica fondata sul
lavoro" che nega un futuro ai giovani, il cui accanito voler
essere cattivo maestro ritrovo in queste pagine che mi piacerebbe
fossero idealmente a lui dedicate.
Savona,
gennaio 2020