TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 13 dicembre 2016

La cauzagna



Giannino Balbis

Il romanzo “La Cauzagna” di Rosilde Chiarlone


La notorietà – molto limitata – dell’opera oggetto di questo intervento è inversamente proporzionale all’importanza che essa ha per il proprio contesto storico-culturale. L’opera in questione è il romanzo La cauzagna di Rosilde Chiarlone; il contesto è quello della Val Bormida o, per maggior precisione, dell’ “alta” Val Bormida ovvero della Val Bormida “ligure”. La cauzagna è certamente il testo letterario più significativo del Novecento valbormidese, per intrinseco valore artistico ma innanzi tutto per capacità di interpretazione e di rappresentazione nei riguardi della storia valbormidese al suo livello più profondo.

Il romanzo esce nel 1975 per l’editore Sabatelli di Savona , opera prima (ed anche unica) di una allora cinquantacinquenne docente della Scuola media di Cairo Montenotte, originaria di una frazione di Piana Crixia – Cobarello – che è anche il luogo d’ambientazione del racconto (con un nome leggermente mutato: Cimarello); a Cairo la Chiarlone si distingue, oltre che per l’insegnamento, anche per l’impegno sociale e politico (fra l’altro, è consigliere al comune di Cairo dal 1970 al 1980, con delega alla Pubblica Istruzione e alla Cultura).

Il titolo del romanzo è singolare e di forte impatto simbolico. Cauzagna è una variante semi-dialettale di “capezzagna, cavedagna”; nel vocabolario contadino indica il “solco di fondo”, quello in capo al campo, perpendicolare agli altri solchi, un po’ solco e un po’ passaggio: perciò capace di rappresentare in metafora, proprio per la sua perpendicolarità e la sua precarietà, la condizione e il destino del mondo contadino.

La cauzagna, insomma, è il solco della “malora”; nel caso in questione, della malora valbormidese, che è nella sostanza identica a quella di ogni altro contesto contadino, ma con un percorso storico suo proprio, con accentuazioni e accelerazioni, dilemmi, contraddizioni e drammi suoi propri, con significati ed esiti (sul piano sociale, politico, economico ed anche ideologico e culturale) che, al tempo della redazione de La cauzagna, sono ancora tutti da valutare e capire: il che è esattamente uno degli obiettivi di fondo, se non l’obiettivo primario, del romanzo della Chiarlone.



Già il titolo, dunque, rivela le radici e le finalità prime del romanzo, entrambe riconducibili a quella che si potrebbe chiamare la “questione Val Bormida”, che attraversa l’intero corso della storia valbormidese (dall’età pre-romana all’oggi) e conosce una fase di particolare intensità proprio negli anni ’70 del ’900, momento di massima industrializzazione della Val Bormida ed anche delle prime avvisaglie della contestazione, della crisi, dell’inizio del declino.

Ma, come dicevo, la “questione Val Bormida” è vecchia di secoli, perché da secoli – si può dire da sempre – la Val Bormida è in cerca di una identità storica e culturale, che continuamente sembra sfuggirle o presentarsi sotto forme mutevoli, incerte, multipolari. Il destino di incompiutezza, di identità difficile della regione valbormidese è quello tipico di tutte le aree di frontiera, con l’aggiunta di alcuni caratteri di problematicità tipicamente liguri.

C’è un pezzo di Liguria, infatti, – la fascia della Liguria dell’oltregiogo (di cui è parte la Val Bormida, come lo sono le terre che ospitano questo convegno) – che si pone storicamente come Liguria “altra” rispetto alla marittima. È una fascia lungo la quale ha lasciato segni molto evidenti la contrapposizione fra i due fondamentali modelli storici di Liguria: quello di una Liguria “in verticale”, raccordata con l’entroterra padano (è il modello presente nella Liguria dioclezianea, con capitale Milano, o in quella delle tre marche di Berengario), e quello di una Liguria “in orizzontale”, più chiaramente proiettata sul mare (è il modello della Liguria bizantina, opposta all’oltregiogo longobardo, o della Liguria “genovese” medievale). Insomma: Liguria verticale vs Liguria orizzontale.

Il secondo modello – la “Liguria orizzontale” – è quello apparentemente vincente nella Liguria moderna, quello più facilmente leggibile nella Liguria di oggi. In realtà, i due modelli sono ancora entrambi operanti. E la dialettica che fra di essi si è determinata nei secoli è tuttora particolarmente avvertibile proprio nella suddetta fascia della Liguria d’oltregiogo: che da un lato guarda a sud, in direzione mare, e dall’altro guarda a nord, in direzione padana; è attratta dal contesto ligure-rivierasco, cui per altro appartiene sotto il profilo politico-amministrativo, ma è attratta anche dal contesto appenninico-padano, di cui è parte invece dal punto di vista geografico. In definitiva, è una fascia a doppia identità, combattuta fra due diverse opzioni di Liguria, ugualmente forti, ugualmente importanti.

I riscontri di questo bifrontismo ligure di lontane origini ed operante su vari piani interconnessi (storico-politico, geografico, socio-economico, culturale) sono numerosissimi. Per quanto riguarda in particolare il caso valbormidese, non c’è che l’imbarazzo della scelta. A livello storico-politico, ad esempio, dalle antiche opposizioni fra Celti e Liguri, fra Liguri e Romani, fra municipio di Alba e municipi di Albenga e/o Vado, si passa a quelle fra Longobardi e Bizantini, fra Del Carretto del Finale e Del Carretto di Millesimo, fra Genova e Stato Sabaudo, fino a quelle attuali fra Piemonte e Liguria, ovvero fra province di Cuneo/Alessandria e provincia di Savona, fra diocesi di Mondovì/Acqui e diocesi di Albenga/Savona: tutta la storia valbormidese è solcata dalla presenza di confini che ne spezzano sempre ogni potenziale progetto di unitaria identità. Sotto il profilo geografico, poi, è impossibile separare in maniera netta l’ “alta” dalla “bassa” Val Bormida, la Val Bormida dalla Langa, la Val Bormida dal Monferrato: i confini fra queste realtà non sono mai precisi ma sempre sfumati ed elastici.



Ed è perfino improbabile la definizione di Val Bormida al singolare, di fronte alla presenza, in realtà, di più Bormide e di più valli delle Bormide. Ma è sotto il profilo culturale, soprattutto, che la Val Bormida, stretta fra Langhe, Monferrato e Riviera di Ponente, sembra priva di una fisionomia univoca e piuttosto aperta alla dinamica sintesi di influssi di varia provenienza; sicché la sua specificità culturale sembra consistere in una vocazione a farsi alveo di confluenza di identità culturali esterne, che in Val Bormida – sfumando – vengono a incontrarsi e intrecciarsi. Sotto il profilo socio-economico, infine, l’antico bipolarismo fra civiltà della terra e civiltà dell’emigrazione si è trasformato, nel Novecento, nel bipolarismo fra mondo contadino e mondo dell’industria.

Ecco allora che la fine della cultura contadina è nient’altro che l’ultimo capitolo di una ininterrotta saga della ricerca dell’identità, che è l’intero senso della vicenda storica passata e presente della Val Bormida. La scomparsa del mondo contadino è, naturalmente, un evento non soltanto valbormidese; ma in Val Bormida esso ha un peso e un impatto più evidenti e immediati che altrove.

La malora è stata ovunque malora, ma quella valbormidese ha conosciuto un radicamento forse maggiore e punte di arcaicità più forti rispetto ad altri contesti (ad esempio quello langarolo, tanto per fare il paragone più scontato, ma anche più vicino e significativo); e poi ha conosciuto un crollo più rapido e traumatico, più violento (più “provocato”), più chiaramente irreversibile, a causa di una politica di industrializzazione (a tutti ben nota), che, dopo la riconversione nel primo dopoguerra delle fabbriche belliche di Cengio e Ferrania, sorte tra fine Ottocento e inizio Novecento, è andata in costante crescendo, soprattutto dagli anni ’30 al boom degli anni ’60, e, a parte Cengio, ha puntato massicciamente proprio sull’area cairese. Dalla fine degli anni ’60 e dai primi anni ’70 – il romanzo della Chiarlone, ribadisco, è del 1975 (non a caso) – comincia poi una lunga fase, di stasi prima e di declino poi, che, fra contestazioni, dismissioni e riconversioni varie, può considerarsi tuttora in atto.


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