TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 28 aprile 2010

Ipazia. Quando la filosofia è l'unica via per la libertà



In un mondo lacerato da conflitti politici e religiosi c'è spazio per la filosofia? E' la domanda che pone il film Agorà da pochi giorni nelle sale italiane.


Armida Lavagna

Ipazia. Quando la filosofia è l'unica via per la libertà



“L’idea di non avere un centro mi spezza il cuore”.

Vediamo Ipazia la prima volta davanti ai suoi discepoli. Insegnante brillante, attenta ascoltatrice, scalza. Sotto i suoi piedi la terra, sotto la terra quel centro che sembra costituire per lei l’unica certezza, il punto di partenza, l’assioma irrinunciabile. L’unica altra certezza che rivendica è che lei e i suoi discepoli – a prescindere dai loro diversi orientamenti religiosi o di pensiero – sono tutti fratelli. Perché guardandosi tra di loro tutti dovrebbero arrivare alla conclusione che è molto di più ciò che hanno in comune che ciò che li divide. Entrambe le certezze finiranno per sgretolarsi.
La seconda nel dolore, nel tradimento, nell’impossibilità di cambiare il corso di un processo che nemmeno l’amore basta ad arrestare; in una condanna a morte feroce e insensata, eseguita con la stessa furia zelante e cieca con la quale mani altrettanto sacrileghe e impietose si erano avventate sull’unica cosa che era più pericolosa di quella donna astronoma e filosofa: i suoi libri e il luogo dei libri, la biblioteca di Alessandria, rifugio di un pensiero libero dagli opposti dogmatismi, dalle opposte fedi sbandierate con la bava alla bocca e la spada in pugno, dal fanatismo governato e organizzato da abili uomini di potere o da predicatori che parlano convinti di parlare nel nome di un Dio o degli dei, convinti “di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”, direbbe De André.
La prima invece è demolita da Ipazia stessa, attraverso il suo coraggio implacabile, che le ruba il sonno e gli affetti, che la consacra ad una vita unidimensionale perché quella è l’unica via per mantenere ciò che è più importante per lei: la libertà. La libertà di parlare, di insegnare, ma prima di tutto di praticare la filosofia e la scienza, come spiega con drammatica efficacia ai suoi ex-discepoli: “Voi non potete mettere in discussione ciò in cui credete. Io devo”. E mettendo in discussione quella sua unica certezza, mettendo in discussione il cerchio, cioè la perfezione, Ipazia ha un’intuizione che solo dopo milleduecento anni sarà verificata.
In fondo, Oreste, il discepolo apparentemente meno brillante, è quello che più le dà stimoli per la sua riflessione, quello meno lontano dalla verità (anche quando ritiene inconciliabili la perfezione del cielo e la condotta umana, tutt’altro che vicina alla perfezione...); ma Oreste non compie mai il passo successivo, si ferma, rinuncia a cogliere le possibili conseguenze di un’ipotesi, a vedere le cose da un nuovo punto di vista nel loro insieme. Cosa che comporterà tra l’altro la sua fine politica, in uno di quei frequenti momenti storici in cui si intrecciano religione e politica, fanatismo e tensioni sociali (queste ultime purtroppo solo alluse nella figura dello schiavo fedele e infedele), ricerca del capro espiatorio per la fine di un’epoca.



“Filosofia! Proprio quello di cui abbiamo bisogno, di questi tempi!”. Gli uomini potenti di Alessandria trattano con disprezzo quello che appare loro come un inutile orpello in tempi in cui l’impero lotta per la sua sopravvivenza, loro stessi lottano per la propria sopravvivenza, una cultura millenaria e i gli esiti migliori del suo pensiero lottano per la sopravvivenza.
Questa è la frase che dovrebbe accompagnarci fuori dalle sale cinematografiche. Abbiamo bisogno, invece, di filosofia, in tutti i tempi. Abbiamo bisogno di non salire sulle barricate, di non progettare crociate, di non chiuderci in una fortezza che sentiamo minacciata da chi ci pare diverso da noi. Di non proclamarci detentori di verità assolute, nessuno, ma ricercatori di ciò che altri dopo di noi miglioreranno o confuteranno. Abbiamo bisogno di quello che alcune sapienti inquadrature ci suggeriscono, quando i papiri della biblioteca volano sulle nostre teste e il mondo per un istante si capovolge, o quando dai primissimi piani con il sangue che schizza sulla macchina il punto di vista si sposta fino all’universo, un universo vuoto di divinità o se non tale inorridito e sgomento di fronte all’insensatezza dell’uomo; o si sposta anche solo di qualche metro più in alto rispetto a quei piedi poggiati al suolo, quanto basta perché gli uomini affannati a scannarsi e a distruggere il sapere sembrino scarafaggi impazziti.
E’ il tema dello “sguardo dall’alto” – amato proprio dalla filosofia e dalla letteratura antiche - che disvela impietosamente l’assurdità di certe contese umane, che riduce ad insetti le minacciose folle trascinate alla strage dai loro capi, che denuncia l’arroganza di ogni essere umano o gruppo di esseri umani che ritenga di poter imporre ad altri la propria verità, qualunque essa sia.



Armida Lavagna, savonese, insegna Lettere in una Scuola Secondaria. Si occupa per Vento largo di letteratura e di cinema.