TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 8 marzo 2021

Orto, la passione della tradizione

 

    Mirò, Orto con asino

Coltivare un orto un tempo per molte famiglie contadine dell'entroterra era una necessità, quasi uno strumento di sopravvivenza. Oggi, come dimostra questo intervento di un caro amico apparso su un giornale che esce a Piana Crixia, può significare mantenere una tradizione , fare cultura, ma anche un modo per restare umani in un mondo dove tutto è ormai ridotto a livello di spettacolo massmediatico. Un'ultima parola sull'importanza fondamentale dei piccoli notiziari locali che cercano di mantenere insieme una comunità e il senso di appartenenza ad un luogo e a una storia che è fatta prima di tutto di persone, uomini e donne che lì sono vissute e vivono. Perché la memoria è preziosa e non va dispersa.


Luigi Sormano

Orto, la passione della tradizione


Con l’approssimarsi della fine dell’inverno ed il ritorno delle belle stagioni arriva anche il momento di riprendere l’attività negli orti. Per noi che abitiamo nelle campagne e discendiamo da generazioni di contadini la coltivazione di un appezzamento di terreno, piccolo o grande che sia, ad orto è quasi un atavico obbligo. Detto da uno come me, che appartengo alla esigua schiera di quelli che l’orto non lo coltivano, la cosa ha quasi il sapore di bestemmia, ma per la maggior parte delle altre persone questa specie di obbligo morale trova poi consequenzialità nell’impegno che profondono nel curare, a volte in modo quasi maniacale, l’orto di famiglia.

Non nascondo che a volte mi faccio prendere da una specie di senso di colpa e sono tentato di cedere alla tentazione di rientrare a far parte della congrega degli ortolani, poi però, regolarmente, la razionalità torna a prevalere e lascio perdere, seppur sovente con un sottile senso di rimpianto. Ho ceduto le armi, pardon la zappa, da ortolano da ormai oltre vent’anni, allorquando cambiai casa e lasciai il Pontevecchio dove mi prendevo cura di un bel terreno adibito, appunto, ad orto. Le condizioni erano ottimali, il terreno pianeggiante e fertile, anche per le abbondanti concimazioni, leggermente sabbioso e morbido, con acqua in abbondanza, un vero spasso che mi facilitava il compito, avevo addirittura un piccolo trattorino completo di aratro e fresa con il quale mi divertivo senza faticare. Nella nuova casa dove mi trasferii ed ancora dimoro, pur essendoci una grande quantità di terreno, lo stesso non era molto adatto, più argilloso, compatto e pietroso, insomma decisamente più ostile del precedente, questo avrebbe significato più tempo, maggior fatica e meno risultati, ragione per la quale, considerando anche che, in allora essendo Sindaco il tempo a mia disposizione si era drasticamente ridotto, mi rassegnai a rinunciare ed a dedicarmi soltanto alla cura dei miei alberi da frutta, del prato e delle altre piante che vi dimorano.

Rimane un sapore dolciastro di rimpianto, la nostalgia di grufolare nel terreno assaporandone gli odori e le sensazioni. Oggi, per quasi tutti coloro che lo coltivano, l’orto è un vezzo, un hobby, un modo sano ed anche divertente di impegnare energie e tempo, argomento di discussioni e terreno di sottili sfide non dichiarate ma sempre aleggianti, motivo di orgoglio ma anche di sotterranea gelosia ed invidia. Nessuno tiene più un orto per mera necessità economica, può rappresentare un piccolo aiuto a risparmiare sulle verdure ma ha certamente perso la funzione di elemento strutturalmente importantissimo, per l’economia di una famiglia, che rivestiva ai tempi dei nostri nonni e padri allorquando rappresentava una risorsa dalla quale non si poteva prescindere. Adesso è prevalente piuttosto il desiderio di consumare un prodotto sicuramente più genuino, un qualcosa sul quale si è esercitato il controllo in tutte le fasi della crescita dalla nascita alla raccolta, il tutto condensato in un assunto che è un po' la parola d’ordine dei cultori dell’orto: “almeno so cosa mangio”.

Ben diversa, come ricordato, la storia ai tempi dei padri e dei nonni, che peraltro ha ancora visto protagonisti tutti quelli della mia generazione sino a giovinezza inoltrata, lasciandoci una memoria fondamentale della nostra cultura contadina che a saperla leggere diventa storia di civiltà. L’orto era strumento di nutrizione perché di lì arrivava la maggior parte di tutto quello che si mangiava, ma anche d’economia, seppur minuscola, perché fonte di qualche piccola entrata per la vendita di qualche prodotto. Tutte le famiglie che vivevano in campagna avevano l’orto, era imprescindibile, il suo ciclo di vita non conosceva praticamente pause, la sua cura, articolata nelle diverse attività si snodava per tutto l’anno, l’impegno che richiedeva era continuativo e costante. Non impegnava soltanto gli uomini, anche le donne sovente partecipavano, e non solo per la preparazione e lavorazione dei prodotti che poi venivano conservati per le stagioni che sarebbero seguite, ma anche per le coltivazioni vere e proprie. Non dimentichiamo d'altronde che l’agricoltura nasce al femminile, nelle civiltà primordiali l’uomo si occupava della caccia e furono le donne che iniziarono a curare e coltivare la terra ponendo le basi per quella che sarebbe diventata l’attività che avrebbe dato agli esseri umani la possibilità di sopravvivere e svilupparsi nei millenni. Ma questo per cortesia non ricordiamolo alla Signora Boldrini altrimenti sai che rompimento di marroni metterebbe in campo.

L’orto non era un pezzo di terra qualunque, era un tempio, regolato da comportamenti quasi rituali ed in qualche misura anche scaramantici che ne sancivano una sacralità che lo elevavano al di sopra degli altri terreni. Come tutti quelli della mia età ho ben scolpito nella memoria cosa si faceva nell’’orto e come lo si faceva, una traccia profonda, incancellabile. L’orto che avevamo era collocato nella parte più bassa della frazione, al di fuori dell’abitato, là dove il terreno scende alla quota del fiume e diventa pianeggiante, era la zona dove tutti quella della frazione dei Pera avevano il loro orto, terra adatta, scura, friabile, residuo delle esondazioni delle acque della Bormida, costeggiava un piccolo torrente che nel pieno dell’estate era di norma in secca, mentre ora lo è quasi per la maggior parte dell’anno, facilmente innaffiabile per la presenza di numerosi pozzi d’acqua sorgiva. Già, perché il primo presupposto per un orto è che ci sia la disponibilità di acqua sufficiente per supportare la crescita e sopravvivenza delle piante durante tutto il ciclo del loro sviluppo.

Gli orti erano sistemati uno di fianco all’altro, c’era quello dei miei zii, poi il nostro, a seguire quello della famiglia Lovesio Francesco poi quello di Lovesio Alberto ed infine, ma un po' più staccato, separato da qualche lingua di terreno, quello di Lovesio Giovanni. Quattro i pozzi, uno per noi e gli zii ed uno ciascuno per gli altri, pozzi non profondi, tre quattro metri al massimo, molto larghi e ricchissimi di acqua tutta sorgiva. Il sistema di prelevamento e sollevamento dell’acqua per irrigare era assicurato da una “bricula”, termine del nostro dialetto per identificare lo “shaduf”, attrezzatura utilizzata già dagli egizi ma della quale non esiste un termine italiano codificato. Il sistema è semplicissimo ma ingegnoso, un tronco d’albero molto robusto alto mediamente due metri e mezzo, veniva piantato in verticale a circa un paio di metri dal margine del pozzo, alla sommità veniva divaricato lasciando tra i due bracci una luce di una trentina di centimetri nella quale, tramite un piolo di legno inserito orizzontalmente, era collocato a sbalzo un lungo palo, più sottile ovviamente della colonna verticale. All’estremità del palo che sbalzava in alto, sino ad arrivare con la sua verticale all’interno del pozzo, era fissata una corta catena o corda che all’altro capo veniva assicurata ad una pertica che pendeva sino a circa un metro da terra. Mentre all’estremità della pertica era fissato un gancio ad U l’estremità del palo che toccava terra veniva contrappesato fissando una pietra del peso di un grande secchio d’acqua. A questo punto era funzionante un sistema efficiente ed efficacissimo, la tecnicalità s’imparava per esperienza, ben saldi sulle gambe ci si piazzava sul bordo del pozzo, dove in quel punto di solito si metteva una grande pietra piatta e ruvida per evitare pericolosi slittamenti, s’inseriva un secchio nel gancio e con la forza delle braccia si tirava la pertica verso il basso del pozzo vincendo la forza del contrappeso. Quando il secchio arrivava a lambire il pelo dell’acqua si spostava lateralmente, con un piccolo movimento la pertica e subito dopo, in direzione opposta e nel senso dell’apertura del gancio, si operava uno strappo che contemporaneamente inclinava secchio, lo faceva immergere riempendolo e lo riportava alla superficie, a quel punto si allentava completamente la forza sulla pertica, pur mantenendone il controllo, ed il contrappeso tirava verso l’alto il secchio facendo scorrere la superficie levigata della pertica tra le mani senza sforzo. Prima che il palo contrappesato andasse a toccare terra dalla parte opposta al secchio, le braccia riprendevano il governo del meccanismo rallentando la corsa e vuotando il secchio.

L’operazione a descriverla sembra complicatissima ma in realtà, acquisiti i corretti automatismi, il tutto si svolgeva in pochi secondi e senza nessun problema. La manovra che richiedeva maggior attenzione ed abilità era quella dello strappo che faceva immergere il secchio e lo trascinava appena sotto il filo dell’acqua per riempirlo e poi farlo riemergere. Il secchio inclinato andava tenuto in tensione dalla forza di trascinamento in modo che il manico fosse pressato contro la gola del gancio ad U e ne venisse impedito lo sganciamento che avrebbe liberato il secchio causandone l’affondamento in fondo al pozzo. Non dico che non successe mai, capitava, specialmente nella fase d’apprendimento, le cause potevano essere una profondità eccessiva dell’immersione o una scarsa velocità nella fase subacquea ma sempre con lo stesso risultato. L’eventuale recupero non era comunque molto complicato, esisteva un attrezzo specifico “i granfi”, costituito da un serie di braccetti armati di numerosi gancetti a forma di amo, veniva fissato sul gancio della pertica e calato sul secchio che in qualche punto veniva agganciato e poi riportato in superficie. Il “perdere” il secchio generava comunque sempre qualche rossore da una parte e sorrisi sottilmente ironici dall’altra, un fallo in azione. Immagino una domanda scontata: ma se il problema era lo sgancio, perché non fissare, anche con un semplice fildiferro, il secchio al gancio? Bella domanda con due risposte, la prima molto razionale: si sarebbe perso troppo tempo, ogni volta il secchio si sarebbe dovuto legare e poi sciogliere per portare l’acqua dove serviva e successivamente rilegare ecc. Una perdita di tempo intollerabile per gente abituata a lavorare sodo. La seconda è più complessa, infatti l’acqua che veniva trasportata con i secchi dopo l’estrazione era solo la parte più piccola di quella che veniva utilizzata, la maggior parte veniva distribuita con un sistema d’irrigazione efficiente e pratico. Dalla colonna della “bricula” partiva un bel solco nel terreno, largo e ben arginato che correva al margine di tutto l’orto sino al suo limite, da questo solco, che aveva la funzione di dorsale partivano verticalmente tutti gli altri solchi che avevano la vera funzione irrigante e ai lati dei quali crescevano le piantine dei pomodori, peperoni, melanzane, sedani, cavoli, e tutti gli altri ortaggi coltivati a solco.

Bene, come funzionava il tutto? Premesso che all’inizio della dorsale, sotto la “bricula” veniva posto un canale di legno ottenuto svuotando la metà in verticale di un tronco d’albero che aveva la funzione di accelerare il flusso dell’acqua e facilitarne lo scorrimento, una persona si piazzava al pozzo ed incominciava ad estrarre acqua con la tecnica che abbiamo visto, ma quando il secchio arrivava fuori dal pozzo non veniva sganciato ma velocemente traslato, manovrando la pertica, sul bordo del troco svuotato facendolo poi inclinare e svuotare con un solo movimento. Questa operazione veniva eseguita in successione continua in modo molto rapido e questo consentiva di generare un abbondante e continuo flusso d’acqua che scorreva nella dorsale e veniva, partendo dall’ultimo solco d’irrigazione convogliato dove serviva. Visto che il secchio non si sarebbe sganciato per tutta la durata dell’operazione allora, ritornando alla domanda, perché non legarlo? All’inizio me lo chiesi anch’io, poi capii. Sarebbe stata l’ammissione di una difficoltà nello svolgere il lavoro, un dichiararsi meno sicuri ed abili. Come chiedere ad un vecchio acrobata di un circo di legarsi ad una fune di sicurezza. Orgoglio contadino, ecco perché a nessuno venne mai in mente di legare il secchio.

L’acqua all’orto veniva data di sera, al tramonto, ci si armava di secchio, zappa, a volte rastrello se si pensava servisse, e si partiva, i ragazzini erano in pantaloncini corti, gli adulti arrotolavano i calzoni sino al ginocchio, le donne al massimo fermavano le lunghe gonne, raccolte sotto il ginocchio, con qualche molletta da stendere, un grembiule che serviva per raccoglie la verdura completava l’abbigliamento. Via le scarpe, sarebbero state una zavorra infangata e fastidiosa, rigorosamente scalzi, sento ancora la sensazione di camminare sul terreno umido e morbido, a volte, durante l’irrigazione, si doveva correre nel solco pieno d’acqua per tamponare l’ingresso di qualche galleria che le talpe, attratte dal terreno morbido ed umido, scavavano nel terreno, con la testa della zappa si pressava il terreno sulla bocca della galleria e l’acqua riprendeva il cammino al quale era destinata. In quell’occasione si camminava nella fanghiglia, i piedi affondavano anche sino alle caviglie, il terreno vischioso e viscido lo sentivi penetrare attraverso le fessure tra le dita per poi riallargarsi sul dorso del piede, ma non era una sensazione spiacevole, anzi lo percepivi quasi come un qualcosa che ti metteva in una specie d’intimità con la terra, ti faceva sentire a tuo agio.

Mi rendo conto d’essermi troppo dilungato, era nelle mie intenzioni raccontare come in allora si coltivava, con vanga, zappa, rastrello, come di concimava, raccoglieva e conservava, come si svolgevano i lavori ed in quali tempi. Dalla preparazione delle sementi, alle piantine, alla semina a tutto il resto, troppe cose e non posso rubare troppo spazio al giornalino., Magari un’altra volta.

(Da: Piana Notizie. Passa parola!)