TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 9 aprile 2012

Luigi Vassallo, Quando le parole ci ammalano le parole possono guarirci




In un mondo fatto di solitudine, la perdita di senso delle cose (e delle parole) produce un male di vivere profondo e lacerante. Ma, come scrive Luigi Vassallo in questa riflessione di cui pubblichiamo la prima parte, se le parole ci ammalano, le parole possono anche guarirci. E ciò avviene solo in una relazione autentica con gli altri, rispecchiandosi negli altri, ritrovando così il senso profondo delle cose e dunque anche se stessi.

Luigi Vassallo

Quando le parole ci ammalano, le parole possono guarirci
Appunti per una pratica filosofica come terapia



Nella manifestazione che chiamiamo “malattia” si intrecciano 2 componenti: una componente oggettiva e una componente soggettiva.


La componente oggettiva consiste in una serie di reazioni e modificazioni di carattere fisico, chimico e/o relazionale che investono il nostro corpo. Definita in questi termini, la componente oggettiva della malattia coincide con una delle tante manifestazioni di vita biologica, che sono appunto reazioni o modificazioni di carattere fisico, chimico e/o relazionale.



La componente soggettiva consiste nella relazione che il singolo soggetto umano instaura con le suddette modifiche biologiche. E’ questa relazione che classifica o non classifica la modificazione biologica come malattia e lo fa in base a parametri individuali e/o sociali di ciò che si intende come “bene” o “male”. Ed è proprio la componente soggettiva che si interroga del perché della malattia e afferma quindi il bisogno di trovare un senso a ciò che è stato classificato come malattia. Sia nella classificazione che nella ricerca di senso sono le parole a tracciare la rotta, parole ripetute e tramandate ma non sempre ripensate da chi le riceve e a sua volta le ripete e le tramanda. Ecco perché le parole, quando sono autonome da una valutazione critica di chi le usa, possono ammalarci perché ci trasmettono una classificazione della malattia che non necessariamente abbiamo acquisito criticamente e consapevolmente.



Una definizione data un po’ di anni fa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità della “salute” dice che “salute” significa:
Star bene con se stessi.
Star bene con gli altri.
Star bene con le istituzioni.



Star bene, cioè trovarsi a proprio agio sia nella dimensione individuale (con se stessi) che nella dimensione relazionale (con gli altri), che nella dimensione della cittadinanza (con le istituzioni).



Siamo capaci di stare a nostro agio con noi stessi? Ad esempio, se un treno è in ritardo e siamo “condannati” ad una lunga attesa, stiamo bene con noi stessi o ci sentiamo nervosi e infastiditi dal ritardo, dalle cose che dovremmo fare e non possiamo fare?



Aristotele (IV secolo prima di Cristo) dice che la domanda filosofica (cioè la richiesta di senso) nasce dallo stupore o, meglio, dallo sbigottimento di fronte al mondo e di fronte alla vita. Lo sbigottimento è dato dalla pluralità di fenomeni che si presentano allo sguardo degli esseri umani i quali, per liberarsi dal senso di smarrimento e di paura, cercano di mettere ordine nel disordine che si trovano intorno. Così i più antichi filosofi (parlando del nostro Occidente a partire dal VII – VI secolo prima di Cristo, ma ovviamente c’è un percorso, talvolta alternativo, che interessa l’Oriente) hanno cercato principi unificatori del mondo (filosofia della natura) e della vita umana, individuale e sociale (filosofia morale).



La filosofia, dunque, nasce come ricerca di risposte sensate a domande come Chi siamo noi? Qual è il nostro posto nel mondo? Cos’è la natura?



Ma, se queste sono le domande dei filosofi, non è che le donne e gli uomini comuni non si pongano anch’essi domande “filosofiche”. E’ una domanda filosofica quella che molti rivolgono (magari alla divinità o al destino o al nulla) quando, di fronte alla notizia di un male incurabile o a una disgrazia, esclamano Perché proprio a me? oppure Perché proprio alla mia famiglia?
Ed è ugualmente filosofica la domanda (anche questa a volte rivolta alla divinità) che persone sensibili pongono di fronte a scene strazianti di miseria in altri Paesi o di fronte a notizie di stragi efferate: Perché tutto questo?



C’è un’oggettiva analogia tra la medicina e la filosofia. La medicina (sia nella versione occidentale, che seziona il corpo nei vari sintomi della malattia, sia nella versione orientale, che inserisce la malattia nella totalità della persona) cura o cerca di curare le alterazioni del corpo. La filosofia cura o cerca di curare le alterazioni dell’anima. L’una e l’altra mettono a disposizione dei “malati” rimedi intesi a ridurre o eliminare le alterazioni e a ripristinare l’ordine funzionale del corpo (la medicina) o dell’anima (la filosofia).



Che vuol dire allora fare filosofia? Nella tradizione popolare è presente un’immagine sostanzialmente negativa del filosofo. Già nell’antichità era tramandato, ad esempio, l’aneddoto della vecchia che deride Talete. Il filosofo (VII – VI secolo prima di Cristo) camminava una sera guardando le stelle, come se cercasse un principio unificatore dell’universo, ma non si accorse di una buca davanti ai suoi piedi e vi cadde dentro; e la vecchia, deridendolo, gli chiese Ma come puoi guardare le stelle se non vedi nemmeno dove metti i piedi? E ancora un po’ in tutte le lingue è diffusa un’espressione come Non fare il filosofo, per dire Non fare chiacchiere. D’altra parte nella tradizione popolare è presente anche l’espressione Prendersela con filosofia, che vuol dire saper affrontare la vita senza farsi travolgere dalle varie situazioni.



Ma cosa fa in concreto il filosofo oppure chi, senza essere filosofo di professione, assume un atteggiamento filosofico verso la vita?



Per Pitagora (VI – V secolo prima di Cristo) la vita è un mercato: al mercato alcuni ci vanno per fare affari, altri per distrarsi, altri (e questi sono i filosofi) per guardare disinteressatamente.



Per Eraclito (VI – V secolo prima di Cristo) essere filosofo non significa sapere molte cose perché sapere molte cose non garantisce l’intelligenza cioè la comprensione delle cose; essere filosofo significa ricucire le esperienze riportandole a un principio unitario. La parola logos usata da Eraclito rimanda proprio alla “raccolta”, alla “ricucitura”, al “discorso che dà senso”.



Per Platone (IV secolo prima di Cristo) non serve a nulla saper produrre ricchezze o strumenti musicali se non si sa usare le ricchezze o non si sa suonare gli strumenti: un conto, cioè, è il sapere tecnico (saper fare), altra cosa è il sapere filosofico (sapere perché si fa e che senso ha fare).



Per star bene, cioè a proprio agio, con qualcuno, bisogna conoscerlo. Quindi, per star bene con noi stessi, bisogna conoscere chi è “io”. “Io” è parola che usiamo abitualmente dandone per scontato il significato: io penso … io faccio … io sono libero … io ho il diritto … io voglio … Ma IO chi?
L’antica saggezza greca si fondava su due massime: Conosci te stesso e Niente troppo.



Conoscere se stesso significa riconoscere che “io” è il risultato di due componenti: la componente biologica o genetica (trasmessa con l’atto sessuale dai propri genitori) e la componente culturale (trasmessa intenzionalmente o anche non intenzionalmente da tutte le occasioni di incontro che ci sono capitate: dalla famiglia alla scuola, alla strada, alle persone che abbiamo conosciuto, alla società in tutte le sue articolazioni). Insomma “io” è il prodotto della propria storia, biologica e socioculturale.



In questa storia a dominare è il determinismo, cioè la serie di condizionamenti che ci troviamo addosso, dai genitori che non abbiamo scelto a tutte le vicende che ci sono capitate, secondo una catena di concause nella quale a volte abbiamo avuto la possibilità di scegliere, ma, scegliendo, abbiamo aperto un altro segmento di catena di concause a prescindere dalla nostra volontà. Non c’è libertà allora? La libertà potrebbe esserci alla fine, non all’inizio della storia di cui l’”io” è il prodotto: libertà è riconoscere la catena di concause che hanno determinato la propria storia e individuare quali fattori o variabili hanno inciso sulla nostra storia, per decidere se accettarli consapevolmente facendoli veramente nostri o metterli in discussione provando a modificare (ma ovviamente non è processo semplice) la catena di concause che costituisce la nostra storia.
Conoscere se stesso, dunque, significa riconoscere il dato biologico e il dato socioculturale della nostra storia; significa conoscere la natura dell’uomo (in generale) e conoscere il proprio modo (in particolare) di essere uomo.



Conoscere vuol dire raccogliere gli elementi della nostra conoscenza in un quadro significativo. La modalità umana di conoscenza non è una rappresentazione trasparente della realtà, ma è sempre una riorganizzazione della realtà in uno schema interpretativo. Insomma noi non conosciamo il mondo, ma solo la nostra interpretazione del mondo. Questo vale per la conoscenza scientifica, che, infatti, in epoche diverse, sulla base di nuovi dati o nuove interpretazioni, ha prodotto modelli di conoscenza diversi tra loro: pensiamo al sistema tolemaico (con la terra al centro dell’universo) e a quello copernicano (col sole al centro del sistema solare); entrambi i sistemi sono “veri” in relazione ai dati considerati e interpretati. Ma questo vale anche per la conoscenza o, meglio, l’orientamento nel campo relazionale umano, dove singole parole possono provocare atteggiamenti contrastanti a seconda del sistema culturale di riferimento. Nella seconda metà del XX secolo padre Camillo Torres redasse un’inchiesta linguistica nell’America Latina, nella quale una stessa parola (esempio “Rivoluzionario”, “Giustizia” ecc.) riceveva interpretazioni diverse (e, quindi, si accompagnava a comportamenti diversi) a seconda che a pronunciarla o ascoltarla fosse un membro della classe dominante o degli strati popolari.



E allora cosa vuol dire conoscere la natura? Vuol dire utilizzare, consapevolmente o meno (cioè usando in maniera cosciente le parole oppure ripetendo passivamente le parole facendosi parlare da esse, anziché parlarle) un modello interpretativo della natura. Nel nostro Occidente i modelli interpretativi fondamentali della natura sono quello dell’antica concezione greca e quello giudaico-cristiano.



La concezione greca antica guarda alla natura come a un ordine immutabile, che né gli uomini né gli dei possono sovvertire, essendo tale ordine vincolato dall’ananke (cioè dalla necessità). L’uomo non può dominare la natura, può solo svelarla: non a caso la parola greca che traduciamo con “verità” è aletheia che vuol dire svelamento. L’uomo è chiamato a contemplare la natura per svelarne i principi ordinatori dai quali deve ricavare le conoscenze e le regole per un ordinato agire umano. Non a caso i primi filosofi greci si considerano “cosmopoliti” che letteralmente rimanda a un’idea della polis (cioè della città) fondata sul kosmos (cioè sull’ordine della natura).



Nella concezione giudaico-cristiana invece la natura è effetto della volontà di Dio che la crea e la consegna all’uomo. L’uomo ha il dovere (ereditato da Dio) di dominare la natura. La natura non ha un suo significato autonomo ma solo un significato antropologico-teologico cioè ha significato solo se entra nel progetto dell’uomo e nel progetto di Dio. Indagare la natura, allora, non significa contemplarne l’ordine immutabile, significa, al contrario, finalizzare la natura alla progettualità umana: è quello che hanno fatto la scienza e la tecnica nel nostro Occidente fino a ridurre la natura (nelle sue componenti minerali, vegetali, animali) a materia per la crescita economica e per il dominio del pianeta, col rischio di ridurre a materia anche la risorsa umana.



Conoscere la natura umana significa riconoscere che la vita dell’uomo è inserita nel ciclo di nascite e morti che caratterizza la natura nel suo complesso. In questo ciclo la morte è limite naturale della vita: tale limite può essere inserito e riconosciuto nel modello greco della natura (come realtà immodificabile) o nel modello giudaico-cristiano (come evento che acquista senso storico nell’adesione al progetto di Dio sull’uomo).



In ogni caso, che si aderisca al modello greco o a quello giudaico-cristiano, che si creda al ciclo che si rinnova dell’alternarsi delle stagioni (modello greco) o all’apertura a un futuro che modifica il presente e ricostruisce la catena degli eventi in una storia che agli eventi dà un senso e una prospettiva (modello giudaico-cristiano), conoscere la natura umana comporta anche la domanda: l’uomo è un animale particolare o è altro dall’animale? In altre parole l’uomo è un animale che ha sviluppato capacità che gli altri animali non hanno o la sua essenza è altro dall’animalità sia pure di grado superiore? Non è questione oziosa. Già gli antichi filosofi si chiedevano se l’uomo è intelligente perché ha la mano o ha la mano perché è intelligente: l’intelligenza è il prodotto di un’abilità corporale o preesiste all’abilità corporale e la determina? Anche in questo caso è questione di modelli interpretativi ai quali facciamo riferimento. Il problema è che a volte facciamo riferimento a un modello interpretativo senza esserne consapevoli e finiamo o col contraddirlo, senza rendercene conto, con i nostri comportamenti concreti oppure con l’irrigidirlo fino a farci fondamentalisti.



L’alternativa al modello dell’uomo come animale di grado superiore è il modello dell’uomo come altra cosa rispetto all’animale: humanitas contro animalitas. In questo modello lo specifico dell’uomo non è più aver sviluppato capacità che gli altri animali non hanno sviluppato, ma è “esistere”, dove esistere significa “mettersi fuori” cioè “tenersi aperto a ogni possibilità” (existentia, dove ex indica proprio lo star fuori). In questo modello l’humanitas non è un’animalitas di grado superiore, è, al contrario, un’apertura al mistero dell’essere e delle sue possibilità.



Conoscersi, dunque, comporta la capacità di guardare nella propria storia individuale (che è intreccio di genetica e cultura) per ritrovare in essa il proprio progetto di vita, che, se fatto proprio consapevolmente, traccia il percorso personale verso la libertà. Nell’apertura al possibile (all’”isola che non c’è”) non è che l’essere umano possa percorrere qualsiasi rotta, ma solo quella che è fatta per lui (o per lei): questo a prescindere dal fatto che si voglia credere in un progetto divino sull’essere umano o in un progetto che si è autodeterminato storicamente attraverso la catena delle concause o in un progetto puramente casuale cioè prodotto da casuali ricorrenze di variabili.



Comunque si voglia interpretarlo, solo quel progetto, e non un altro, è il “mio progetto di vita”, quello che dà sostanza al mio “io”. “Io” sarò veramente “io” solo se diventerò ciò che posso diventare: i guai vengono, diceva Dante, dal fatto che gli uomini vogliono fare re chi è nato per la vita religiosa e vogliono costringere alla vita religiosa chi è nato per fare il re. Questo vuol dire riconoscere il limite. E veniamo alla seconda massima dell’antica saggezza greca: Niente troppo.