TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 7 giugno 2012

Gianluca Paciucci, Su guerre e violenza




Una riflessione di Gianluca Paciucci su un tema purtroppo sempre molto attuale. L'articolo verrà pubblicato sul numero di settembre di Guerre&Pace.


Gianluca Paciucci

Su guerre e violenza. Alcuni libri


Il primo libro di cui ci occupiamo è un libro agghiacciante: Perché siamo così ipocriti sulla guerra? (Milano, Chiarelettere, 2012, pp.84) del generale Fabio Mini, “capo di stato maggiore del Comando Nato in Sud Europa”, “comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo”, leggiamo nella nota bio-bibliografica. È agghiacciante perché con secca enfasi vuole mostrarsi controcorrente ('ora vi mostro come sa scrivere un generale italiano, come sa essere superiormente anticonformista...') e che invece è pieno di luoghi comuni. Nei capitoli del volume, una domanda, quella del titolo, e cinque risposte, Mini pronuncia accuse implacabili al complesso militare-industriale che domina il mondo: uso costante dell'inganno (il banale “la verità è la prima vittima della guerra”, p.21); legame tra guerra e potere economico (“...la guerra è una questione di profitto, spesso sporco, e gli Stati sono al servizio dei grandi affari mettendo a disposizione le risorse pubbliche e dando la copertura di legittimità all'uso della forza...”, p.35 con elenco di imprese i cui profitti sono aumentati a dismisura negli ultimi dieci anni); violazioni del diritto internazionale (come in Kosovo dove “abbiamo partecipato alla guerra umanitaria (...) senza alcun avallo preventivo delle Nazioni Unite, senza essere minacciati e schierandoci dalla parte di bande armate irregolari addestrate da mercenari americani [statunitensi, ndr]”, p.51); fascino della guerra (“l'ipocrisia serve a coprire il gusto della guerra, il piacere del combattimento, della conquista e della razzia”, p.61). 

Tutto bene, allora? Questo è un libro condivisibile anche dai pacifisti? No. L'alternativa che Mini propone non è certo, e nemmeno potrebbe esserlo visto il suo grado e la sua storia, un passaggio dalla denuncia all'azione contro la guerra, ma un'uscita dall'ipocrisia che permetta di dire la parola guerra, solo aggiungendovi l'aggettivo “necessaria” (“La guerra stessa non è una vergogna se è necessaria, se viene condotta salvaguardando la dignità e se viene affrontata come una cosa seria, una questione di vita o di morte per lo Stato”, pp. 56-7): un'uscita ipocrita dall'ipocrisia, una delle tante proposte dei finti anticonformisti degli anni nostri, come Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Massimo Fini, e tanti altri, troppi, e tutti maschi. Come può la montagna della requisitoria di Mini partorire il topolino di una proposta riassumibile nella massima di Sun-Tzu, ovvero che il generale migliore è “colui che è in grado di vincere senza combattere” (p.7)? Non gli passa per la testa che è in quel vincere che si riassume tutta la violenza del secolare dominio di patriarchi, generali e uomini d'affari? Di vittorie giuste e sanguinarie è piena la storia, a partire dagli sforzi antiumani compiuti per ottenerle: intere economie e milioni di vite programmate per il massacro. 

Che il libro di Mini piaccia anche a certa sinistra (“un lucido e attualissimo pamphlet (...) scritto da un tecnico che più politico e controcorrente non si può”, nell'intervista a Mini di Tommaso Di Francesco, “L'ipocrisia, un affare di guerra”, Il Manifesto 15.05 2012) non stupisce più di tanto. Una sinistra, questa, affascinata dalla geopolitica per cui poco resta all'autonomia dei popoli e niente, nei popoli, a quella del genere femminile, non a caso solo di sfuggita citato da Mini: la “nota debosciata” (che trivialità anticonformista) Elena (p.8) e Pentesilea: quando Achille “si rende conto di aver colpito a morte Pentesilea, l'avvenente regina delle Amazzoni, la stupra morente e dopo morta...” (pp.62-3). Certo, crimine di Achille, ma senza autonomie femminili, che pure la letteratura classica fornisce: pensiamo a Lisistrata (colei che scioglie gli eserciti) in Aristofane, su cui ragiona Rosangela Pesenti in “Lisistrata, l'ironica” (pp.83-88, in Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, Napoli, Intra Moenia, 2003, pp.287), oppure a altre figure della tragedia attica, studiate da Imma Barbarossa in “Cassandra e Medea: appunti sull'alterità femminile” (pp.89-108, nel volume appena citato), che scrive: “In guerra anche i vincitori perdono l'anima. E i vincitori della guerra di Troia troveranno durante e/o dopo il viaggio di ritorno lutti e devastazioni, anche dentro la cerchia familiare...”. Questo non consola, ma fa domande su cosa sia la vittoria, nei fatti, qualunque vittoria, e se le armi della pace, così disprezzate da Mini (v. paragrafo “L'ipocrisia della non violenza”, pp.26-28) non debbano essere rigenerate. È facile ironizzare su certi premi Nobel per la pace, alcuni dei quali autentici criminali, ne conveniamo, per sbarazzarsi di tutte le categorie di costruzione della pace. È ipocrita inganno.

È anche su questi nodi che si esercita il pensiero di Luisa Muraro in Dio è violento (Roma, Nottetempo, 2012, pp.75), già al centro di un dibattito in rete, in continuo aggiornamento. Il libro ruota attorno a punti di forte intensità. Innanzitutto Muraro propone un 'pensiero della diserzione' dalla politica corrente dato che, da molto tempo in qua, "niente è servito a niente" (p.15, nel caso paradigmatico dell'opposizione alla costruzione di una base militare USA a Vicenza) e che la "buona volontà" di chi si dà da fare per la pace e i diritti umani, cui va l'ammirazione dell'autrice, e l' "indignazione" sono solo "spreco di energia": "...La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l'arroganza dei potenti" (pp.26-29). La stessa "predicazione antiviolenza" (sempre quel sostantivo, predicazione, che, se non dispregiativo, è certo svilente) "nella misura in cui esclude a priori l'idea di una violenza giusta, favorisce l'abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria" (p.34). Qui, oltre ai sostantivi, sono gli aggettivi a farsi avanti: giusta, necessaria (come in Mini, ahinoi), e poi -negli ultimi decenni- etica, umanitaria, etc. Certo il caso di Srebrenica subito dopo riportato da Muraro, tocca una ferita aperta e formula domande a chi assistette al crimine: alle forze ONU, innanzitutto, complici del massacro, ma anche a chi non alzò la voce –a meno che non si creda nell'inevitabilità di certi crimini, in condizioni estreme, e quindi nell'inutilità di ogni intervento- e coltivò, nei casi migliori, l'umanitario.

Da qui Muraro passa alla definizione di azioni utili a mutare l'esistente, partendo dal pensiero della differenza (Carla Lonzi, e Clarice Lispector, in una citazione da Luisa Muraro, L'ordine simbolico della madre, 1991: "il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa", p.121). La prima azione è la promozione di una "indipendenza simbolica nei confronti dei mezzi e delle mediazioni del potere costituito, e dal potere stesso" (p.66), e cioè uno sganciarsi dal pensiero dominante per servirsi della differenza e praticarla cercando strade che non siano i sensi unici in cui il lessico dell'oppressione economica e di genere costringe tutte/i, compresi i più intransigenti nemici del sistema. La seconda è quella di combattere il torpore che si è impadronito di molti, cui unica presente soluzione sembra essere la jacquerie o un qualsiasi gesto esemplare, discutendo dei mezzi che ci si dovrà dare: non è l'azione violenta ad essere proposta, "ma l'azione possibile ed efficace" che può comportare "a volte una certa violenza" (pp.70-1). Quanta? "Quando è il caso di decidere come comportarci, regoliamoci come fanno le cuoche con il sale: 'Quanto basta'..." (p.71). Che è conclusione sconcertante di un discorso attento e profondo. 

È su quel 'quanto basta' che si infrange ogni parola e azione, e che rischia di promuovere sfiancanti discussioni e nuove disperazioni: devono essere i singoli protagonisti di un atto di ribellione a decidere fin dove arrivare? Concretamente, in una manifestazione di piazza, con gruppi diversi (il 15.10 2011 a Roma, ad esempio), ognuno potrà spingersi fin dove vuole? Dal nonviolento radicale a chi ricerca lo scontro col nemico e, oltre, a chi sceglie armi da fuoco, purtroppo non prive di virile fascino per troppi (padri di famiglia, malviventi, poliziotti, antagonisti...)? Qui si ricade nel mondo dell'opinione, e dei diritti postmoderni: io ho diritto a esercitare la violenza (o la nonviolenza) che io reputo necessaria, e se tu me lo impedisci sei un servo. Opinione contro opinione, preda dell'estro (da non confondersi con lo spontaneismo), senza i minimi fondamenti di verità e nemmeno di pratiche politiche consolidate, essendosene interrotta la trasmissione generazionale. Questo dibattito invece tocca corde di tale sensibilità, che è opportuno poggiarlo su parole e pratiche di classe e di genere libere dagli sterili dualismi del pensiero dominante (violenza/nonviolenza), da questo simbolicamente e, quindi, politicamente indipendenti. In questo, non conseguente con sé stessa, Muraro ha ragione.