TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 8 maggio 2022

7 maggio 1972. La fine delle illusioni rivoluzionarie



Riprendiamo un interessante contributo di Franco Astengo. Siamo nel maggio '72 in piena crisi politica e sociale. La conflittualità operaia è ancora molto alta, così come quella studentesca. Si assiste a un fiorire di partitini e movimenti a sinistra senza precedenti nella storia italiana. Il sistema politico sembra al collasso, il centrosinistra è logorato e per la prima volta nella storia della Repubblica si va ad elezioni anticipate. Ma...Ma la DC tiene, l'estrema destra avanza, il PSI crolla e l'estrema sinistra rivela la sua irrilevanza politica. Solo il PCI tiene recuperando sul piano elettorale la spinta espressa da lotte che pure lo avevano visto più spettatore che protagonista.  Davvero un contributo che merita una attenta riflessione. 

Franco Astengo

Ricordate il 7 maggio 1972? 

Ricordate il 7 maggio 1972? Un milione di voti perduti a sinistra? Sono passati esattamente cinquant’anni.

Per la prima volta nella storia della Repubblica si svolsero elezioni politiche anticipate: le ragioni di quella scelta, attuata dal neo – presidente della Repubblica Giovanni Leone, derivò da una complessità di ragioni:

1) La coalizione di centro – sinistra che reggeva il Paese dal 1962, prima con l’appoggio esterno e poi con l’ingresso organico dei socialisti (salvo due intervalli “balneari” guidati proprio da Leone nel 1963 e nel 1968 nell’immediato post – elezioni) mostrava la corda di una conflittualità interna molto forte, accentuata dalla crisi irreversibile dell’unificazione socialista. Unificazione socialista che era stata tentata tra il 1966 e il 1968 con un esito disastroso dal punto di vista elettorale verificatosi con la presentazione della famosa “bicicletta” ( i due simboli di PSI e PSDI uniti) nelle elezioni del 19 maggio 1968 e la riscissione dell’estate 1969;

2) il Paese presentava un quadro sociale di forte agitazione con spinte contrastanti a destra e a sinistra. A destra l’avanzata del MSI in coincidenza con la rivolta del “Boia chi molla” a Reggio Calabria; a sinistra la spinta delle lotte studentesche e operaie del più lungo ‘68 d’Europa con la vittoria dei metalmeccanici a conclusione dell’autunno caldo del 1969. La spinta al cambiamento era stata però bruscamente fermata dall’esplosione del terrorismo con la strage fascista di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e le prime avvisaglie di presenza delle BR. A sinistra ci si trovava nella fase di formazione dei gruppi di quella che poi sarebbe stata la sinistra extraparlamentare mentre nel PCI si era consumata la rottura con il gruppo del Manifesto i cui esponenti erano stati esclusi dal partito per la posizione di netto dissenso rivolto all’invasione di Praga da parte delle truppe del patto di Varsavia (21 agosto 1968) e per aver messo in discussione, pubblicando la rivista nel 1969 e successivamente il quotidiano dal 28 aprile 1971, il centralismo democratico. Anche nello PSIUP, un partito che si era formato in opposizione all’ingresso del PSI nel governo (governo Moro, dicembre 1963), si erano prodotte rottura sulla questione dell’invasione di Praga ( che aveva interrotto la marcia del “socialismo dal volto umano” portata avanti dalla maggioranza del PCC). Si era creata una divisione irreversibile tra il gruppo dei “carristi” molto legati ai filosovietici del PCI e intellettuali critici del calibro di Lelio Basso e Vittorio Foa;

3) Nel quadro che aveva portato alle elezioni anticipate, era risultato non secondario il contrasto verso quel processo di modernizzazione sul piano civile e del costume che, in quel momento, disponeva di un punto di riferimento emblematico nella legge sull’introduzione del divorzio. La legge che introduceva il divorzio in Italia era stata appena approvata dal parlamento su iniziativa di socialisti e liberali e osteggiata dalle gerarchie cattoliche fino al punto di promuovere un referendum abrogativo (poi svolto nel maggio del 1974). Il mondo cattolico si trovava in una situazione di grande fermento e le spinte dello stesso Concilio Vaticano secondo avevano prodotto fenomeni socio – politici di grande interesse a partire dalla scelta “socialista” compiuta dalle ACLI tra il 1970 e il 1971 e dallo scontro aperto sul tema dell’unità sindacale che stava attraversando la CISL. Emergevano poi forti tensioni tra la Chiesa Ufficiale e molte comunità di base e andavano formandosi gruppi di “Cristiani per il socialismo” mentre dalle stesse ACLI l’ex-presidente Livio Labor , dopo aver organizzato un Movimento Cristiano Lavoratori (MCL) aveva promosso un vero e proprio movimento politico: MPL, Movimento Politico dei Lavoratori.

In questo contesto, fin qui schematicamente descritto, si andò alle elezioni con una forte richiesta di “legge e ordine” da parte di settori economici e della borghesia che avevano organizzato, rispetto all’effervescenza sociale in atto, il movimento della “maggioranza silenziosa” fiancheggiatrice della destra e anche di quei settori contigui al terrorismo nero collegato a servizi segreti deviati e ad ambienti militari para- golpisti, come nel caso del gruppo della “Rosa dei Venti”.

Il quadro politico si presentava così, da un lato, con la prospettiva di una forte avanzata del MSI: una previsione basata sui risultati delle elezioni amministrative del 1971 in particolare nelle grandi città del Sud e dell’incertezza per la presenza, a sinistra, di diverse liste di contestazione verso il PCI.

Al termine di un forte dibattito interno era presente anche la lista del “Manifesto” nella quale si era raccolta parte della tensione anche di tipo organizzativo che attraversava il gruppo escluso dal PCI e la tensione di molti militanti verso la costruzione di una forza politica alternativa: una tensione che poi avrebbe successivamente dato vita ad alterne fasi di costruzione organizzata con la successiva complessa vicenda del PdUP per il Comunismo.

Ciò che può interessare però in questo momento di rievocazione è riferire l’esito di quelle elezioni.

Il risultato complessivo risultò, alla fine, ben diverso dai timori e dalle speranze di molti.

Si verificò infatti uno dei più bassi tassi di cambiamento rispetto alle elezioni precedenti in tutta la storia repubblicana, superiore soltanto a quello fatto registrare con le elezioni del 1958.

La partecipazione elettorale risultò molto elevata, crescendo ancora leggermente rispetto al 1968, in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale.

Malgrado le attese di cambiamento la DC si attestò agli stessi livelli di voto del 1968, mantenendo inalterata anche la distribuzione territoriale, così come anche per il PCI che, però, riequilibrò il voto aumentando al Nord (evidentemente capitalizzando le lotte operaie) e scendendo leggermente al Centro – Sud.

Risultarono del tutto negativi i risultati di quelli che, con un certo senso di anticipazione l’Atlante Elettorale di Corbetta – Piretti (Zanichelli 2009) definisce già come “partiti della sinistra radicale".

Nell’occasione PSIUP, Manifesto, MPL, e PC m-l raccolsero complessivamente il 3,3% a livello nazionale, ben al di sotto del risultato del solo PSIUP nel ‘68 (4,4%) con il mancato “quorum” e la dispersione di oltre un milione di voti.

PSI e PSDI tornarono a presentarsi separati con esito negativo: il PSI accusò una flessione del 4% rispetto al 1963 con una perdita più accentuata al Centro-Nord e il PSDI arretrò dell1% che fu guaadagnato dal PRI il cui aumento si concentrò nelle circoscrizioni settentrionali.

Netta sconfitta per il PLI (-1,9%): evidentemente la borghesia, in particolare al Nord, aveva ritenuta esaurita una possibile spinta “eversiva” della formula di centro – sinistra che invece aveva premiato i liberali nel 1963, mentre il vero vincitore delle elezioni anticipate risultò essere il MSI, nelle cui fila nel frattempo erano confluiti i monarchici dato vita alla lista del Movimento Sociale – Destra Nazionale. L’estrema destra aumentò del 4,3% (raddoppio rispetto al 1968) con una chiara affermazione al Sud.

Si formò così il governo Andreotti II detto l’Andreotti-Malagodi, nato essenzialmente per il rifiuto dei socialisti a sedere ad un tavolo di trattativa che comprendesse anche i liberali. Fu un esecutivo malvisto anche da vasti settori della DC.

Il secondo governo Andreotti per un anno dovette affrontare l’insidia dei franchi tiratori, che lo mandarono sotto più volte, tirando avanti soltanto per la mancanza di un’alternativa che sarebbe poi emersa alla vigilia del congresso democristiano.

In quel congresso un accordo tra Moro, Fanfani e Rumor portò, nel luglio del 1973, alle dimissioni del governo e al ritorno al centro – sinistra: nel settembre di quell’anno però si verificò il “golpe” in Cile e il segretario del PCI Enrico Berlinguer, proprio in esito ad una analisi relativa a quel tragico fatto, lanciò la proposta di compromesso storico modificando in quella fase i termini del dibattito politico in Italia.

Si avviò così una storia diversa che meriterebbe ancora oggi un ulteriore approfondimento d’analisi.