TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 9 marzo 2021

L'angolo di Bastian Contrario: Stalin, Kant e il popolo bambino


L'angolo di Bastian Contrario: Stalin, Kant e il popolo bambino

Un amico nell'anniversario della morte di Stalin (5 marzo 1953) ha sviluppato su facebook una serie di considerazioni sul culto del capo e il mito del padre dei popoli. Considerazioni totalmente condivisibili perché lo stalinismo fu con il nazismo uno dei due grandi orrori del secolo scorso. E non ci sono se e ma che tengano. Lo stalinismo è stato una barbarie senza fine, ancora più ripugnante, se si pensa che, mentre i nazisti uccidevano in nome della superiorità di una razza e di una nazione, gli stalinisti lo facevano in nome dell'eguaglianza e della libertà degli uomini. Per questo, non ci stanchiamo di ripetere che la memoria non può essere a senso unico e che non si possono distinguere le vittime secondo le ideologie. I milioni di morti nel Gulag ci interrogano muti come i milioni di morti nei lager. A tutti dobbiamo la stessa risposta: "mai più".

Ma i nostalgici di Stalin, che ancora ci sono, non suscitano lo stesso sdegno di quelli di Hitler.Stalin ha vinto la guerra e i vincitori, si sa, hanno sempre ragione. Che poi quella guerra avesse anche contribuito a scatenarla, alleandosi nel 1939 con Hitler per spartirsi la Polonia, questo interessa poco. Stalin, dicono, nonostante tutto ha contribuito a sconfiggere il nazismo e a ”liberare” l'Europa.

Chiedetelo agli uomini e alle donne dell'Est, ai polacchi, agli ungheresi, ai lituani, agli estoni, agli slovacchi, che hanno avuto il tallone di ferro sovietico premuto sul collo per quasi mezzo secolo, se Stalin è stato un liberatore. Eppure qualcuno si stupisce che in quei paesi il termine stesso “comunismo” sia impronunciabile, ricordo di un periodo terribile per la storia di quei popoli.

E sono gli stessi che, giustamente, considerano impronunciabile in Italia il termine “fascismo” perché ricorda venti anni di oppressione del popolo italiano.  Ma ai popoli dell'Est questo diritto alla memoria non è riconosciuto, perché il comunismo è un'altra cosa.

Certo, il comunismo è davvero un'altra cosa. Lo sappiamo bene. Ma è in nome del comunismo che l'imperialismo sovietico nel '48 a Praga, nel '53 a Berlino Est, nel '56 a Budapest, nel '68 di nuovo a Praga e nel '80 di nuovo in Polonia ha mandato i carri armati a schiacciare la rivolta di quella classe operaia di cui si  riteneva il solo autentico rappresentante.

Eppure spesso sono intellettuali, uomini di cultura, per i quali certi concetti dovrebbero essere elementari. Primo fra tutti che non esistono dittature buone, che i mezzi non possono essere il contrario dei fini. Se, come pensavano Marx e Engels, comunismo significa rendere l'uomo finalmente uomo e non semplice mezzo di produzione,  allora i carri armati, la polizia segreta e i campi di lavoro cosa c'entrano?

A questi intellettuali, a questi uomini di cultura, che ci guardano straniti quando diciamo queste cose e immediatamente iniziano a snocciolare i più vari “si va bene, però...”, ricordiamo quanto scriveva nel 1793 Kant a proposito della “felicità” donata dall'alto dal sovrano “padre del suo popolo”. E in questo, e non solo, Stalin è stato l'ultimo degli zar, sicuramente il più spietato.

«Nessuno mi può costringere a essere felice a modo suo (come egli si immagina il benessere degli altri esseri umani), ma a ognuno è permesso cercare la felicità per la via che a lui stesso pare buona, se solo non infrange la libertà altrui (cioè questo diritto dell'altro) di perseguire un fine simile, che possa consistere insieme con la libertà di ognuno secondo una possibile legge universale.

Un governo, che fosse istituito sul principio della benevolenza nei confronti del popolo come quella di un padre nei confronti dei suoi figli, cioè un governo paterno (imperium paternale), ove dunque i sudditi, come figli minorenni, che non sanno distinguere che cosa per loro sia veramente utile o dannoso, sono necessitati a comportarsi in modo meramente passivo, per attendere solo dal giudizio del capo dello stato come debbano essere felici, e solo dalla sua benevolenza, che egli anche lo voglia, è il più grande dispotismo pensabile.»