TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 9 luglio 2015

Raffaele K. Salinari, Frankenstein reloaded



Il Golem era ritenuto incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché privo di un'anima che nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgli

Raffaele K. Salinari

Frankenstein reloaded


«Ti chiesi io, Crea­tore, dall’argilla di crearmi uomo, ti chiesi io dall’oscurità di pro­muo­vermi…?». Così parla Adamo dopo la Caduta nei versi del Para­diso Per­duto di Mil­ton. Oggi que­sta rela­zione tra crea­tore e crea­tura torna pre­po­ten­te­mente di attua­lità, spe­cie se l’agente cau­sale della crea­zione è l’uomo stesso. È recente, infatti, la noti­zia del riu­scito tra­pianto, per la prima volta in Europa — in Inghil­terra — di un cuore espian­tato da un cada­vere, di un organo cioè cli­ni­ca­mente morto, con­sen­tito da una tec­nica di «ricon­di­zio­na­mento» dei tes­suti. Una meto­dica che apre la porta all’entrata nella vita reale di quell’archetipo dell’immortalità fisica attra­verso la rivi­ta­liz­za­zione della mate­ria orga­nica, già magi­stral­mente illu­strato dal Frank­en­stein o il moderno Pro­me­teo di Mary Shelley.

I Pro­me­tei del passato

Pro­me­teo: il Titano che rubò il fuoco dagli dei per donarlo all’umanità; da sem­pre il sim­bolo della libe­ra­zione dalla schia­vitù dell’ignoranza e l’anelito alla cono­scenza come fonte di libertà. Ma anche la meta­fora della hýbris, dell’orgoglio che vìola leggi immu­ta­bili, con la con­se­guente néme­sis, la puni­zione divina, in que­sto caso per una cono­scenza di forze supe­riori che si pos­sono rivol­tare con­tro chi non è in grado di gestirle, per­ché il livello evo­lu­tivo non è ancora in grado di disper­dere le ombre che sca­tu­ri­scono dalla loro luce.

E così, prima del mostro gotico per eccel­lenza, la Crea­tura di Mary Shel­ley, altri ante­ce­denti mito­lo­gici e let­te­rari ci nar­rano della volontà dell’uomo di ricreare la vita imi­tando il suo stesso Crea­tore. Già nella Bib­bia, nel Salmo 139–16 infatti, com­pare la figura del Golem. Il ter­mine deriva pro­ba­bil­mente dalla parola ebraica gelem che signi­fica «mate­ria grezza» o «embrione», che gli Ebrei acco­mu­nano ad Adamo prima che gli fosse infusa l’anima.



Secondo la tra­di­zione caba­li­stica, dai poteri legati alla medi­ta­zione sui nomi di Dio si può fab­bri­care un Golem di argilla che può essere usato come servo. Si dice che il Golem sia stato creato attra­verso le for­mule con­te­nute nel Sefer Yetzi­rah — «Libro della for­ma­zione» o «Libro della Crea­zione» — il più impor­tante testo di rife­ri­mento dell’esoterismo ebraico risa­lente alla sapienza diAvra­ham, Abramo, che si distin­gue per l’esegesi dell’alfabeto e della cor­ri­spon­denza tra la dieci Sefi­rot e l’anatomia del corpo umano. Le Sefi­rot nella Cabala ebraica sono le dieci «ema­na­zioni» divine, cioè le moda­lità o gli «stru­menti» attra­verso cui Dio si rivela e con­ti­nua­ti­va­mente crea sia il Regno fisico che la Catena dei Reami meta­fi­sici supe­riori (Seder hish­tal­she­lus).

Il Golem era rite­nuto inca­pace di pen­sare, di par­lare e di pro­vare qual­siasi tipo di emo­zione per­ché privo di un’anima che nes­suna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di for­nir­gli. Que­sto sot­tile dia­framma separa, almeno nella tra­di­zione caba­li­stica, il Crea­tore dall’uomo, inca­pace di gene­rare la coscienza di sé: ciò che distin­gue in essenza la vita supe­riore da quella inferiore.

Nelle sto­rie nar­rate da Ahi­maaz ben Pal­tiel, cro­ni­sta medie­vale del XII secolo, si narra come nel IX secolo il rab­bino Ahron di Bag­dad, sco­prisse un Golema Bene­vento: era un ragazzo cui era stata donata la vita per mezzo delle for­mule magi­che con­te­nute nel Sefer Yetzi­rah. Sem­pre alla fine del IX secolo, secondo Ahi­maaz, nella città di Oria, in Puglia, risie­de­vano dei sapienti ebrei capaci di creare il Golem. È inte­res­sante notare come le let­tere, che per la tra­di­zione caba­li­stica potreb­bero essere uti­liz­zate per creare un Golem, sono le stesse con­ser­vate nelle pic­cole Mezu­zah — con­te­ni­tori del deu­te­ro­no­mio — sim­boli di alleanza con Dio, che si tro­vano presso le porte di ingresso delle case ebraiche.



Ancora oggi, ad esem­pio nel ghetto di Vene­zia, è pos­si­bile osser­varle. La Mezu­zah viene fis­sata obli­qua, come la vita. La sua fun­zione è ren­dere coscienti dei pro­pri doveri. Per i mistici ebrei, dun­que, la vita non si illu­mina se non c’è volontà con­sa­pe­vole. I caba­li­sti dicono che solo così si può var­care Mal­khut: lasefirà ove la luce cam­bia dire­zione, pas­sando dalla discesa alla salita. In chi non ha meriti è il luogo ove si fa espe­rienza della Caduta; per chi eser­cita la retta inten­zione è invece l’inizio della tra­sfi­gu­ra­zione; evi­den­te­mente tra le rette inten­zioni non rien­tra la volontà di ricreare la vita.

Tutte le leg­gende ine­renti il Golem, infatti, hanno in comune sia la volontà crea­trice dell’uomo che si vuole ele­vare a Demiurgo, sia la puni­zione divina per un’opera pro­me­teica che tra­va­lica le sue capa­cità. Non a caso la figura delGolem viene richia­mata nel romanzo della Shel­ley come ispi­ra­zione del dot­tor Frank­en­stein sia dal punto di vista dei limiti della crea­zione umana, anche laCrea­tura è appa­ren­te­mente senza anima, sia dal punto di vista della par­ti­co­la­ris­sima nemesi divina che si mani­fe­sta attra­verso l’attivazione di una oscura forma di coscienza da cui l’essere creato dall’uomo è comun­que in qual­che modo ani­mato e che fini­sce, pro­prio per que­sto, per rivol­tarsi con­tro il suo crea­tore che non lo rico­no­sce per ciò che egli sente di essere: un’entità forse non umana e tut­ta­via dotata di una con­sa­pe­vo­lezza pro­pria che vuole essere gratificata.

Tutti que­sti ele­menti sono magi­stral­mente rias­sunti nella vicenda del Golemcreato da Rabbi Loewe (1513–1609), cele­bre rab­bino in Praga, costrut­tore, secondo la leg­genda, di un poten­tis­simo essere di fango, usato come schiavo ma che, ad un certo punto, si ribella al domi­nio del suo dispo­tico crea­tore. La sto­ria narra come il Golem si rivol­tasse pro­prio per­ché non era rico­no­sciuto in lui lo «spi­rito», la sua vita equivalente.



Nel XII secolo esisteva una versione della leggenda secondo la quale, per animare il Golem, veniva scritta sulla sua fronte la parola «verità», in ebraicoתמאemet; quando veniva cancellata la lettera iniziale, l’Aleph, restava la parola «morte»,תמmet, ed egli si disa­ni­mava. Un giorno il rab­bino lasciò il servo di fango da solo; arri­vata la sera il Golem trovò una sua forma di esi­stenza e libertà tra le pola­rità oppo­ste della vita e della morte. Ine­briato da que­sta nuova sen­sa­zione fuggì semi­nando panico tra gli abi­tanti del ghetto ed alla fine solo la pre­senza di un bam­bino, un essere come lui inno­cente, lo fermò. La scena finale è que­sta: il Golem si inchina dinanzi al bam­bino che, invece di can­cel­lar­gli la let­tera, acca­rezza tutta la parola, così che egli possa final­mente morire, come un essere che ha vera­mente vissuto.

Una ver­sione della leg­genda, illu­strata da Dino Bat­ta­glia e pub­bli­cato sulla rivi­sta Linus nel mag­gio del 1971, fini­sce con que­sta frase illu­mi­nate: «Chi potrà dirci cosa pen­sava Dio nel guar­dare il suo rab­bino in Praga?».

Altro essere creato dall’uomo attra­verso le arti arcane è l’Homun­cu­lus attri­buito, tra gli altri, a Para­celso, il cele­bre medico ed alchi­mi­sta sviz­zero (1493–1514), il cui vero nome era Phi­lipp Theo­ph­rast von Hohe­n­heim. Nel testo del suo De natura rerum, per la verità più pro­ba­bil­mente un testo pseu­do­pa­ra­cel­siano, tro­viamo una ricetta in pro­po­sito, che parte da uno sper­ma­to­zoo (la fonte di vita), oppor­tu­na­mente alle­vato: «Se la fonte di vita, chiusa in un’ampolla di vetro sigil­lata erme­ti­ca­mente, viene sep­pel­lita per qua­ranta giorni in letame di cavallo e oppor­tu­na­mente magne­tiz­zata, comin­cia a muo­versi e a pren­dere vita. Dopo il tempo pre­scritto assume forma e somi­glianza di essere umano, ma sarà tra­spa­rente e senza corpo fisico. Nutrito arti­fi­cial­mente con arca­num san­gui­nis homi­nis per qua­ranta set­ti­mane e man­te­nuto a tem­pe­ra­tura costante pren­derà l’aspetto di un bam­bino umano. Chia­me­remo un tale essere Homun­cu­lus, e può essere istruito ed alle­vato come ogni altro bam­bino fino all’età adulta, quando otterrà giu­di­zio ed intelletto».

Que­sta tra­sfi­gu­ra­zione gui­derà anche la crea­zione dell’Homun­cu­lus nel Faust II di Goe­the. A que­sto pro­po­sito Pie­tro Citati, nel suo Goe­the, osserva che la meta che Faust si pro­pone è la più alta meta sim­bo­lica che Goe­the abbia mai pro­po­sto agli uomini: redime e sal­vare la natura.

Da notare anche in Para­celso, come poi sarà in Frank­en­stein, il rife­ri­mento alla «magne­tiz­za­zione» come forza agente della rivi­ta­liz­za­zione di sostanze orga­ni­che, che tro­viamo già nel ‘700 ad ani­mare un «falso automa» per eccel­lenza, ilTurco del barone unghe­rese Wol­fgang Von Kem­pe­len. Anche que­sta fan­ta­stica mac­china, infatti, capace di gio­care a scac­chi e di scon­fig­gere i più grandi scac­chi­sti euro­pei ed ame­ri­cani di quel secolo, si diceva fosse ani­mata dal «magne­ti­smo ani­male» stu­diato da Franz Anton Mesmer (1734–1815) e dun­que noto con il nome di «mesmerismo».

La noto­rietà del «mesme­ri­smo» è tale che Mozart, nel finale del primo atto della sua cele­bre opera Così fan tutte, fa «resu­sci­tare» Fer­rando e Guglielmo dalla came­riera Despina la quale, tra­ve­stita da medico, ria­nima i due ser­ven­dosi di una cala­mita, men­tre canta: «Que­sto è quel pezzo di cala­mita: pie­tra mesme­rica, ch’ebbe l’origine nell’Alemagna, che poi sì cele­bre là in Fran­cia fu».

Va detto che anche E. A. Poe, inda­ga­tore del segreto del Turco, era un seguace del «mesme­ri­smo», tanto da scri­vere alcuni cele­bri rac­conti sull’argomento, tra i quali Rive­la­zione Mesme­rica (o Magne­tica), in cui rac­conta di un sog­getto «mesme­riz­zato» che, in punto di morte, comin­cia a descri­vere la vita nell’aldilà. Qui lo scrit­tore dei più avvin­centi rac­conti dell’orrore senza nome rove­scia, in que­sto modo, l’archetipo delle crea­zione della vita mon­dana in quella dell’aldilà.



Gal­vani e Volta

Ma, oltre a que­ste ascen­denze leg­gen­da­rie o misti­che pre­senti nel romanzo, al tempo della con­ce­zione del Frank­en­stein furono ben più attuali ed influenti le evi­denze scien­ti­fico spe­ri­men­tali, dato che sin dalla metà del XVIII secolo diversi stu­diosi sta­vano esplo­rando la con­creta pos­si­bi­lità di rivi­ta­liz­zare la mate­ria inerte ren­den­do­gli quel «fluido vitale», come si pen­sava allora, che distin­gueva la vita orga­nica da quella inor­ga­nica. La lunga serie di ten­ta­tivi con­creti di dare nuova vita ai tes­suti morti nasce con il «gal­va­ni­smo», ter­mine deri­vato dagli espe­ri­menti di Gal­vani e di Volta.

Lo scien­ziato bolo­gnese stu­diò in par­ti­co­lare il cosid­detto feno­meno dell’elet­tri­cità ani­male svi­lup­pando, sulla base di que­sto assunto, la teo­ria secondo la quale gli esseri viventi fos­sero in pos­sesso di una sorta di elet­tri­cità intrin­secapro­dotta dal cer­vello, pro­pa­gata al corpo tra­mite i nervi, ed infine imma­gaz­zi­nata nei muscoli. Gli espe­ri­menti del padre della neu­ro­fi­sio­lo­gia nascono dalle osser­va­zioni di Ben­ja­min Frank­lin che, nel 1750, aveva dimo­strato come nell’atmosfera fosse pre­sente una carica elet­trica natu­rale che genera i lampi. Così Gal­vani nel 1786 cercò di capire se e come l’elettricità pre­sente nell’atmosfera potesse gene­rare con­tra­zioni musco­lari; si accorse ben pre­sto, però, che i due feno­meni, quello natu­rale cioè estrin­seco e quello endo­geno, intrin­seco ai corpi — in que­sto caso delle famose «rane pre­pa­rate» — erano sì di natura simile, ma diversi per generazione.

Lo scien­ziato, come spesso suc­cede, ebbe l’intuizione fon­da­men­tale durante un enne­simo espe­ri­mento per col­le­gare l’elettricità natu­rale al feno­meno delle con­tra­zioni: era il 1781; Gal­vani, aveva «pre­pa­rato» una rana, con i nervi cru­rali e il midollo spi­nale iso­lati, e l’aveva posta ad una certa distanza da una Bot­ti­glia di Leida, il primo rudi­men­tale gene­ra­tore di ener­gia elet­trica messo a punto, nell’omonima città, dall’olandese Pie­ter van Mus­schen­broek nel 1746. Durante lo scocco di una scin­tilla un assi­stente toccò per distra­zione con la pinza il nervo cru­rale sco­perto e que­sto pro­vocò un’intensa con­tra­zione delle cosce dell’animale.

Gal­vani rimase impres­sio­nato dall’evento – la pos­si­bi­lità cioè che esi­stes­sero altre forme di elet­tri­cità, oltre quella natu­rale estrin­seca — e decise di appro­fon­dire l’intuizione.

Dopo diversi espe­ri­menti riu­scì final­mente ad otte­nere delle con­tra­zioni col­le­gando, attra­verso un con­dut­tore metal­lico, le strut­ture ner­vose, nervi o midollo spi­nale, ai muscoli delle zampe. In que­sto modo Gal­vani aveva creato un sorta di cir­cuito simile a quello che si for­mava pro­prio nella Bot­ti­glia di Leida.

Nel suo De viri­bus elec­tri­ci­ta­tis in motu muscu­lari com­men­ta­rius del 1791, il bolo­gnese illu­stra le sue con­clu­sioni: esi­ste negli ani­mali una elet­tri­cità intrin­seca che egli chiama «elet­tri­cità animale».

Negli ani­mali, dun­que, esi­ste la capa­cità di imma­gaz­zi­nare il fluido elet­trico e di man­te­nerlo in uno stato di ecci­ta­zione poten­ziale che l’arco con­dut­tivo è in grado di met­tere in movi­mento pro­du­cendo la con­tra­zione muscolare.



Que­sta teo­ria fu poi con­te­stata da Volta che ini­ziò a con­si­de­rare l’idea che l’elettricità potesse deri­vare dai metalli stessi. Ben­ché Gal­vani dimo­strasse, nel 1797, che la con­tra­zione poteva essere pro­vo­cata con­net­tendo diret­ta­mente due nervi dell’animale senza l’utilizzo dell’arco metal­lico, que­sto espe­ri­mento, con­si­de­rato come fon­dante l’elettrofisiologia, non venne com­preso nelle sue impli­ca­zioni poi­ché Volta era riu­scito nel frat­tempo a creare una mac­china che poteva gene­rare ener­gia: la pila.

Il suc­cesso di que­sta inven­zione portò in auge Volta e l’ipotesi dell’elettricità ani­male venne accantonata.

Tut­ta­via qual­che decen­nio dopo, quando si com­prese che a gene­rare l’elettricità della pila erano gli ioni pre­senti nella solu­zione salina e che il ruolo dei metalli era solo quello di tra­sfor­mare l’energia chi­mica di que­sti ioni in ener­gia elet­trica, le intui­zioni di Gal­vani furono rivalutate.



Frank­en­stein Junior

In tutto que­sto la parte di com­pri­ma­rio venne gio­cata dal nipote di Gal­vani, Gio­vanni Aldini, una sorta di Frank­en­stein Junior che, tra il 1802 e il 1803, a Lon­dra, ese­guì degli espe­ri­menti su cada­veri umani e ani­mali con l’esplicito intento di ripor­tarli in vita: col­le­gava alcuni elet­trodi a teste moz­zate otte­nendo così delle con­tra­zioni dei muscoli pel­lic­ciai (quelli che gene­rano le varie espres­sioni del volto) e, mira­bile visu, a volte l’apertura delle pal­pe­bre, con effetti sugli spet­ta­tori che si pos­sono imma­gi­nare. Se poi gli elet­trodi veni­vano col­le­gati ai corpi deca­pi­tati si ave­vano vere e pro­prie con­vul­sioni e movi­mento degli arti che, per un momento, davano l’illusione di una pos­si­bile rinascita.

Come ci ricorda Alex Boese nel suo docu­men­ta­tis­simo Ele­fanti in acido, la dimo­stra­zione più cele­bre rimane quella svol­tasi a Lon­dra, al Royal Col­lege of Sur­geons, il 17 gen­naio 1803: «L’assassino ven­ti­seienne George For­ster, impic­cato per l’omicidio di moglie e figlio, appena stac­cato dalla forca fu por­tato nella sala del col­le­gio. Aldini col­legò i poli di una bat­te­ria rame-zinco da 120 volt a diverse parti del corpo di For­ster: al volto innan­zi­tutto, quindi alla bocca e alle orec­chie. I muscoli della mascella ebbero uno spa­smo e l’espressione dell’assassino divenne una smor­fia di dolore. L’occhio sini­stro si aprì, fis­sando sbar­rato il suo tor­tu­ra­tore. Aldini divenne l’onnipotente burat­ti­naio di quella mario­netta disar­ti­co­lata: fece bat­tere un brac­cio sul tavolo, inar­care la schiena, fece aprire i pol­moni in un ango­sciato respiro.

Poi, il gran finale: col­legò un polo ad un orec­chio e infilò l’altro nel retto. Il cada­vere comin­ciò una danza grot­te­sca e ter­ri­bile. Scrisse l’inviato del Lon­don Times che la mano destra si era alzata strin­gendo il pugno, men­tre le gambe e i fian­chi ave­vano ini­ziato a muo­versi. Agli spet­ta­tori non infor­mati su quel che stava suc­ce­dendo sem­brò dav­vero che il corpo di quel disgra­ziato fosse sul punto di ripren­dere vita».

Non sap­piamo se Aldini abbia anche ten­tato di rige­ne­rare sta­bil­mente un sin­golo organo morto, cosa impro­ba­bile per quei tempi senza tra­pianti, ma sap­piamo per certo che pro­prio dai suoi espe­ri­menti Mary Shel­ley trasse ispi­ra­zione per il per­so­nag­gio del dot­tor Frankenstein.



L’intelligenza del cuore

Dagli espe­ri­menti di ria­ni­ma­zione dell’800 dovremo atten­dere un cen­ti­naio di anni prima di arri­vare alle tec­ni­che tra­pian­ti­sti­che attuali, favo­rite nel tempo da una mag­giore cono­scenza sia della neu­ro­fi­sio­lo­gia e dell’immunologia, sia da un avan­za­mento tec­no­lo­gico in vari campi cor­re­lati. Si arriva così al primo inter­vento, quello ope­rato da Chri­stian Bar­nard nel lon­tano 1967, con tutti gli inter­ro­ga­tivi che poneva la nuova tec­nica: cos’è una per­sona, cosa ne forma l’individualità unica ed irri­pe­ti­bile, è pos­si­bile «restare se stessi» rice­vendo organi di un altro indi­vi­duo, soprat­tutto il cuore, vaso sim­bo­lico dei sen­ti­menti e delle regioni più pro­fonde dell’essere?

Ma Bar­nard, e molti altri dopo di lui, aveva tra­pianto un cuore pul­sante, vivo. Oggi, con il «ricon­di­zio­na­mento» di un cuore morto tra­pian­tato su un vivo, que­sti inter­ro­ga­tivi si espan­dono ulte­rior­mente: è ammis­si­bile ria­ni­mare un cada­vere, cioè resu­sci­tarlo? Porsi cioè alla stessa stre­gua della divi­nità, per chi ci crede almeno, che ne ha decre­tato la morte? In que­sta serie di que­stioni, da cui ovvia­mente ne con­se­guono molte altre – prima tra tutte la defi­ni­zione stessa di morte — risiede il senso di un dibat­tito che ondeg­gia tra psi­co­lo­gia, etica, medi­cina e religione.

Nes­sun organo come il cuore, infatti, assomma in sé sia la sim­bo­lica del prin­ci­pium indi­vi­dua­tio­nis cioè dell’unicità iden­ti­ta­ria di un indi­vi­duo, sia quello di una «intel­li­genza supe­riore», l’intelligenza del cuore appunto, in grado di far risuo­nare il nostro organo con quello della Crea­zione e del suo Crea­tore stesso, sim­bo­leg­giato nell’iconografia cri­stiana, dal Cuore di Gesù o da quello della Ver­gine dei sette dolori, tra­fitto di spade.

«Il cuore e non la ragione sente Dio» dice Pascal. Ma è cer­ta­mente S. Ago­stino il fon­da­tore del pri­mato del cuore: «Non cor­po­ris voce, quae cum stre­pitu ver­be­rati aeris pro­mi­tur, sed voce cor­dis, quae homi­ni­bus silet, Deo autem sicut cla­mor sonat»… non con la voce del corpo, la cui sono­rità risulta dalla vibra­zione dell’aria, ma con la voce del cuore, che è silen­ziosa per gli uomini, ma innanzi a Dio risuona come un grido. Una visione reli­giosa avva­lo­rata poi sul piano laico dall’avvento dell’Amor Cor­tese di cui Dante, suo seguace, si ser­virà nel descrive il Para­diso.

Ma la supre­ma­zia del cuore in quanto organo cen­trale dell’individualità, più fon­dante in que­sto senso del cer­vello, la tro­viamo già in Ari­sto­tele che, nel suoDe gene­ra­tione ani­ma­lium ci dice come sia il cuore che primo si svi­luppa e poi, a sua volta, svi­luppa l’embrione, arri­vando ad affer­mare che «il prin­ci­pio natu­rale è nel cuore».

Anche Isi­doro di Sivi­glia, l’enciclopedico sag­gi­sta medioe­vale, nel suo monu­men­tale trat­tato Ety­mo­lo­gia­rium sive Ori­gi­num afferma che: «Cuore è nome deri­vato dal greco kar­dias, ovvero dal sostan­tivo cura: nel cuore, infatti, risie­dono ogni sol­le­ci­tu­dine e causa di cono­scenza (causa scien­tiae)».



James Hill­mann nel suo L’anima del mondo ed il pen­siero del cuore sostiene che l’inizio del pro­cesso di «ricom­po­si­zione» della scis­sione che esi­ste tra il mondo den­tro e quello fuori di noi muove dalla con­sa­pe­vo­lezza di una comune appar­te­nenza. Per ren­derla effet­tiva è neces­sa­rio «scru­tare con­sa­pe­vol­mente l’abissale che esi­ste dentro-fuori di noi, restando in equi­li­brio, sof­fer­man­doci in que­sto pen­siero». L’abissale, secondo Hill­mann è il nostro stesso cuore, la nostra essenza più con­trad­dit­to­ria ed inesplorata.

Evi­den­te­mente il cuore del quale parla lo psi­ca­na­li­sta del Puer Aeter­nusè quello sim­bo­lico, sede della forza vitale che ci col­lega con l’anima del mondo. «È que­sto il cuore che vogliamo in petto», con­ti­nua Hill­mann, «non la mera pompa che si gua­sta in-farcita dello stress cui ci sot­to­pone la vita nella moder­nità». L’immagine che abbiamo del nostro cuore è dun­que fon­dante, per­ché ce lo resti­tui­sce come visione di qual­cosa che è pre­ci­sa­mente dentro-fuori di noi, che lega il nostro corpo par­ti­co­lare con il resto del mondo, pom­pando il fluido vitale che col­lega, attra­verso l’ossigeno, ogni sin­gola cel­lula pro­prio a quella atmo­sfera che ci con­sente la vita. Que­sta capa­cità del cuore di imma­gi­narsi nel mondo allo stesso tempo imma­gi­nando il mondo, cioè crean­dolo dalla natura stessa della sua pro­pria natura, è detta himma dal poeta-filosofo Ibn Arabi.

Certo il cuore è anche l’organo delle pas­sioni più feroci, basti pen­sare all’episodio del Deca­me­rone in cui Mes­ser Gui­glielmo Ros­si­gnone dà in pasto a sua moglie il cuore di Mes­ser Guar­da­sta­gno, ucciso da lui per­ché amante da lei. L’antropofagia poi, in ogni tempo e cul­tura, ed ancora oggi negli epi­sodi più bar­bari delle guerre attuali, vede l’atto di strap­pare e poi man­giare il cuore del nemico sia come forma di appro­pria­zione delle sua forza vitale sia come estremo sfre­gio al suo cadavere.

Anche nella Vita nuova, però, sem­pre in omag­gio alla visione «cor­diale» dell’Amor Cor­tese, Dante sogna che la sua amata gli mangi il cuore, volendo con que­sto sim­bo­leg­giare il rapi­mento spi­ri­tuale che lo coglie alla vista della figura di Bea­trice. Arri­vando ai nostri tempi, basti rife­rire l’inquietudine della signoraWash­kan­sky, moglie del primo tra­pian­tato che, alle domande dei gior­na­li­sti sul suo stato d’animo rispon­deva: «Quello che real­mente mi pre­oc­cupa è che mio marito non mi ami più». 

Ancora più sot­tile, però, fu il senso della rispo­sta alla domanda posta al tra­pian­tato stesso che aveva, da ebreo, avuto in dono dalla chi­rur­gia il cuore da un «gen­tile»: Wash­kan­sky disse che «si sen­tiva» benis­simo, come pure il secondo tra­pian­tato da Bar­nard che rice­vette, da bianco nel Sud Africa raz­zi­sta, il cuore di un nero, con la con­se­guenza di una lunga dia­triba filosofico-politica sulla pos­si­bi­lità che il cuore di un nero potesse entrare, con il suo nuovo corpo, nei locali per soli bianchi!

Infine vale la pena ricor­dare un topos della mira­co­li­stica cri­stiana: il tra­pianto ad opera dei Santi Medici Cosima e Damiano, nel III secolo d. C., della gamba di un nero su un bianco.

E dun­que, anche se la scienza avanza di buon passo, le ascen­denze filo­so­fi­che e sim­bo­li­che reste­ranno per­ma­nenti per molto altro tempo met­tendo il nostro cuore al posto giu­sto, facen­done sem­pre cioè il luogo dell’identità sen­ti­men­tale, anche quando, forse un giorno non lon­tano, saremo tutti delle nuove Crea­tureper­ché, nono­stante le diverse parti pos­sano pro­ve­nire da corpi diversi, come diceva già Nie­tzsche, «ciò che pensa ed ama è il nostro corpo nel suo insieme».


Il manifesto – 4 luglio 2015