TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 28 ottobre 2020

A proposito di rivoluzione e di antirivoluzione. Una discussione con Roberto Massari.

 


Giorgio Amico

A proposito di rivoluzione e di antirivoluzione. Una discussione con Roberto Massari.


Roberto Massari in un suo recente studio di grande interesse, Lenin e l'Antirivoluzione russa, sviluppa il concetto di “antirivoluzione” quale chiave interpretativa di quanto avvenuto in URSS a partire dal 1919. Riportiamo qui un nostro sintetico intervento in merito, originato da uno scambio di mail con l'autore.

Parlare di antirivoluzione mi sembra poco sostenibile soprattutto perché postula un concetto astratto  di rivoluzione. La rivoluzione è evento per sua propria natura irriducibile ad ogni concettualizzazione e generalizzazione (ed infatti non ce ne sono due uguali nel loro svolgimento), ma va intesa come un processo contraddittorio e complesso, causato certo da fattori strutturali sedimentatisi talvolta addirittura per secoli, ma, cosa che spesso viene dimenticata, frutto dell'azione spontanea di milioni di donne e uomini mossi da pulsioni largamente irrazionali. Un processo di conseguenza aperto a ogni possibile sviluppo, che continuamente supera se stesso e entra di continuo in contraddizione con le stesse rappresentazioni che quegli uomini e donne se ne erano fatti fino a quel momento.

Ma allora cos'è una rivoluzione? Proprio in quanto movimento spontaneo di massa è la fine di rapporti fra gli uomini fino ad allora considerati normali e immutabili. Un mutamento che va ben oltre il semplice rovesciamento di un governo o di un sistema politico e investe tutti gli aspetti dell'esistenza. Rivoluzione è la radicale rimessa in discussione di valori fino a quel momento ritenuti intangibili, tabù sessuali compresi. Non è un caso che ogni rivoluzione sia stata anche una grande esplosione erotica. “Di libero amore facean professione” recita una canzone simbolo del '68 e lo stesso si può dire del 1789 come del 1917. Insomma, siamo di fronte a un radicale ripensamento del mondo e dei rapporti fra gli uomini, rapporti di genere compresi. Tutto ciò che fino a quel momento era considerato razionale, come, tanto per rifarsi all'89, il ruolo sacrale del monarca, da un giorno all'altro non lo è più. L'autorità dello Stato, le sue leggi, le sue istituzioni sono rimesse radicalmente in discussione. Il potere, anche nei suoi aspetti più repressivi, non fa più paura. La rivoluzione rappresenta la liberazione dalla paura, il momento di rottura dell'ordine "naturale" delle cose, e dunque l'irruzione spontanea nel tempo "razionale" della storia di quanto sedimentava nell'inconscio più profondo delle masse.

È proprio questo carattere di spontaneità e di irrazionalità a spiegare gli aspetti demoniaci - usiamo qui il termine nell'accezione junghiana – che ne derivano e dunque sia il carattere di grande festa libertaria sia la violenza estremamente distruttiva delle azioni che le masse spontaneamente mettono in atto.   La rivoluzione rappresenta la prova tangibile di come la storia non si svolga secondo astratti criteri di razionalità o addirittura “leggi” immutabili, come sembra pensare un certo marxismo meccanicistico. Solo a posteriori e sul lungo periodo, questo vento impetuoso, tanto per citare le tesi di Benjamin sulla storia, può essere trasformato in una narrazione razionale e il più delle volte consolatoria. Si veda a questo proposito l'uso e l'abuso dell'idea di “progresso”. Nulla è meno prevedibile e più spontaneo di una rivoluzione. Giustamente Amadeo Bordiga, in questo corretto interprete del pensiero di Lenin, sostenne sempre che le rivoluzioni “non si fanno, ma si dirigono”.

Impostate così le cose, il concetto di antirivoluzione altro non può essere che il necessario ritorno alla normalità e all'ordine, ossia il relegare di nuovo Lucifero e gli angeli ribelli, cioè le forze del caos, nel profondo dell'inconscio collettivo della specie, ossia in quella sorta di inferno da cui si erano momentaneamente liberate. E questo perché la festa non può, per lo stesso equilibrio psichico dei partecipanti, diventare condizione permanente. Un bel gioco dura poco, recita la saggezza popolare. La rivoluzione, come il carnevale o le feste medievali dei folli, non può che essere di breve durata. Poi le porte fra tempo storico razionale e inconscio collettivo si richiudono e quest'ultimo riprende a scorrere come un fiume carsico e a manifestarsi nelle forme che gli sono proprie: il simbolico e dunque l'arte e la poesia, i movimenti ereticali, le visioni dei mistici, i rituali dei gruppi esoterici. In questo si può affermare che l'antirivoluzione sia il destino inevitabile di ogni rivoluzione, come ristabilimento di un “ordine” che è al contempo un superamento del vecchio ordine e, come pensava il vecchio Hegel, il manifestarsi di nuove contraddizioni ad un livello più elevato. Ma senza illusioni di progresso, perché l'uomo nelle sue pulsioni più profonde, come la distruttività, resta sempre lo stesso. Tornando alla Russia, solo così il processo contemporaneamente di continuità e rottura che c'è fra rivoluzione bolscevica e stalinismo può essere davvero compreso.