TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 27 settembre 2012

Francesco Biamonti e il vento largo verso il mare


Domenica 30 settembre al Monastero di San Pietro in Lamosa a Provaglio d'Iseo (BS) si svolgerà una giornata di approfondimento sulla figura di Francesco Biamonti nel contesto di una più complessiva riflessione sulla poesia, musica e cultura ligure del Novecento. Un luogo bellissimo per un'iniziativa di grande spessore. 

Marco Ciriello
Biamonti e il vento largo verso il mare
La Francia è oltre la valle. A uno sbuffo di vento. Stesso cielo. Mondo diverso. Se sai ascoltare si vede già, come la Shanghai che scorgeva Paolo Conte guardando a orecchio in fondo ai viali di Vienna. È una questione di musica, atmosfere, sensazioni. Passaggi e passaggi di genti. Un solo salto. Per andare a star bene. Salvarsi. Dire addio a errori e malefatte. Vite sbagliate, delitti. Senti la scia della fuga. La libertà nei campi. Scontri, sangue e amicizie che stanno intorno. Respiri trattenuti. Attese di luna. Inganni e amori. Uomini che si sbarbano alle fontane per strada. E gambe di donne da guardare e riguardare. Naviganti in fuga. Stranieri in marcia. Fuggiaschi e turisti. Pescatori e contadini. Malviventi che si giocano l’ultima carta. Passeur e migranti. Belle di giorno che tentato la svolta. Ville, palme e lingue che si mescolano. Prima del passaggio c’è il peccato da commettere, consumare, bruciare. Per ogni notte che cala c’è un copione da rispettare.
E se ti va male puoi sempre scappare a Marsiglia, prigioniera del mare che le sta tra le viscere. Terra di confine e svolte: la Liguria. Terrazza del nord sul mare. Attese ed evasioni. Una cerniera. Pazienza e passione. Lenta costruzione e corse per dimenticare. Una bandiera di terra e colori differenti. Abitudini e costumi. I paesi dell’entroterra sono scale di terrazzi. Quelli sul mare: grovigli d’hotel. Entrambi hanno scavato per sopravvivere. Si sono dovuti conquistare la permanenza. I primi per farci stare gli ulivi, gli altri per creare alloggi. Mettere e levare. Ridisporre, inventarsi, costruire e coltivare. Due modi diversi di allungarsi al domani. Il mare infrange e la montagna assolve. L’interno è protervo, felice della sua incolumità. Case e coltivazioni si contendono lo spazio in bilico sul vuoto. Chi si affaccia sul mare, invece, guarda avanti, sempre alla prossima stagione, al trucco, al nuovo tratto da concedere. Tira su palazzi e ragiona, solo, sul come stiparci la gente per l’estate che verrà.
Gli altri, quelli di terra, stanno lì a curar fiori e difendere alberi. Sono diversi. «Vi sono due Ligurie... una costiera, con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera; io sto sul confine». Tutta qui la differenza. Coppia a incastro. Chissà fino a quando funzionerà. San Biagio della Cima (Imperia) è una cascata di case che dal monte scende a gonfiare la valle. E di fianco nastri su nastri di terra, intervallati da muri a secco. In mezzo costruzioni alte, snelle, dai colori pastello. E sotto i carruggi: passaggi fra case. Cunicoli da talpe. Un sali e scendi di valli, imbuti, costruite su un fianco o su entrambi. In testa i paesi e sotto le strade e le serre. O arroccati a picco sulla valle o distribuiti lungo la costa montuosa, c’è poco da scegliere, le linee impervie liguri questo concedono, ai paesi non resta che adeguarsi. Rocce che fanno da pareti ai torrenti. Il paesaggio è arido. Scosceso. O trovi un piano e ti arrocchi come Apricale, oppure scavi, tentenni, terrazzi, ci provi e ti sistemi lungo la linea che da monte scende a valle come San Biagio. Una curva di tetti e finestre che scivola giù in una pozza: cemento, pietre, asfalto, morendo sulla strada: tortuosa, quasi sempre.
A valle di San Biagio sta la casa di Francesco Biamonti. Un vero grande scrittore. Uomo pieno di malinconia e umorismo. Una barca fra questi due mari. Uno di quelli che incontri e ti accende la vita. Svolti, diventi un altro. Silenzioso, riservato, reticente. «Sono asociale ma socievole, mi piace meditare un po’ ecco». La sua scrittura è un esperimento singolare. Leggerezza che sembra disfarsi sotto i colpi della lettura. Né eredi né allievi. Puoi leggerlo, compiacerti, ma se non hai radici, sguardo, e soprattutto se non ti sei perso in queste valli o arrampicato fra gli ulivi, non vedi, né scrivi.
Erminio Ferrari ne ha fatto un personaggio di un bel romanzo, così è diventato Fransè (Casagrande editore), ma le sue notti chiuse in fitte e leggere costruzioni sono inimitabili. Meccanica per parole. Poche invidiabili parole. Nate da una sottrazione paziente. Scarni fogli. Frasi secche, opportune, mai fastose. Una scrittura pulita come ossa. Passata al setaccio. Depurata. Vista e rivista. Un duro esercizio di rinuncia. Sapiente taglio del superficiale. Occhio. Respiro. Ritmo. Pagine precise. Masticate, meditate, a lungo. Dialoghi asciutti. Descrizioni minuziose di un rigo solo. Cielo, mare, luce, natura. Prima di lui il paesaggio ligure era Ossi di seppia di Montale, i versi del Caproni genovese, Biamonti li affianca e non solo, offre anche una lingua nuova. Lirica sì, ma condensata di silenzi, omissioni. Giocata sul non detto. Spazi da guadagnare. Scorgere. Cercare. Il suo mare è contraltare al cielo, da meritare. Ricordo lontano. I suoi personaggi si muovono fra rocce e arbusti da lasciarsi alle spalle, perlopiù. Stanno in equilibrio sul confine. La loro è attesa prima della vita nuova. Occasione, ultima. Pronti anche a cadere. Perdere, scomparire. Corse in salita. Su strade rubate al cielo.
Passi come quello «della morte» da superare. Natura che evolve. Maniacale attenzione al variare di questi segni: alberi, foglie, fiori. Muto stupore da cogliere. Serbare, portarsi dietro. Lo stesso che albeggia negli occhi, velati da una montatura d’osso, di Giancarlo Biamonti, il fratello. Un giardino di viti lo separa dall’abitazione che fu dello scrittore. Una casa regolare, bassa, spartana, in pietra. A sinistra la scuola gialla, intono: un timo, un cedro del libano e un limone. Sopra c’è il paese di San Biagio.
Giancarlo Biamonti somiglia tantissimo a Fransè, anche nella dolcezza dei modi. Pensionato che si è gettato a capo fitto nella cura della campagna, per anni ha viaggiato. Prima facendo la spola dalla Somalia all’Italia, commerciava banane, e la sua nave aveva un nome magnifico, FrigoAfrica, un ossimoro. «Il ricordo più bello? Stare per ore sul fiume Giuba in attesa, per vedere gli animali venire a bere, mentre il giorno si spegneva». Poi in giro per il mondo come delegato di una società di gasdotti. Tutto per tornare qui. Di nuovo. Felice. Il motivo lo andiamo a vedere insieme. «Cian de Cui» il luogo di Biamonti. Un meraviglioso pezzo di terra sotto la roccia di Santa Croce, sì, quella de L’angelo di Avrigue. Dietro ci sono la val Nervia, poi la val Roja e dopo la Francia. È questo lo sfondo dei romanzi. Solo che Biamonti ha accorciato le distanze. Ma lui aveva geografia e nomi immaginifici, sporcati appena dalla realtà.
Qui veniva a vedere, prendere, riflettere. Un piccolo bosco. Dal quale si domina la valle, e non basta la vista a farne un posto da non lasciare più. Intorno ci sono ulivi colossali, biforcati, incantevoli, solenni, ultracentenari. Frondosi, larghi, barocchi vanno in alto, si fanno largo, salgono al cielo, e sotto hanno radici che gradasse imperiose, escono. «Sono piante minerarie» diceva a Giulio Einaudi, mentre l’editore abbracciava gli alberi come un bimbo. «Che ne sarà un giorno dei miei ulivi con la loro purezza francescana? Dei loro licheni, delle loro muffe? Lavorano notte e giorno, sotto il sole e sotto le stelle per aggiogare la terra al cielo». E poi mimose che spuntano da vecchi muri a secco di pietre gialle e marroni e tane di tassi che bucano i ciglioni. E cipressi, pini, sorbi, limoni, fichi, in disordine solo apparente. Qua e là c'è qualche palma - un vezzo - di cui il fratello quasi si scusa. In fondo invece c'è un nespolo, solitario, aguzzo, di una bellezza aristocratica. È lui a congedarci. Torniamo alla casa Biamonti dove c’è l’associazione e il segretario tuttofare: Gian Luca Picconi, giovanissimo insegnante, con lui anche Federica Cappelletti, una persona molto cara a Fransè: occhi azzurri, profondi, languidi, una bellezza che con gli anni ha cambiato forma ma non l’ha lasciata, donna di fascino, insegnante, che ci porta nello studio dello scrittore, ma non riesce a dirci nulla e a noi basta il suo sguardo, la sua commozione.
Il presidente dell’associazione sta a Bordighera, è un libraio: Corrado Ramella. «È un’assenza che pesa, quella di Francesco, che il tempo non attenua ma appesantisce». Giovane, colto, ha una piccola ma fornitissima libreria in una piazzetta del paese. In questo posto Biamonti passeggiava spesso di notte con lui e con altri amici. Fra lo sfarzo delle ville liberty, che hanno giardini invidiabili, ora blindati da grossi muri, da cui emergono solo svolazzanti palme che il vento arruffa. Trent’anni fa dovevano essere meravigliose. Passeggiarci di notte, poi a maggio, era un’esperienza.
Spesso con lui c’era Giorgio Loreti, ferroviere in pensione, fulminato da Fransè quando lavorava alla biblioteca Aprosiana di Ventimiglia. «Correva voce che ci fosse questo bibliotecario coltissimo che aiutava studenti e consigliava libri stupendi». Ha un episodio per domanda. Forbito, acuto, riparte: «Sull’Aurelia, dove adesso ci sono palazzoni, si coltivavano carciofi, andavamo a cercare di notte i canti degli uccelli, pensi un po’». Negli ultimi tempi era lui che portava in giro Biamonti, dall’entroterra al mare, un richiamo: «Sembrava riempirsi gli occhi del paesaggio. Stava ore a guardarselo». Da qui si sente il mare respirare, muoversi lentamente. Delicato entrare fra le nostre parole. Dolore, letizia, delirio. A lui sarebbe piaciuta questa forzata intromissione.
(Da "Il mattino" del 5 giugno 2005)